lunedì 31 gennaio 2011

Agguato contro Vincenzo e Carmelo Marotta, 16 e 30 anni, parenti del boss Fragapane.

Agrigento, agguato mafioso: spari contro auto Ferito alla testa un bimbo di 6 anni: "E' grave"



Un'auto che si affianca in coda: dai finestrini i sicari aprono il fuoco a pallettoni. Agguato contro Vincenzo e Carmelo Marotta, 16 e 30 anni, parenti del boss Fragapane. Ma nella sparatoria viene colpito alla testa il piccolo Salvatore, 6 anni. E' in condizioni gravissime


Agrigento - Un’auto supera alcune vetture incolonnate, di ritorno da una gita in campagna, e si affianca a una Seat Ibiza sulla quale viaggiano uno zio e i suoi due nipoti, uno dei quali ha solo sei anni. All’improvviso dal finestrino sbuca un fucile e in un attimo una grandinata di pallettoni investe l’utilitaria mandando in frantumi i vetri e sforacchiando la carrozzeria. Uno dei proiettili colpisce alla testa il piccolo Salvatore, che cade riverso in un pozza di sangue. Riescono invece a scampare alla tempesta di piombo il fratello maggiore del bimbo, Vincenzo, che ha 16 anni, e lo zio, Carmelo Marotta, di 30, feriti di striscio a un braccio e al viso.


Agguato mafioso La sparatoria è avvenuta ieri sera alla periferia di Sant’Elisabetta, paese dell’entroterra agrigentino considerato un feudo di Cosa nostra. Ed è proprio un agguato di stampo mafioso la pista che gli investigatori sembrano privilegiare, senza tuttavia scartare a priori altri moventi, compreso quello privato. Ad avvalorare questa ipotesi ci sarebbe una parentela "importante" con un boss di spicco dell’agrigentino: Salvatore Fragapane, 54 anni, ex capo provinciale di Cosa nostra già condannato all’ergastolo. Altri esponenti della famiglia Fragapane sono stati arrestati e condannati in passato con l’accusa di associazione mafiosa. Ma il capo indiscusso resta Salvatore, che avrebbe retto le redini del mandamento di Agrigento fino al momento del suo arresto, avvenuto il 25 maggio del 1995 nelle campagne di Casteltermini.

Interrogatorio Gli investigatori hanno interrogato fino a notte fonda i due testimoni della sparatoria, zio e nipote, e i familiari nel tentativo di individuare un eventuale nesso tra l’agguato e un regolamento di conti all’interno delle cosche agrigentine. Ma è ancora troppo presto per stabilire con certezza il movente. Intanto le condizioni del piccolo Salvatore sono gravissime. Il bimbo, dopo essere stato operato d’urgenza nell’ospedale San Giovanni di Dio di Agrigento per estrarre dalla testa il pallettone, è stato trasferito con l’eliambulanza del 118 nel reparto di neurochirurgia dell’ospedale civico di Palermo. Solo nelle prossime ore i medici diranno se riuscirà a salvarsi.



Evasione fiscale record Vale 50 miliardi: +46% Ma 30 sono già rientrati


Nel 2010 il sommerso ammonta euro, con un aumento del 46% rispetto al 2009. Ma l'attività di contrasto della Gdf è efficace: oltre 30 miliardi recuperati, 20 da evasori totali e 10 dall'estero a 50 miliardi di






Roma - Un'evasione fiscale da 50 miliardi di euro. Il valore di due Finanziarie. Ma, e questa è la buona notizia, crescono i risultati della lotta al sommerso della guardia di finanza. Nel 2010 le Fiamme gialle hanno scoperto redditi non dichiarati al fisco per 49,245 miliardi di euro (+46% sul 2009). Tra questi spiccano 20,263 miliardi di euro (+ 47% rispetto al 2009) occultati dagli 8.850 evasori totali identificati (+ 18% rispetto al 2009), ossia soggetti che pur svolgendo attività economiche non avevano mai presentato le dichiarazioni dei redditi.




Evasione internazionale Sono stati inoltre individuati 10,533 miliardi dai casi di evasione fiscale internazionale (a fronte dei 5,8 miliardi del 2009): con la residenza all'estero di persone fisiche e società, triangolazioni con Paesi off-shore e omesse dichiarazioni di capitali detenuti all’estero. I casi di evasione fiscale internazionale scoperti sono risultati principalmente concentrati in Lussemburgo per il 26%, in Svizzera per il 25%, nel Regno Unito 7%, a Panama per il 6%, a San Marino e nel Liechtenstein per il 2% ciascuno, mentre la restante quota è distribuita fra gran parte degli altri 54 paradisi fiscali della black list italiana. Nel periodo 2008-2010 la percentuale di recepimento dei rilievi della guardia di finanza in sede di accertamento si attesta a oltre il 93% con importi che ammontano, complessivamente, a circa 26 miliardi di imposta accertata fra imposte dirette, Iva, Irap e ritenute.



domenica 30 gennaio 2011

E' morto Rocco Antonio Gioffré ritenuto uno dei maggiori boss di Seminara

Questa mattina a Messina è morto Rocco Antonio Gioffré di 76 anni ritenuto uno dei principali boss della 'ndrangheta delle zone di Seminara. La morte è dovuta a circostanze naturali
 
 
Rocco Antonio Gioffrè, di 76 anni, ritenuto uno dei boss dell’omonimo clan di Seminara, è morto stamani per cause naturali in ospedale a Messina dove era stato ricoverato, a seguito di un trasferimento dal carcere della stessa città, a causa delle precarie condizioni di salute. Gioffrè, detto «U'ndolu», nomignolo attribuito alla sua famiglia per differenziarla da altri omonime della stessa cittadina, era stato arrestato nel novembre del 2007 in seguito all’inchiesta denominata Topa della Dda di Reggio Calabria e condannato per associazione mafiosa e voto di scambio. Nell’ambito dell’operazione vennero arrestati il sindaco ed il vicesindaco di Seminara e successivamente il Comune venne sciolto. Nel 2009 Gioffrè venne raggiunto da una nuova ordinanza di custodia nell’ambito dell’inchiesta Artemisia che aveva messo in ginocchio i clan locali protagonisti di una faida. Il nome di Rocco Antonio Gioffrè, come risulta da un’intercettazione fatta nella sua auto, era emerso anche in relazione all’incontro tra le famiglie mafiose dopo la strage di Duisburg nella quale vennero uccise sei persone. Il boss aveva partecipato all’incontro durante i festeggiamenti in onore della Madonna di Polsi, in Aspromonte, e che avrebbe portato ad un armistizio tra le famiglie coinvolte nella faida di San Luca dei Pelle-Vottari e Nirta Strangio.



La ricetta del successo Ecco come nascono i telepredicatori


Gli anchormen non si accontentano più di dettare la linea alla sinistra: vogliono guidare il Paese. Travaglio e Saviano hanno il polso dei loro seguaci più di Vendola e Bersani


I supplenti dell’opposizione hanno preso la laurea in tv. Nelle fumerie d’oppio della prima sera­ta. Nei calderoni altrimenti deno­minati talk show. Nelle piazze vir­tuali più o meno ribollenti. Ades­so però si preparano a esercitarsi nelle piazze tout court , il 13 feb­braio prossimo, davanti al Palaz­zo di giustizia di Milano. Del re­sto, il momento è quello che ve­diamo tutti i giorni nei tg e nei pro­grammi di approfondimento con risse e telefonate incorporate. Lì, sotto i nostri occhi, si sta consu­mando la grande metamorfosi del conduttore. Un po’ come av­viene per certi mostri, certi supe­ruomini dalla doppia vita che po­polano il cinema per ragazzi e che, in particolari condizioni, si trasformano. Ecco qua, i supplen­ti dell’opposizione sono gli esseri geneticamente modificati della specie «tribuni televisivi». Santo­ro, Lerner, Travaglio conduttori militanti lo sono sempre stati. Sa­viano, invece, la laurea (non quel­la honoris causa ) l’ha presa di re­cente.


