mercoledì 30 settembre 2009

La storia di Michele Ciminnisi e di Vincenzo Romano

La storia di Michele Ciminnisi e di Vincenzo Romano

Per caso. Si può vivere, per caso, o si può morire; per qualcuno questo conta meno di una monetina di rame. I pagani lo chiamano «fato», è «volontà divina» per i credenti. Loro due per puro caso sono stati ammazzati. O meglio, come dirà un pentito, «quando si spara si spara», mica si può distinguere, esitare. Si spara e si ammazza un boss; se muore qualcun altro è solo piombo sprecato, un vero peccato. I due protagonisti della nostra storia povera e semi sconosciuta si chiamano Michele Ciminnisi e Vincenzo Romano. Si conoscono da una vita, loro due, «paesani» di un piccolo centro come San Giovanni Gemini, arroccato su per la provincia di Agrigento.


Ciminnisi e Romano quel giorno stanno per morire l’uno di fronte all’altro. E’ il 29settembre del 1981. A ricordare quei momenti è Giuseppe Ciminnisi, figlio di Michele, che quel giorno era a giocare con i suoi amici per le strade di San Giovanni. Era un ragazzino di 14 anni, all’epoca. Mentre lui correva, tirava calci ad un pallone, suo padre, dopo il lavoro da impiegato comunale, si rilassava giocando a carte seduto al tavolo del bar Reina;



Vicenzo Romano era lì a guardarlo. Erano le sette di sera e quel piccolo locale era pieno. Dopo qualche minuto entra e si unisce a giocare con loro Calogero «Gigino» Pizzuto, che secondo molti pentiti in quel momento è il numero «3» della cupola palermitana, dopo Bontate ed Inzerillo. Pizzuto il 29 settembre è lì di passaggio. Lui è originario di Villalba, nel nisseno, ma vive a Palermo; è sua moglie ad essere originaria di San Giovanni Gemini. A ruota però lo seguono due, forse tre persone armate che raggiungono il boss e gli sparano contro diversi colpi. I killer sparano pur essendo completamente circondati da persone; ne hanno davanti, dietro e di fianco. Non importa. Loro sono lì per uccidere Pizzuto. Tutto il resto è solo «contesto». Sparano, e pure tanto. Fino a quando Pizzuto si accascia sul tavolo senza vita. Poi, con calma, raggiungono l’auto in cui li attende un complice e si dileguano. Nel bar oltre alla puzza di polvere da sparo, rimangono due, tre feriti, chi dai proiettili di rimbalzo, chi dalle schegge. Due corpi però sono immobili. Uno è quello del boss. L’altro è quello di Vincenzo Romano, stroncato da un proiettile che gli si pianta dritto nel cuore. Anche Michele Ciminnisi viene colpito da un proiettile che ha attraversato il corpo del boss. Cerca di alzarsi, si dirige verso l’uscita del bar, forse riesce a vedere anche l’auto dei killer che si allontana. Non importa, perché dopo qualche metro si accascia a terra senza vita. «Stavo giocando per strada, quando alcune persone mi dissero che era successo qualcosa al bar Reina – ricorda Giuseppe Ciminnisi -. Corsi verso il locale ma quando arrivai mi bloccarono impedendomi di vedere cosa era successo. Mi portarono a casa e mi dissero solo che mio padre era in ospedale, per un incidente. Solo all’indomani – conclude Ciminnisi - seppi la verità». Suo padre lascia una vedova, Nazarena, e tre orfani, Massimo, Carmelo e lo stesso Giuseppe. Fu una strage quella del bar Reina, una strage in cui morirono tre «vittime innocenti», come recitavano le prime cronache dell’epoca. Tutti però sapevano che le uniche vittime innocenti erano Ciminnisi e Romano. Pizzuto no, Pizzuto non era come loro. Pizzuto era uno che quella fine l’aveva messa in conto. Lui era un mafioso e questo oggi è assodato: si dibattè molto nei processi se fosse effettivamente capomandamento, se fosse capofamiglia di Castronovo o quant’altro. Ma che fosse mafioso e che fosse stato ucciso perché appartenente all’ala dei futuri «perdenti» nella guerra di mafia, nessuno ne ha mai dubitato. Giuseppe Ciminnisi oggi ha 43 anni, e solo da poco tempo riesce a raccontare questa storia senza crollare emotivamente. Dopo l’omicidio lui e la sua famiglia si ritrovano a fare i conti con qualcosa che prima ignoravano e che piomba loro addosso senza alcun preavviso. «Dopo l’uccisione di mio padre rimasi disorientato, senza riferimenti –dice Giuseppe-. Pensare che a parlarmi dei nostri diritti come familiari di vittima di mafia, dei benefit economici, delle assunzioni da parte delle pubbliche amministrazioni fu un tenente dei carabinieri, Lino Serra, che mi portò in caserma e mi spiegò tutto. Prima di lui non avevo mai incontrato lo Stato. Nessuno si era mai preoccupato di me, di noi». Passano gli anni e nulla si muove. Nessun processo, nessuna audizione dei familiari delle due vittime. Tutto tace fino a quando, tra il 1984 e il 1988, Tommaso Buscetta, durante la sua collaborazione con la giustizia, riconosce il Pizzuto come il numero «3» di cosa nostra palermitana. Sapeva della strage Don Masino, ma non aveva idea di chi fossero stati i killer. Dopo di lui ben nove collaboratori di giustizia raccontarono di quell’agguato e di quel «piccolo» errore dei killer.



