giovedì 5 agosto 2010

Strage di Capaci, la Procura indaga sulla sesta vittima


Strage di Capaci, la Procura
indaga sulla sesta vittima


Donna morta nel marzo ’92,
non fu suicidio
Era amica di Gioè
Il pm: forse fu eliminata


RICCARDO ARENA

PALERMO

Era una donna religiosa, serena, viveva con la madre e non aveva alcun motivo di uccidersi. E nemmeno di essere uccisa. Eppure Maria Rosaria Maisano, 35 anni, originaria di un paese del Palermitano, Piana degli Albanesi, finì carbonizzata dentro la sua vecchia A112. Era il 9 marzo del 1992 e l'inspiegabile «disgrazia» avvenne a Isola delle Femmine, al confine con il territorio del Comune di Capaci. In una stradina che, in linea d'aria, è a non più di trecento metri dal luogo della strage Falcone.

Questo vecchio caso, archiviato per due volte a Palermo, prima come suicidio e poi come omicidio commesso da ignoti, è stato rispolverato a Caltanissetta, dove c'è la Procura che indaga sui tanti aspetti irrisolti delle stragi del 1992. Perché, fra le altre cose, Maria Rosaria conosceva bene Antonino Gioè, uno degli autori della strage in cui furono uccisi il giudice Giovanni Falcone, la moglie, Francesca Morvillo, e tre agenti di scorta.

Anche se può sembrare paradossale, Gioè, mafioso doc e uomo dei mille misteri, ritenuto al centro di intrecci e contatti con uomini dei Servizi, morto suicida in cella, a Rebibbia, nel giugno del ‘93, frequentava un gruppo del Rinnovamento nello Spirito. Lo stesso movimento religioso cui aderiva Maria Rosaria Maisano. I due erano di paesi vicini, di Piana lei, di Altofonte lui, e, poco tempo prima che la donna morisse, si erano incontrati a casa dei familiari della donna.
Nel marzo del 1992 Gioè lavorò proprio nella zona in cui la Maisano fu trovata morta: si occupava della pulizia dei sottopassi e dei cunicoli dell'autostrada, per conto della ditta Di Matteo, sub-appaltatrice dei lavori, e che li gestì fino al 31 marzo di quell'anno. Il mafioso sfruttò il lavoro per cercare il punto giusto: in uno di quei cunicoli fu piazzato infatti, con uno skate board, l'esplosivo della strage.

Il pm nisseno Gabriele Paci, sollecitato da un'istanza della famiglia, ha riaperto il fascicolo ed è andato a fare un primo sopralluogo sul luogo in cui la A112 della Maisano fu ritrovata, in via Passaggio delle Rose, una zona di villette che in marzo è quasi del tutto disabitata. Il posto ideale per liberarsi di qualcuno che magari ha visto troppo.

Gioè è l'uomo che involontariamente, un anno dopo la morte della Maisano, nel marzo del 1993, a Palermo, diede agli inquirenti la strada per risalire agli autori della strage. L'uomo viveva in un appartamento di via Ughetti, a pochi passi dall'ospedale Civico. Lì la Dia aveva piazzato le microspie e gli investigatori lo ascoltarono mentre diceva a un altro mafioso di Altofonte, Gioacchino La Barbera, una frase rimasta famosa: «Dduocu, unni ci fici l'attentatuni (là, dove feci il grande attentato)». Furono arrestati entrambi: Gioè tre mesi dopo preferì uccidersi, La Barbera parlò e da quel momento si fece luce sull'«attentatuni».

La mattina del 9 marzo del 1992 Maria Rosaria Maisano andò a Capaci, per fare visitare il proprio gatto da un veterinario. Non trovò il medico e tornò indietro. La strada che doveva percorrere era quella in cui lavorava Gioè. Il suo cadavere fu ritrovato nell’auto ancora in fiamme, disteso sul sedile reclinato della A112. Posizione innaturale per un suicida, ideale per una persona stordita.

Le condizioni del cadavere erano tali che l'autopsia non chiarì se fosse stata colpita. Un anno e mezzo dopo la morte della donna, spuntò una relazione di servizio di due carabinieri, che affermarono di avere salvato, nel 1988, la Maisano da un tentativo di suicidio in mare, accompagnandola poi alla Guardia medica.

Di questa visita da parte dei sanitari non c'è traccia alcuna. Un depistaggio, per i familiari. Ora a Caltanissetta cercheranno di capirne di più.

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