Ora che l’ Armageddon si avvici­na, assistiamo a uno scatto in avanti. Annozero , Il Fatto quoti­diano , gli scritti di Saviano non so­no più solo programmi tv, testate giornalistiche, espressioni intel­lettuali. Sono strumenti di attività politica, marchi e soggetti che in­nescano appartenenze, per i qua­li si può tifare. In buona parte so­no le condizioni esterne a provo­carlo. Innanzitutto la radicalizza­zione dello scontro tra poteri del­lo Stato. Poi l’ostruzionismo im­potente e maldestro dei cosiddet­ti organi di controllo, dalle autho­r­ity fino ai vari tentativi del diretto­re generale della Rai Mauro Masi. Infine, ma soprattutto, la latitan­za dell’opposizione tradizionale. Così Santoro & Co. riempiono un vuoto.

Per capire come stanno le cose in un certo mondo che non si può più definire solo banalmente di si­nistra (l’antiberlusconismo è di­ventato un fattore ancor più ag­gregante come dimostra il caso di Futuro e libertà) basta confronta­re due iniziative pubbliche con­tro il premier. La raccolta di firme indetta da Bersani e appunto la manifestazione a sostegno della Procura di Milano promossa da Santoro e soci. Come si è visto pro­prio ad Annozero nel duetto tra Rosy Bindi e Paolo Mieli che invi­tava il Pd a rovesciare nelle urne le eventualissime 10 milioni di adesioni anti-Cav, l’iniziativa dei gazebo suscita reazioni che van­no dallo scetticismo all'ilarità pas­sando per la compassione (nella parodia de Gli Sgommati di SkyU­no, il povero Bersani che racco­glie le firme diventa un arrotino o un cantante da metrò). Tutt’altra accoglienza,frutto di tutt’altra de­terminazione e del sèguito con­quistato in televisione, è quella ot­tenuta dall’annuncio del raduno davanti al tribunale milanese: un’idea che vellica il popolo vio­la, scalda gli animi, schiera le piaz­ze.

Qualche giorno fa Saviano ha stabilito che a Napoli bisognava rifare le primarie e Bersani si è adeguato dopo aver rinviato l’as­semblea nazionale del partito.

 Maurizio Caverzan


Questa magistratura è intoccabile I suoi errori costano 400 milioni

Ecco i risarcimenti ai cittadini vittime di ingiusta detenzione o di errori giudiziari negli ultimi 10 anni. Ma nello stesso periodo sanzioni dure solo per una decina di toghe. La Corte europea ha condannato l'Italia a ripetizione per le sentenze lumaca


Roma - La Casta, com’è stata chiamata quella dei magistrati, difende se stessa con la giustizia «domestica» e corporativa. Quella del Csm, dove si celebrano i processi promossi dai titolari dell’azione disciplinare: il ministro della Giustizia e il Procuratore generale della Cassazione.


Nell’ultimo decennio in Italia la media dei magistrati colpiti dalla rimozione dall’ordine giudiziario per gravi illeciti disciplinari, è di 1,3 ogni anno. Tra il 2000 e il 2007 la sanzione più grave è stata applicata 6 volte, nel triennio 2008-2010 ha riguardato 7 toghe. Nel 2008 le sanzioni disciplinari di vario grado hanno colpito meno dello 0,5 per cento dei magistrati.

Per il Pg della Suprema Corte Vitaliano Esposito, che ne ha parlato all’inaugurazione dell’anno giudiziario, qualcosa sta cambiando. Ma rimane il fatto che l’altissimo numero degli esposti di privati cittadini, dice l’alto magistrato, «è la testimonianza più evidente dell’insoddisfazione, largamente diffusa, per il “servizio giustizia”». Delle 1.382 denunce arrivate lo scorso anno alla Procura generale ne risultano 573 di privati, anche se per Esposito in realtà sono molti di più per un errore di classificazione.

Le cause intentate dai cittadini vittime di ingiusta detenzione o errori giudiziari, negli ultimi 10 anni sono costate allo Stato italiano circa 400 milioni di euro.

A questa insoddisfazione dei cittadini, secondo il Pg, «non si può sempre ovviare con lo strumento disciplinare, concepito dal legislatore come rimedio specifico per reprimere situazioni di grave patologia comportamentale dei magistrati». Esposito sottolinea che ci sono «altri strumenti» nell’ordinamento per contrastare i comportamenti colpevoli dei magistrati.

Il problema è che leggi come quella sulla responsabilità civile delle toghe, rimangono lettera morta. E i dati della Commissione europea per l’efficacia della giustizia dicono che nella classifica della severità delle sanzioni applicate ai suoi membri, la magistratura italiana si trova al sesto posto fra i Paesi del Consiglio d’Europa.

Spesso non solo giudici e pm non pagano per inchieste basate sul nulla, violazioni dei criteri di competenza, dispendiose e spettacolari azioni che portano dopo anni ad archiviazioni, ma neppure questo ha riflessi sulla loro carriera politica, come dimostrano tanti casi di promozioni e normale scalata nella carriera malgrado curricula fortemente macchiati.

Nella recente riforma dell’ordinamento giudiziario si pone fine all’automatismo e si introducono le valutazioni periodiche di professionalità e produttività, ma il sistema è ben lontano dall’essere a regime. Ci vorrebbero, tra l’altro, gli standard di produttività delle toghe previste dalla legge. Per il settore civile, però, è partita in grave ritardo questo mese solo la prima sperimentazione in tre città (Bologna, Firenze e Caltanissetta), mentre per il penale siamo in alto mare.

Il Pg della Cassazione spiega che da due anni trasmette al Csm fascicoli da archiviare perché non sono stati individuati comportamenti illeciti, che però evidenziano «vistose cadute di professionalità, non solo tecnica», perché se ne tenga conto nella progressione di carriera e per l’attribuzione di incarichi direttivi. Ma è il Csm a decidere e la forza delle correnti a Palazzo de’ Marescialli è sempre forte.

Quello dei ritardi nel deposito delle sentenze è un problema enorme. Ed Esposito denuncia: «Non siamo più in grado neanche di pagare gli indennizzi dovuti per la violazione dei canoni di un giusto e celere processo (legge Pinto, ndr.». La Corte europea di Strasburgo ci ha condannato per 475 casi di ritardi nel pagamento dei risarcimenti: si è passati da quasi 4 milioni di euro del 2002 agli 81 del 2008, di cui ben 36,5 non ancora pagati. Esposito richiama i capi degli uffici giudiziari, chiede controlli maggiori per velocizzare i tempi della giustizia e smaltire l’arretrato che soffoca i tribunali. Ma sono richiami che sentiamo ogni anno e quasi sempre rimangono inascoltati.


 Anna Maria Greco



 

sabato 29 gennaio 2011

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Bandito Giuliano, ancora nessuna risposta dal Dna

PALERMO - "Smentisco che dagli accertamenti finora eseguiti sia emersa l'identità del Dna estratto dal cadavere riesumato nel mese di ottobre a Montelepre, ritenuto del bandito Giuliano, e quello dei congiunti finora usato per la comparazione": lo ha detto il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, smentendo la notizia apparsa su alcuni quotidiani secondo la quale sarebbe stato accertato che il Dna estratto dal cadavere per anni ritenuto del bandito di Montelepre sarebbe identico a quello dei familiari di Giuliano ancora in vita.

Ingroia coordina le indagini aperte per accertare se quello sepolto nel cimitero di Montelepre sia effettivamente Salvatore Giuliano o se invece, come ipotizzato da alcuni esposti, non si tratti del cadavere di un sosia sepolto al posto del bandito.

Per fugare i dubbi sull'identità del corpo, dopo la riesumazione, la Procura ha incaricato alcuni esperti di comparare il profilo genetico rilavato dai resti del corpo con quello di alcuni congiunti di Giuliano, come il nipote Giuseppe Sciortino.

"Ad oggi - ha aggiunto Ingroia - l'ipotesi di una sostituzione di cadavere resta aperta. Attendiamo l'esito delle analisi".
Secondo indiscrezioni ci sarebbe la possibilità, comunque, che la comparazione tra i reperti e il profilo dei congiunti viventi di Giuliano, legati da parentela non diretta con il bandito, non siano sufficienti per una attribuzione certa.