Giuseppe Ciminnisi in quegli anni legge i giornali, accumula ritagli, prepara dei memoriali e inizia ad inoltrarli alla magistratura, chiedendo, alla luce di quanto emergeva, di istruire un processo sulla morte di suo padre e di Vincenzo Romano. Nel 1990 inizia il primo processo a Palermo sull’omicidio di Pizzuto, ma delle vere vittime di quell’agguato non si parla. Tutti gli imputati saranno assolti per insufficienza di prove: i pentiti non concordavano sugli esecutori materiali degli omicidi ma solamente sull’obiettivo dell’agguato. La situazione si sblocca solo nel 2003, dopo le dichiarazioni del super pentito Nino Giuffrè che racconta altri particolari sulla caratura criminale del Pizzuto e su quell’errore che era costato la vita a due innocenti. Ancora luce sul delitto verrà dalle dichiarazioni di Ciro Vara, mafioso latitante fino al 1994, che nel 2000 si decide a collaborare. «Vara – racconta Ciminnisi – dichiarò che ebbe un ruolo nella strage, ma solo come autista dei killer. Li andò a prendere e poi li riportò al sicuro dopo l’agguato». E Vara è l’unico superstite tra gli assassini: Gigi Garofano, Calogero Sala, Rosario Corsi, e Lillo Lauria, presunti killer, sono tutti morti ammazzati. E sarà sempre lo stesso Vara, qualora ce ne fosse stato bisogno, a ribadire in sede processuale che in quell’occasione «erano stati ammazzati due innocenti, e questo aveva fatto infuriare i vertici di cosa nostra». L’11 giugno del 2008, dopo la chiusura delle indagini, il giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Palermo, Vittorio Anania, rinvia a giudizio come mandanti dell’agguato di San Giovanni Gemini costato la vita a Ciminnisi e Romano: Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Pippò Calò; il gotha di cosa nostra. Oltre ai familiari delle due vittime, anche il Comune di San Giovanni Gemini è parte civile nel processo, con il patrocinio dell'avvocato Debora Di Caro; lo stesso comune che nel 1981 aveva pagato i funerali al boss Pizzuto, scatenando un vespaio di polemiche. Ciminnisi non perde un’udienza. E’ in aula anche quando, a turno, vengono ascoltati in videoconferenza i tre «capi dei capi». Sono ascoltati in realtà i loro avvocati, perché i boss non aprono bocca. Ciminnisi, che nel frattempo è diventato vicepresidente dell’Associazione nazionale delle vittime di mafia, fondata da Sonia Alfano, figlia del giornalista Beppe, ucciso a Barcellona Pozzo di Gotto nel 1993, aspetta il 16 marzo, data dell’interrogatorio di Nino Giuffrè, che potrebbe rivelarsi fondamentale. «Sono fiducioso per quanto riguarda il processo – confida Ciminnisi - perché sento che si arriverà ad una condanna, grazie ai collaboratori di giustizia e alle indagini che sono state condotte egregiamente». La domanda che sorge spontanea, ingenua, è quale soddisfazione possa derivare da un condanna, da un ergastolo inflitto a chi ne ha già un paio sulle spalle e non ha mai chiesto scusa, non si è mai pentito. «A me non interessa quanti ergastoli hanno, se uno, due o tre. Ne a quanti anni li condanneranno –dice Giuseppe-. Il mio desiderio è che finalmente si arrivi alla identità dei mandanti; quel giorno io saprò chi ha causato la morte di mio padre e di Romano». In questa storia, che assurda e atroce lo è già di per sé, si sono aggiunte altre beffe, causate talvolta dalla cieca burocrazia, talvolta da molto peggio. Come il rifiuto dei benefici dei familiari di vittime innocenti della mafia a Salvatore Romano: la Regione ha deciso che prima di fare qualunque passo si dovrà attendere la fine del processo, quando emergerà l’assoluta estraneità ai fatti delle due vittime, nonostante il quadro sia ormai chiarissimo. «Quando abbiamo sentito queste parole ci è sembrato giusto ricordare ai dirigenti regionali che non siamo noi gli imputati nel processo, ma siamo le vittime». Ultimo tentativo di «revisione» della vicenda viene, paradossalmente, da un parroco, don Totò Traina. «Durante un'intervista ra­diofonica –racconta Ciminnisi- citando un suo vecchio articolo con dati e circostanze sbagliate, ha commesso l'errore di non tracciare la linea di demarcazione tra le vittime innocenti della mafia morte nella strage e chi invece è stato assas­sinato in virtù della propria organicità in cosa nostra». Quando Giuseppe va dal prete a chiedere spiegazioni e scuse, don Traina gli risponde: «quello che dico io è sentenza». Di quale processo, però, non si sa.

Benny Calasanzio

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