"La mafia ha infestato il territorio messinese"

MESSINA - "Le organizzazioni mafiose nel nostro territorio alterano e hanno alterato la dinamica istituzionale: si delinea una zona grigia in cui l'arrendevolezza di alcuni organi dello Stato consente all'antistato di insinuarsi nei gangli vitali e trafficare illecitamente". Lo ha detto il presidente della Corte d'Appello di Messina, Nicolò Fazio, durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario.

"Nel distretto messinese la criminalità di stampo mafioso - ha aggiunto - è rimasta avvolta per anni in un 'cono d'ombra' che le ha permesso di radicarsi e d'infestare il territorio.

I sodalizi criminali della fascia tirrenica - ha proseguito Fazio - hanno così potuto strutturarsi, acquisendo i metodi operativi di Cosa nostra palermitana, con la quale intrattengono intensi rapporti di affari e da cui hanno mutuato i comportamenti e il linguaggio.

Tali associazioni, per la varietà degli interessi espressi dal territorio - ha detto - in cui sono presenti, tendono a controllare in qualsiasi modo non solo l'economia illegale, cioè il traffico di stupefacenti, le estorsioni e l'usura, ma anche l'economia legale, manovrando le imprese direttamente o indirettamente".

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Latitante di mafia arrestato in autostrada

Marco Conti Taguali, 36 anni, era ricercato dallo scorso anno per associazione mafiosa e omicidio, è stato arrestato sull'autostrada Siracusa-Catania


SIRACUSA. Il latitante Marco Conti Taguali, 36 anni, ricercato dallo scorso anno per associazione mafiosa e omicidio, è stato arrestato sull'autostrada Siracusa-Catania da agenti della polizia stradale del distaccamento di Lentini durante un controllo. Nei suoi confronti, il 14 gennaio del 2010, la Corta d'assise di Catania aveva emesso un ordine di custodia cautelare in carcere.

Conti Taguali era stato fermato nei pressi della galleria San Fratello a bordo della propria auto. Ai poliziotti ha detto di non avere con sé documenti di identità personali ed ha fornito false generalità. Ma il suo comportamento ha insospettito gli agenti che hanno deciso di condurlo negli uffici della polizia per accertamenti più aprofonditi. E' emersa così la sua vera identità e che era ricercato. Per questo è stato arrestato e condotto in carcere.

Mafia, condannato l'uomo che brindò alla strage di Capaci

Sei anni di reclusione per Girolamo Guddo, 74 anni, proprietario della villa di Altarello in cui fu pianificata la strategia di violenza mafiosa aperta dall'omicidio di Salvo Lima e chiusa dall' eliminazione dell'esattore Ignazio Salvo


PALERMO. La quinta sezione del tribunale di Palermo ha condannato a 6 anni di reclusione Girolamo Guddo, imputato di concorso in associazione mafiosa. Si tratta del proprietario della villa del quartiere di Altarello in cui fu pianificata, all'inizio del 1992, la strategia di violenza mafiosa aperta dall'omicidio di Salvo Lima e chiusa dall' eliminazione dell'esattore Ignazio Salvo, passando per le stragi di Capaci e via D'Amelio.

E a casa di Girolamo Guddo, 74 anni, i boss brindarono alla riuscita dell'eccidio costato la vita al giudice Giovanni Falcone, alla moglie Francesca Morvillo e a tre agenti di scorta. Era il 23 maggio 1992 e proprio Guddo, secondo il pentito Salvatore Cancemi (morto nei giorni scorsi) andò a comprare lo champagne.

L'imputazione originaria contestata al boss di Altarello era l'associazione mafiosa, ma oggi il collegio presieduto da Giuseppina Cipolla l'ha derubricata in concorso esterno. Il pm Rita Fulantelli aveva proposto 9 anni. All'udienza di oggi si sarebbe dovuto ascoltare Cancemi, ma i giudici hanno preso atto della sua scomparsa e hanno acquisito i suoi verbali. A Guddo, per effetto di queste accuse, erano già stati confiscati i beni e il suo patrimonio è stato destinato a fini sociali.

In Cosa nostra c'é anche un altro Girolamo Guddo, cugino del condannato e al quale a sua volta era stato inflitto l'ergastolo nel processo Tempesta, perché aveva messo a disposizione il suo pollaio, poco distante dalla villa del brindisi, per alcuni omicidi di mafia.

Girolamo Guddo era già stato processato a Caltanissetta, perché la sua vicenda era stata ritenuta collegata ai processi per le stragi. Il 13 maggio del 2005 la sesta sezione penale della Cassazione aveva però annullato la sentenza, ritenendo insussistente la connessione con gli eccidi che videro come vittime i magistrati palermitani e i loro uomini di scorta. Gli atti erano stati così "rinviati" nel capoluogo siciliano e il procedimento contro Guddo era dovuto ripartire dalla fase delle indagini.

'Ndrangheta, Sequestrati nel Crotonese beni per 7 milioni di euro

I beni sequestrati a tre uomini ritenuti affiliati alla cosca Scerbo di Isola Capo Rizzuto, vicina al clan Arena
 
 
Beni per un valore di 7 milioni di euro sono stati sottoposti a sequestro dagli uomini del comando provinciale della Guardia di finanza che hanno eseguito un provvedimento emesso dal Tribunale di Crotone su richiesta della Procura distrettuale antimafia di Catanzaro nei confronti di tre uomini ritenuti affiliati alla cosca Scerbo di Isola Capo Rizzuto, vicina al clan Arena.


Si tratta di Vincenzo Domenico Lentini, 46 anni; Antonio Romeo Scerbo, di 48 anni e Romolo Scerbo, di 49 anni. Le fiamme gialle hanno apposto i sigilli a beni immobili, autovetture, disponibilità finanziarie, quote societarie e a due complessi aziendali operanti nel settore della produzione di calcestruzzo; tutti beni che, secondo quanto accertato da un’indagine patrimoniale della Guardia di finanza, i tre uomini non avrebbero potuto accumulare a fronte dei modesti redditi dichiarati negli anni. La cosca Scerbo era già balzata all’attenzione dei finanzieri nell’ambito di un’indagine che ha portato alla luce una serie di attività estorsive perpetrate ai danni del villaggio turistico Tucano di Le Castella, nel comune di Isola Capo Rizzuto, e sfociata, nel 2009, in un’operazione antimafia denominata appunto Tucano. In quella occasione furono tratti in arresto anche i tre uomini ai quali oggi sono stati sequestrati i beni; nel processo conclusosi nel dicembre scorso, quindi, Vincenzo Domenico Lentini è stato condannato a a 6 anni e 8 mesi di reclusione; Antonio Romeo Scerbo a 9 anni di reclusione e Romolo Scerbo a a 5 anni e 6 mesi di reclusione. Dopo la sentenza è partita la richiesta di sequestro disposta ora dal Tribunale di Crotone.

venerdì 28 gennaio 2011

LA RAI CONTRO SANTORO: È VERGOGNOSO

Il dg di Viale Mazzini, Mauro Masi, chiama in diretta il programma: "Violate le regole". Ma il conduttore si inalbera e prosegue con solito fango. Nonostante sia stata sbugiardata la Macrì corregge la sua versione su Arcore. Il premier: sono infuriato



La commedia di Annozero inizia alle 21 su Raidue. In scena, per la regia di Michele Santoro, l’ennesima pseudo-inchiesta sui peccati di Silvio Berlusconi. Preceduta dal consueto pistolotto anti-Masi in cui il vittimismo deraglia nel puro narcisimo. Esordio: «Non sono un santo, forse ha ragione Beppe Grillo: “Tu resisti, resisti, resisti. Ma ogni giorno perdi un pezzo di libertà”». Il tono è meno baldanzoso del solito. Santoro annuncia: «Stasera daremo una lezione di compostezza». Difficile, comunque, trasudare entusiasmo dopo il doppio sfondone della settimana scorsa. Prima l’intervista alla escort Nadia Macrì, scambiata per l’oracolo della verità, salvo scoprire, poche ore dopo, che l’oracolo aveva raccontato una montagna di frottole. Poi il goffo incidente con il quale è stato rivelato all’Italia il numero di telefono del premier. Una performance sulla carta irripetibile. Ma Santoro riesce a fare peggio.


La «lezione di compostezza» parte con una tonnellata di verbali e intercettazioni (già note). Primo botto. Telefona subito il direttore generale della Rai, Mauro Masi, che si dissocia dalla trasmissione impostata male perché «potrebbe violare il codice di autoregolamentazione in materia di rappresentazione delle vicende giudiziarie». Tradotto: i processi non si fanno in televisione. L’azienda quindi invita il conduttore a prendersi le sue responsabilità. Vuol continuare? Continui. Ne risponderà in prima persona. Santoro si inalbera ma prosegue.

Ricomincia la «lezione di compostezza» con un blobbone di intercettazioni, interventi del Cav, parafiction tribunalizie, interviste a escort vere e presunte. Subito dopo prende la parola Rosy Bindi, col suo inesauribile campionario di frasi fatte su famiglia, Costituzione, unità d’Italia, dignità della donne etc etc. Per incanto, la finta «compostezza» si trasforma in vero abbiocco. Spetta a Maurizio Belpietro, Paolo Mieli ed Enrico Mentana risvegliare il pubblico, in attesa del sermone di Travaglio. Brilla l’assenza di rappresentanti del Pdl. In serata il vicepresidente della Camere Maurizio Lupi ha denunciato l’esclusione di Francesco Paolo Sisto, deputato del Pdl ma soprattutto segretario della Giunta per l’autorizzazione a procedere. Un tecnico. Quindi la persona più adatta per discutere del Rubygate. Sisto racconta l’accaduto con queste parole: «Erò lì, in camerino, al trucco insieme alla Bindi, a Mieli e a Belpietro e mi dicono che non posso partecipare alla trasmissione. Ho incontrato Santoro in corridoio, mi ha detto che decide lui chi entra o non entra nello studio». Si vede che un esperto dava fastidio.

La discussione comunque non si schioda di un millimetro da quanto letto e straletto, detto e stradetto in questi giorni. Sul palco di Annozero si svolge il consueto dibattito ma la vera trasmissione si svolge ormai altrove, fuori dallo studio, dove la politica si sta già scannando sulla sortita e soprattutto sulla sorte di Masi. Massimo Donadi dell’Italia dei Valori e Paolo Gentiloni del Partito democratico ne chiedono le dimissioni immediate. Per i futuristi, il direttore generale è l’avatar del presidente del Consiglio. Replicano indignati il portavoce del Pdl Capezzone, i ministri Gelmini e Romani. Lupi auspica la sospensione del programma. La stoccata più importante la tira Silvio Berlusconi. Il premier, conversando con i partecipanti alla cena di compleanno della deputata del Pdl Micaela Biancofiore, avrebbe contestato la trasmissione, definita «vergognosa», e si sarebbe detto «infuriato» perché Santoro non avrebbe fatto entrare in studio 60 simpatizzanti del centrodestra: «È una vergogna», avrebbe ripetuto.

 Alessandro Gnocchi

Rifiuti, raffica di arresti a Napoli: 14 in manette Dentro la vice di Bertolaso. Indagato Bassolino

Raffica di arresti in tutto il Paese nell’ambito di un’operazione per reati ambientali. In manette la vice di Bertolaso, Marta Di Gennaro, e il prefetto Corrado Catenacci. Insieme a Bassolino indagati l’ex assessore Luigi Nocera e l’ex capo della segreteria politica Gianfranco Nappi


Napoli - Raffica di arresti in tutto il Paese nell’ambito di un’operazione per reati ambientali. La ex vice di Guido Bertolaso alla Protezione Civile, Marta Di Gennaro, e il prefetto Corrado Catenacci, ex commissario ai rifiuti della Regione Campania, sono stati arrestati dai carabinieri nel blitz coordinato dalla procura della Repubblica di Napoli. I due, ai quali è stato concesso il beneficio degli arresti domiciliari, sono accusati di associazione per delinquere, truffa e reati ambientali. Nella stessa operazione che ha portato in manette altre dodici persone, sono anche indagate l’ex governatore Antonio Bassolino, l’ex assessore regionale Luigi Nocera e l’ex capo della segreteria politica di Bassolino, Gianfranco Nappi.


Arresti a raffica per i rifiuti Nel corso dell'operazione, coordinata dalla procura di Napoli e portata avanti dai carabinieri del Noe e dalla Guardia di Finanza, è stata accertata l’esistenza di un accordo illecito tra pubblici funzionari e gestori di impianti di depurazione campani. Un accordo che ha consentito, per svariati anni, lo sversamento in mare del percolato (il rifiuto liquido prodotto dalle discariche di rifiuti solidi urbani) in violazione delle norme a tutela dell’ambiente. Secondo gli inquirenti, infatti, il percolato veniva immesso senza alcun trattamento nei depuratori dai quali finiva direttamente in mare, contribuendo ad inquinare un lunghissimo tratto di costa della Campania, dal Salernitano fino al Casertano. Agli arresti domiciliari è finito anche Gianfranco Mascazzini, ex direttore generale del ministero dell’Ambiente. Sono invece in carcere Lionello Serva, ex sub-commissario per i rifiuti della Regione Campania; Claudio Di Biasio, tecnico degli impianti del Commissariato; Generoso Schiavone, responsabile della Gestione acque per i depuratori della Regione Campania e Mario Lupacchini, dirigente del settore Ecologia della Regione.

Sequestri in prefettura e Protezione civile Sequestri di documentazione sono stati messi in atto in diverse sedi istituzionali, come la prefettura di Napoli, la Regione Campania ma anche la Protezione civile di Roma e in sedi di aziende di rilievo nazionale. L’indagine, durata fino al luglio 2010, ripartiva da quella conclusa nel maggio 2008 e nota con il nome di "Operazione Rompiballe" che aveva portato all’arresto di 25 indagati per traffico illecito di rifiuti. E' stata sviluppata mediante attività tecniche, nonchè riscontri documentali, che hanno permesso di acquisire gravi indizi di colpevolezza nei confronti di ex uomini politici, professori universitari, dirigenti della pubblica amministrazione e tecnici delle strutture commissariali che si sono avvicendati al Commissariato per l’emergenza rifiuti della Regione Campania dal 2006 al 2008.



giovedì 27 gennaio 2011

Siderno, arrestato l'uomo di fiducia del boss Giuseppe Commisso

Si tratta di Antonio Futia, latitante ricercato dal luglio scorso, ritenuto dagli inquirenti, l’uomo di fiducia di Giuseppe Commisso, capo dell’omonima cosca
 
 
 
E' finito in manette, Antonio Futia, di 53 anni, latitante e ricercato dal luglio scorso. L'uomo è stato arrestato a Siderno dai carabinieri del Comando provinciale di Reggio Calabria. Futia, ritenuto dagli inquirenti, l’uomo di fiducia di Giuseppe Commisso, capo dell’omonima cosca di Siderno, era ricercato nell’ambito dell’operazione "Crimine", che nel luglio scorso aveva portato all’arresto di oltre 300 persone. Nel dicembre scorso, inoltre, è stata emessa un’altra ordinanza nei suoi confronti per l’operazione «Recupero» condotta contro le cosche di Siderno. L’uomo è accusato di associazione mafiosa, associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, detenzione e porto abusivo di arma da fuoco.


Antonio Futia è stato sorpreso dai carabinieri del Comando provinciale e dello squadrone eliportato cacciatori per strada, a Siderno, mentre, probabilmente, stava spostandosi da un nascondiglio all’altro.

Secondo l'accusa Futia, avrebbe diretto le attività della cosca cosiddetta «della Lamia», associata a quella dei Commisso di Siderno, ed avrebbe preso insieme ad un altro associato, Michele Correale, le decisioni più rilevanti in relazione all’attività della cosca, impartendo ruoli e disposizioni agli affiliati a loro sottoposti.

Il latitante arrestato avrebbe avuto anche il compito di risolvere i contrasti all’interno della cosca e di curare i rapporti con gli altri elementi di spicco della cosca Commisso, occupandosi anche di garantire il controllo del gruppo criminale sulle coltivazioni e sul traffico di marijuana.

All’arresto di Antonio Futia i carabinieri sono giunti seguendo i movimenti della moglie del latitante e notando, in particolare, che la donna si recava a casa dei genitori portando delle borse voluminose. I militari hanno effettuato, così, un servizio di appostamento ed hanno sorpreso Futia mentre, fermo nei pressi della casa dei suoceri, aspettava la moglie che avrebbe dovuto consegnargli gli indumenti di ricambio.

'Ndrangheta, confiscati beni nel Vibonese per 4,5 milioni di euro

Un patrimonio stimato in quattro milioni e mezzo di euro riconducibile ad Andrea Mantella, 39 anni, sottoposto alla misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale
 
 
Beni mobili ed immobili, un’azienda agricola e conti correnti bancari, per un valore stimato in circa 4,5 milioni di euro, riconducibili ad Andrea Mantella, 39 anni, sottoposto alla misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno ed attualmente agli arresti domiciliari, sono stati confiscati stamani dai finanzieri del comando provinciale di Vibo Valentia, in esecuzione di un decreto emesso dal locale tribunale, sezione misure di prevenzione.


Il provvedimento, secondo quanto reso noto, deriva da due attività investigative condotte dal nucleo di polizia tributaria di Vibo Valentia su delega della locale Procura della Repubblica, a conclusione delle quali, già nel marzo 2010, in esecuzione di un provvedimento di sequestro preventivo, furono sequestrati un’azienda agricola, appartamenti, ville, capannoni, terreni, bestiame, conti bancari ed autovetture, di cui una di grossa cilindrata, tutti riconducibili a Mantellaa ma formalmente intestati a prestanome.

L’operazione fu chiamata in codice «dolly». Gran parte degli stessi beni, alla fine del marzo 2010, erano stati oggetto, da parte delle fiamme gialle vibonesi, di un decreto di sequestro emesso dal locale tribunale – sezione misure di prevenzione, a conclusione di una serrata ed ulteriore attività investigativa condotta ai sensi della legge antimafia. Gli investigatori del nucleo di Polizia Tributaria di Vibo Valentia sarebbero riusciti, infatti, a ricostruire in capo al Mantella, considerato un elemento di spicco delle nuove leve della criminalità calabrese, un considerevole patrimonio costituito, prevalentemente, da beni mobili, immobili, un’azienda agricola e disponibilità finanziarie, detenuti sia direttamente che attraverso prestanome, il cui valore è risultato pari a quasi 9 miliardi delle vecchie lire. Le attività investigative avevano consentito di individuare una condotta illegale mediante la quale il Mantella avrebbe attribuito, fittiziamente, ad altri la titolarità o la disponibilità di propri beni, al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di prevenzione patrimoniale. L’uomo, inoltre, aveva omesso di comunicare, conformemente alle disposizioni della normativa in materia di criminalità organizzata, al nucleo di polizia tributaria di Vibo, le variazioni nell’entità e nella composizione del patrimonio. il decreto di confisca è stato emesso a conclusione dell’attività istruttoria. Fra gli immobili, tutti ricadenti nel comune di Vibo Valentia, riconducibili all’ interessato, spiccano capannoni industriali pari a 2.100 metri quadri ed una villa residenziale composta da tre piani, nonchè un’autovettura di lusso del valore di 77.700 euro.

Mafia, morto il pentito Salvatore Cancemi

L'ex capo di Porta Nuova è deceduto per un ictus il 14 gennaio. Fu uno dei più importanti collaboratori di giustizia



PALERMO. E' morto il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi, uno dei piu" importanti pentiti della storia della mafia palermitana, primo componente della Commissione di Cosa Nostra a rompere i legami con le cosche. Cancemi, ex capomafia di Porta Nuova, è deceduto per un ictus il 14 gennaio scorso - ma la notizia si è appresa solo ora - nella località protetta in cui viveva da quando scelse di passare dalla parte dello Stato. Latitante per anni, a luglio del 1993 si costituì ai carabinieri, temendo per la sua vita.

Entrato in contrasto con il boss Bernardo Provenzano, preferì il carcere alla condanna a morte della mafia. Il suo pentimento, che proprio per il ruolo fondamentale ricoperto nella Commissione ha dato un contributo importantissimo a decine di indagini, ebbe un incipit travagliato: gli inquirenti scoprirono, grazie ad altri collaboratori, che aveva omesso di confessare alcuni omicidi e diversi reati. Teste in processi come quello Andreotti e quello Dell'Utri, sostenitore della inattendibilità di Vincenzo Scarantino, poi rivelatosi falso pentito della strage di via D'Amelio, Cancemi aveva 69 anni.

Mafia, 4 arresti per omicidio e tentato omicidio

Sono accusati del delitto di Salvatore Calì nel 2008 e di aver provato ad assassinare Stefano Mosca nel 2009 a San Cataldo nel Nisseno



SAN CATALDO. Quattro persone sono state arrestate dai carabinieri per l'omicidio di Salvatore Calì, avvenuto il 27 dicembre 2008 e per il tentativo di omicidio di Stefano Mosca, il 28 novembre 2009, a San Cataldo (CL). Diego Calì, 59 anni, e Cosimo Di Forte, 33 anni, sono accusati di aver partecipato all'omicidio. Loro due e Patrizio Calabrò, 40 anni, e Enzo Mancuso, 36 anni, sono accusati del tentativo di omicidio. I quattro sono stati arrestati su ordinanza di custodia cautelare in carcere del gip di Caltanissetta.

Salvatore Calì sarebbe stato ucciso per "acquisire il controllo integrale del mercato dei servizi di pompe funebri e per vendetta per un'altro omicidio, quello di Pasquale Mastrosimone, avvenuto a Sommatino nel 1990". Gli arresti s'inquadrano in uno sviluppo dell'indagine denominata "Nuovo Mandamento" che sgominò nel 2009 una nascente associazione criminale di stampo mafioso nel nisseno.

Video hard diffuso su internet all’insaputa dell’amante

Assolto perchè dal pene non è riconoscibile
Non c’è la prova che il pene ripreso col telefonino in un video durante un rapporto sessuale sia dell’imputato. Per questo il tribunale di Sciacca ha assolto un uomo che era stato denunciato dall’amante che lo accusava di aver diffuso su internet il video hard. L’uomo prosciolto ora passa al contrattacco e dice: ”Lei sapeva che non ero io in quel filmato la denuncio per calunnia”.L’episodio, come scrive Repubblica-Palermo, avvenne nel 2007 quando la donna di 35 anni trovò in rete il video che lei sostiene ha girato l’uomo con cui aveva una relazione extraconiugale. Per questo lo denunciò chiedendo anche 50 mila euro di risarcimento danni.Nel video si vede un rapporto orale in auto e la ripresa fece il giro della cittadina agrigentina e venne mostrato anche alla figlia minorenne della donna. Nel video si sentirebbe anche la telefonata del marito della donna che le chiede notizie della cena. Lei risponde di scongelare i legumi.

Droga e rapine, 12 arresti nell'Agrigentino

L'inchiesta, cominciata nel 2007, riguarda un vasto giro di spaccio di cocaina, truffe e furti consumati in danno di alcuni commercianti e privati cittadini. Ecco i nomi delle persone finite in carcere


AGRIGENTO. Dodici ordinanze di custodia cautelare, emesse dal gip del tribunale di Agrigento Stefano Zammuto, sono state eseguite dai carabinieri nell'ambito dell'operazione denominata "I soliti ignoti". L'inchiesta, cominciata nel 2007, riguarda un vasto giro di spaccio di cocaina, truffe, rapine e furti consumati in danno di commercianti e privati cittadini.

In carcere sono finiti: Giacomo Lauricella Luca, detto "Jachinu Musulunu" 50 anni di Favara; Filippo Salamone, detto "Remì", 40 anni di Agrigento; Gianluca Infantino, detto "u catanisi", 25 anni di Agrigento, residente a Raffadali; Giuseppe Infantino, 30 anni di Agrigento; Castrenze La Barbera, detto "Puffo", 45 anni di Agrigento; Francesco Renato, detto "Ciccio Biondo", 56 anni di Canicattì, residente Agrigento; Calogero Meli, di Agrigento, 46 anni; Calogero Vella, detto "Tararà", 36 anni di Agrigento.

La custodia ai domiciliari è stata disposta, invece, nei confronti di Giovanni Mendola, 30 anni di Agrigento, residente a Favara ed Eleonora Salamone, detta "Lola" , 23 anni di Favara. Per Mario Fucà, 26 anni di Agrigento ed Eugenio Gibilaro, 46 anni di Agrigento è stato previsto l'obbligo di dimora nel comune di residenza.

La contabilità di Ruby: "Diamanti e soldi da Papi"

Minetti: «Non me ne fotte se lui è il presidente del Consiglio, è

un vecchio e basta»

 
Il terzo atto della saga Ruby non poteva partire altro che da lei, la neomaggiorenne tanto sveglia. Tutto ruota attorno a lei. E se già si sapeva che nelle intercettazioni Ruby si vantava di avere chiesto a Berlusconi, attraverso il suo avvocato, la stratosferica cifra di 5 milioni di euro per tacere, parole poi smentite decisamente da tutti i protagonisti dell’affaire, ecco il colpo di scena: nel corso della perquisizione effettuata a casa di Ruby Rubacuori, a Genova, il 17 gennaio scorso, è saltato fuori un foglietto con la contabilità della ragazzina. Vi sono indicate, scritte a mano, le cifre ricevutedal contabile del premier, Giuseppe Spinelli, per complessivi 17 mila euro. Un po’ più di quanto ammesso da Spinelli medesimo nel suo interrogatorio difensivo, ma conta poco. Quel che ha fatto saltare sulla sedia, invece, sono le conclusioni finali: «Tra due mesi, da Silvio Berlusconi 4 milioni e 500 mila euro». Sul punto sono in corso accertamenti.

La procura di Milano ieri mattina ha deciso di inviare un supplemento di carte alla Camera e grande è l’irritazione dei difensori del premier. «Per me - dice Niccolò Ghedini - si tratta di materiale irricevibile». Eppure ci sono diverse novità. C’è l’interrogatorio dell’autista di Emilio Fede, Luigi Sorrentino: la sera di San Valentino del 2010, ha raccontato, Silvio Berlusconi festeggiò ad Arcore e con lui c’erano «tante ragazze in baby doll rosso»; in macchina con Fede «c’era anche una ragazza marocchina».

LA SUPER TESTE MARIA

C’è anche l’interrogatorio di Maria, la giovane egiziana danzatrice del ventre: «A giugno, Lele Mora mi chiese se ero interessata a partecipare ad una serata ad Arcore presso la residenza del presidente del Consiglio, se sapevo ballare la danza del ventre e se volevo fare parte del suo harem... Mi sono recata ad Arcore a luglio. Alla partenza da viale Monza c’erano altre ragazze... Ognuna di noi si è seduta per la cena dove voleva. Finita la cena il presidente disse: “E ora facciamo il Bunga Bunga” e spiegò che cosa era, cioè una cosa sessuale». Maria doveva fare la danza del ventre. «Le De Vivo erano in mutande e reggiseno. Il presidente le toccava e loro lo toccavano nelle parti intime. Si avvicinarono anche a Emilio Fede che le toccava il seno e altre parti intime. Una ragazza brasiliana con il perizoma ballava la samba in maniera hard. Il presidente le toccava il seno e altre parti intime. Anche le altre ragazze ballavano facendo vedere il seno e il fondo schiena, tutte loro si avvicinavano al presidente che le toccava nelle loro parti intime. Sono rimasta inorridita».

MINETTI: «MI HA ROVINATO»

Dal supplemento di indagine viene fuori anche l’irritazione mista a paura di Nicole Minetti. Intercettazione dell’8 gennaio tra Nicole Minetti e Barbara Faggioli. Nicole: «Io do le dimissioni, cioè sta roba è una roba che ti rovina la vita, ti rovina i rapporti, ti logora... Devi avere un pelo sullo stomaco, ma a me cioè non me ne frega niente. Io voglio sposarmi, fidanzarmi, avere dei bambini, una casa... La politica è un casino. Cade lui, cadiamo noi. A lui fa comodo mettere te e me in Parlamento, perché dice: Bene, me le sono levate dai c. E lo stipendio lo paga lo Stato».

LA PAURA E LO SFOGO DI NICOLE

Giorno seguente, da Minetti a Faggioli: «Quando se la farà addosso per Ruby, chiamerà e si ricorderà di noi... adesso fa finta di non ricevere chiamate». E un eloquente sms da Minetti a Marysthelle Garcia, il 10 gennaio: «Amo’ ma è serio che alla Fico ha regalato la casa? Se è vero ti giuro che scateno l’inferno».

L’11 gennaio, la Minetti si sfoga con la sua amica Clotilde Strada: «Non me ne frega niente se lui è il presidente del Consiglio... Un vecchio e basta. Io non mi faccio pigliare per il culo così... Si sta comportando da pezzo di merda». Clotilde: «Lo sapevamo». Minetti: «Perché uno che fa così è un pezzo di merda. Perché lui mi ha tirato nei casini in una maniera che solo dio lo sa... Non ci sarei finita neanche se mettevo tutto l’impegno. Gli ho parato il culo e non si può permettere di fare così». E ancora, sempre parlando con Clotilde: «Tu hai mai sentito dire dalla sua bocca: “Oh, fermi un attimo, guarda che lei è una brava ragazza? Lui pur di salvare il suo culo flaccido non se ne frega di niente... A lui non gliene frega niente... io per la prima volta ho realizzato che lui non mi ha dato quel ruolo perché pensava che io fossi idonea e adatta. Mi ha dato quel ruolo perché in quel momento è la prima cosa che gli è venuta in mente».

LE RAGAZZE PERQUISITE

Il 13 gennaio è il giorno in cui la procura firma l’invito a presentarsi nei confronti di Berlusconi. La Minetti invia un sms a Strada: «Parlo con Gianca che parla con il pres.. visto che lui non mi chiamata.. gli faccio prendere paura». E poi: «Gianca fa la figura di quello che lo salva dal disastro mediatico.. io della pazza offesa... ma me ne fotto».

Il 14 gennaio la magistratura di Milano ordina le perquisizioni nel residence di via dell’Olgettina, dove vivono molte delleragazze in questione. E’ la perquisizione che Berlusconi ha stigmatizzato nel suo videomessaggio (e che a catena ha fatto arrabbiare i sindacati di polizia). Il giorno seguente, Barbara Faggioli chiama Alessandra Sorcinelli: «Mi ha chiamato adesso da un numero sconosciuto mi ha detto di contattare chi è stato perquisito e di dargli appuntamento alle 19 ad Arcore che ha bisogno urgentemente di parlare... Lui ha letto le intercettazioni, son cose brutte».

A seguire, Faggioli chiama Arisleida Espinosa: «Ti chiamano solo perché mi ha chiamato il presidente Berlusconi... scandisco le parole, visto che mi stanno ascoltando. Mi ha chiesto la cortesia di farti avvicinare ad Arcore alle 19. Ci sono gli avvocati». E Faggioli con Marysthelle: «Mi ha chiesto un colloquio con i suoi avvocati. Da quanto ho capito dalle intercettazioni emergono cose molto brutte che noi ragazze diciamo su di lui».

IL VERTICE CON LE RAGAZZE A ARCORE

Alla riunione post-perquisizione, viene convocata anche la Minetti. Faggioli: «Mi ha chiamato la segreteria del presidente e mi hanno passato il presidente e mi ha detto di convocare tutte le ragazze per parlare con l’avvocato alle 19. Che dici? E’ ok?». Minetti: «No perché devo parlare al mio avvocato. Io sono indagata, per me la cosa è diversa... Lui sarà anche il mio capo, ma io sono indagata e lui altrettanto». Segue un sms dalla Minetti alla Faggioli: «Se mi vuole convocare mi convoca lui». E quindi nuova conversazione tra le due. Faggioli: «Gliene parlerò al presidente». Aleggia sul tutto una frase disperata: «Mi ha rovinato la vita». E quando Marysthelle chiama la Minetti per sincerarsi che tutto fili liscio («Ma tu ci sei alle 7?»), la consigliera risponde: «No, non credo. Qua la cosa si fa grossa. Io non ci penso neanche. Sono nella merda seria più di tutti quanti». Per concludere: «Stasera saremo poche. Lui ha detto che è successo un casino perché ‘sta stronza di Ruby ha detto delle cose e ci sta sputtanando».

SPUNTA LA DROGA

Cara ragazza, la Marysthelle. Ad agosto la Guardia di Finanza sequestra una quantità ingente di cocaina ad un certo Ramirez, il suo fidanzato. Lei aveva ricevuto in prestito la macchina di Nicole Minetti e Ramirez era proprio su quell’auto, una Mini Cooper verde, quando viene fermato ed arrestato. Vengono rinvenuti due chili e 800 grammi in un box di pertinenza di Marysthelle, altri 10 chili in Via Portalupi, casa di lui. Nonostante tutto, il 6 dicembre Marysthelle chiama il prefetto di Milano per farsi rilasciare il passaporto. «La chiamo a nome del presidente del Consiglio». La ragazza è stata ricevuta per due volte dal prefetto, sette sono state le telefonate intercettate, ma alla fine la Polanco non avrebbe ottenuto il documento.

FRANCESCO GRIGNETTI

Il mondo oggi ricorda l'Olocausto Napolitano: vigilare sull'intolleranza

Napolitano consegna le Medaglie d'Onore agli italiani deportati. «Shoah, fatto mostruoso nato

da nazionalismo e populismo»



«Nulla poteva motivare, se non un cieco razzismo persecutorio, la espulsione decretata dal fascismo degli ebrei e delle loro Comunità dal consorzio civile italiano», ha detto Napolitano, celebrando al Quirinale la Giornata della memoria. Il Capo dello Stato ha ricordato il contributo che gli ebrei diedero all’Unità d’Italia come «patrioti risorgimentali». E ha ggiunto: «Il primo germe distruttivo, il primo seme avvelenato» dell’aberrazione che porta a tragedie comela Shoah «fu ed è quello dell’intolleranza, del nazionalismo e del populismo che si traducono in demonizzazione e odio del diverso e dello straniero». Quindi «attenzione, vigilanza» anche «nei paesi che si sono dati costituzioni democratiche».

Di fronte ad ogni manifestazione del genere, ha messo in guardia il Capo dello Stato nel corso di una cerimonia che s è tenuta al Quirinale questa mattina, ci vogliono «pronte reazioni, ovunque questo germe si manifesti ed in qualsiasi forma». Non basta, infatti, vivere in retti da «dichiarazioni di principi democratici». «I principi», ha ribadito Napolitano, «devono farsi vivere, debbono sempre richiamarsi perchè siano pienamente rispettati». A riguardo Napolitano ha anche voluto ricordare l’impegno «che non si può mai apprezzare abbastanza» del ministero dell’Istruzione per «lo studio e l’approfondimento della mostruosa vicenda della Shoah». Questo perchè «conta sapere e ricordare non solo cosa accadde, ma come ci si arrivò».

Nell'occasione il capo dello Stato ha consegnato le Medaglie d'Onore attribuite agli italiani deportati e internati nei lager nazisti da parte del sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio dei Ministri Gianni Letta. Alla cerimonia presenti gli studenti vincitori della IX edizione del concorso 'I giovani ricordano la Shoah indetto dal ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca e delegazioni di studenti che hanno preso parte ai 'Viaggi della Memoria'. Nel pomeriggio alle 15 il presidente della Camera Gianfranco Fini sarà alla Sinagoga di Roma dove sarà ricevuto dal rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni e dal presidente della Comunita' ebraica Riccardo Di Segni.Alle 20,00, sempre in Sinagoga a Roma, i testimoni e le loro famiglie racconteranno la Shoah. Sono annunciati tra gli altri il sottosegretario Gianni Letta, il sindaco di Roma Gianni Alemanno, il presidente della provincia Nicola Zingaretti, quello della regione Renata Polverini e Walter Veltroni.

La doppia morale della Boccassini

Nel 1982 la Boccassini venne sorpresa in "atteggiamenti amorosi" con un giornalista di Lotta Continua. Davanti al Csm si difese come paladina della privacy. E fu assolta. Ora fruga nelle feste di Arcore ma allora parlò di "tutela della sfera personale"



Roma - Ve la immaginate l’agguerrita pm dello scandaloso «caso-Ruby», che ha frugato nelle feste di Arcore e ascoltato le conversazioni pruriginose delle ragazze dell’Olgettina, nelle vesti della paladina della privacy?


Eppure, per difendere se stessa al Csm da accuse boccaccesche, che definisce «un’inammissibile interferenza», Ilda Boccassini dichiara: «Sono questioni che attengono esclusivamente alla sfera della mia vita privata, coperta, come tale, da un diritto di assoluta riservatezza».



Succede molti anni fa, nel 1982, quando l’allora giovane sostituto alla Procura di Milano viene sottoposta a procedimento disciplinare. L’accusa, si legge negli atti del Csm, è di «aver mancato ai propri doveri, per aver tenuto fuori dell’ufficio una condotta tale da renderla immeritevole della considerazione di cui il magistrato deve godere, così pure compromettendo il prestigio dell’ordine giudiziario».

Diciamo subito che, l’anno dopo, la Boccassini viene assolta a palazzo de’ Marescialli. E proprio in nome della tutela alla riservatezza della vita personale.

La sezione disciplinare del Csm, infatti, «nel ribadire il proprio orientamento in materia di diritto alla privacy del magistrato, ritiene che il comportamento della dottoressa Boccassini non abbia determinato alcuna eco negativa né all’interno degli uffici giudiziari, come provano le attestazioni dei colleghi della Procura, né all’esterno».

Il fatto di cui si parla appare banale, perché riguarda abbracci e baci con un uomo per strada, a due passi dal Palazzo di Giustizia. «Atteggiamento amoroso», lo definiscono con scandalo nel rapporto di servizio due guardie di scorta ad un pm aggiunto della Procura.

Il «lui» in questione non è uno sconosciuto, ma un giornalista di «Lotta continua», accreditato presso l’ufficio stampa del tribunale. Salteranno fuori altri episodi e si parlerà anche di rapporti con un cronista dell’Unità.

Il tutto va collocato in un contesto preciso: quello degli Anni di piombo, di scontro, tensioni, sangue e forte militanza politica anche da parte di magistrati e giornalisti sulla linea che lo Stato doveva tenere verso i terroristi. Poco prima di questi fatti, nel 1979, uno dei pm di Milano e cioè Emilio Alessandrini, era stato ucciso da esponenti di Prima linea mentre andava a Palazzo di Giustizia.

Lo ricorda il Procuratore capo Mauro Gresti, quando si decide a segnalare la questione e a chiedere il trasferimento d’ufficio della Boccassini, parlando di altri episodi «disdicevoli» dentro la Procura, legati a «presunti comportamenti illeciti», tra l’autunno 1979 e l’inverno 1980, che prima non aveva denunciato.

A segnalare incontri molto ravvicinati, violente liti, riunioni serali in ufficio erano stati un ex-carabiniere addetto alle pulizie e un tenente colonnello dell’Arma.

Gresti sottolinea che a farlo muovere non fu tanto «lo sconcerto procuratomi dall’esibizione di affettuosità più consone all’intimità di quattro mura che alla pubblicità di una via, ma piuttosto lo sconcerto per la constatazione che l’oggetto delle affettuosità della Boccassini era una persona solita a frequentare gli ambienti della Procura di Milano per ragioni della sua professione giornalistica». Una persona che più volte aveva «manifestato il proprio acido dissenso verso la linea della fermezza adottata dai magistrati della Procura nella lotta al terrorismo e alle sue aree di supporto», con un «atteggiamento di critica preconcetta all’operato delle istituzioni».


Anna Maria Greco




MEMO PER FINI: DIMISSIONI

Roma - Si avvicina la resa dei conti per il presidente della Camera. L'affaire Montecarlo scalda da subito il clima in Aula, prima ancora che il ministro degli Esteri Franco Frattini prenda la parola sulle carte giunte alla Farnesina da Santa Lucia sulla casa donata venduta da An. In ballo c'è la verità su un caso che si strascina da circa sei mesi e anche qualcosa di più: la poltrona più alta di Montecitorio. Fini, in un videomessaggio diffuso il 25 settembre scorso, aveva assicurato che se fosse stato accertato che la casa di Boulevard Princesse Charlotte è di Giancarlo Tulliani, si sarebbe dimesso. Guardate il video.


Frattini: "I documenti sono autentici" Il ministro degli Esteri, Franco Frattini, intervenendo in Aula al Senato ha spiegato che il primo ministro di Santa Lucia conferma l’autenticità del documento pubblicato dai giornali circa la proprietà della casa di Montecarlo intestata ad una società off-shore che fa riferimento a Gianfranco Tulliani, cognato del presidente della Camera, Gianfranco Fini. "Qualche settimana fa ho ricevuto la risposta dal primo ministro di Santa Lucia - ha detto Frattini - il quale, allegando il documento, me ne ha certificato l’autenticità e l’autenticità dei dati contenuti, sia la lettera, sia il documento allegato sono stati da me inviati per delle valutazioni alla procura della Repubblivca di Roma dove c’è ancora un fascicolo aperto" sulla vicenda. Frattini, dunque, non ha rivelato i contenuti della documentazione ora sottoposta a segreto istruttorio, essendo stata acquisita dalla Procura.

"Nessuna rogatoria, un chiarimento" Nessuna rogatoria, ma "un chiarimento puro e semplice". Il ministro degli Esteri Franco Frattini spiega così, in Aula al Senato, il motivo della sua richiesta al governo di Santa Lucia dei documenti relativi alla casa ex An di Montecarlo. Frattini cita, in particolare, la "polemica che investì una presunta manipolazione" della lettera del ministro della Giustizia di Santa Lucia sul coinvolgimento di Giancarlo Tulliani - cognato del presidente della Camera Fini - nella società offshore proprietaria dell’immobile. "Vi fu una polemica che investì anche una presunta manipolazione del documento e quindi la sua autenticità - ricorda il titolare della Farnesina - e da alcuni organi di stampa si era indicato anche un presunto ruolo di organi dello stato in tali attività». "Ecco la ragione per cui a suo tempo - dice Frattini - ritenni di chiedere non ovviamente una rogatoria, ma un chiarimento puro e semplice alle autorità di Santa Lucia circa la genesi e l’autenticità del predetto documento replicato da organi di informazione in Italia e non solo in Italia, onde fugare dubbi, indiscrezioni, retroscena. Alcune settimane fa - spiega il ministro - ho ricevuto una risposta dal primo ministro di Santa Lucia"

La difesa delle opposizioni Le opposizioni sono partite da subito lancia in resta contro la singolarità di un dibattito deciso a 24 ore dal deposito di una interrogazione Pdl su carte che non si sa perchè spedite alla Farnesina, alla presenza stesa del ministro che abitualmente non partecipa alle risposte a gli atti ispettivi.

Rutelli abbandona l'Aula A parlare per primo è il leader Api Francesco Rutelli, anunciando la sua uscita dall’Aula del Senato prima che il ministro degli Esteri Franco Frattini prenda la parola Al ministro Frattini, Rutelli rivolge "un invito perché si curi molto attentamente su ciò di cui prende la parola". Mentre al presidente Renato Schifani, assente per motivi istituzionali, Rutelli fa notare che "se accetta che si faccia un dibattito per vie traverse sul presidente della Camera, compie un errore". Ecco perché, spiega l’esponente del terzo polo, "per non prestarmi a questo dibattito che considero inaccettabile uscirò dall’Aula".

Appalti G8,i pm:sesso e soldi per Bertolaso

Sesso e soldi in cambio degli appalti per i 'Grandi eventi'. E' l'accusa dei pm della Procura di Perugia all'ex capo della Protezione Civile Guido Bertolaso, raggiunto oggi dall'avviso di conclusione delle indagini per l'inchiesta sulla concessione di appalti al costruttore romano Anemone. Secondo l'accusa, Bertolaso avrebbe ricevuto l'appartamento in via Giulia, a Roma, pagato dallo stesso Diego Anemone "dal gennaio 2003 all'aprile 2007", 50mila euro in contanti "consegnati da Anemone il 23 settembre 2008", la "disponibilità di una donna di nome Monica allo scopo di fornire prestazioni di tipo sessuale" al Salaria Village.

L'ex capo della Protezione Civile e gli altri 14 indagati sono accusati anche di associazione a delinquere a fini di corruzione, abuso d'ufficio, rivelazione di segreto d'ufficio e favoreggiamento. Secondo i magistrati avrebbero creato un "sodalizio stabile" che avrebbe garantito a Diego Anemone benefici attraverso la "messa a disposizione della funzione pubblica dei funzionari", un gestione degli appalti dunque "pilotata e contraria alle regole di imparzialità ed efficienza della pubblica amministrazione".



G8 NEL MIRINO - I pm contestano a Bertolaso in particolare tre appalti, tutti a La Maddalena in occasione del G8 2009 poi saltato: quello per la realizzazione "del palazzo della conferenza e area delegati", quello per la costruzione della "residenza dell'Arsenale" e quello per "l'area stampa e servizi di supporto". Bertolaso, "da solo o in concorso di volta in volta con altri soggetti - scrivono i magistrati - compiva scelte economicamente svantaggiose per la Pubblica Amministrazione e favorevoli al privato, illegittimamente operava e consentiva, nella sua posizione di vertice, che i funzionari sottoposti operassero affinchè le imprese facenti capo a Diego Anemone risultassero aggiudicatarie degli appalti e consentiva che il costo dell'appalto a carico della Pa aumentasse considerevolmente rispetto a quello del bando, anche mediante l'approvazione di atti aggiuntivi successivi e a fronte di spese incongrue o meramente eccessive, al solo scopo di favorire stabilmente il privato imprenditore appaltatore, agli interessi del quale poneva stabilmente la propria funzione pubblica recependone continuativamente favori ed utilità di vario genere".

In auto 20 miliardi di dollari in titoli falsi Bloccati in sei sulla A14, è giallo

ROMA (26 gennaio) - I carabinieri del Nucleo Investigativo di Roma hanno sequestrato 20 miliardi di dollari in titoli di stato americani falsi. Il sequestro è avvenuto nei giorni scorsi nelle Marche sull'autostrada A14 Adriatica, nei pressi di Fermo, dove i militari, in abiti civili, si trovavano in transito al rientro di un servizio svolto al Nord Italia.


Nel corso di una sosta ad una stazione di servizio dell'autostrada, i militari si sono imbattuti in un gruppo di 6 uomini sospetti giunti a bordo di tre autovetture di grossa cilindrata, i quali, nel lasciare le proprie vetture per incontrarsi e colloquiare tra di loro, avevano palesato un atteggiamento molto circospetto e chiaramente finalizzato a verificare che il loro appuntamento non fosse monitorato da eventuali servizi delle forze dell'ordine.

Insospettiti da tale atteggiamento, i carabinieri del Nucleo Investigativo hanno deciso di procedere ad un normale controllo sul posto delle persone in argomento e, constatato il particolare nervosismo dei predetti, si è proceduto anche ad una perquisizione degli automezzi. Con grande stupore, i militari hanno rinvenuto a bordo di una delle auto, una cartella contente 40 titoli di stato emessi dalla Federal Reserve statunitense riportanti il valore di 500 milioni di dollari ciascuno, per un valore complessivo di 20 miliardi di dollari.

I sei soggetti, tutti di età compresa tra 40 e i 50 anni, non hanno fornito plausibili giustificazioni per il possesso di tali titoli e sono stati pertanto denunciati in stato di libertà per ricettazione. Gli accertamenti esperiti presso le Autorità USA e con l'ausilio del comando carabinieri Antifalsificazione Monetaria hanno consentito di verificare la falsità dei titoli di stato in questione che sono stati quindi sequestrati. Si tratta di «falsi d'autore» di ottima fattura che avrebbero potuto essere utilizzati per tentare delle truffe in danno di istituti bancari.

mercoledì 26 gennaio 2011

Agrigento, a scuola con la scorta ma i professori si lamentano

E' accaduto alla figlia di un imprenditore edile, Ignazio Cutrò, diventato testimone di giustizia dopo aver denunciato i suoi estorsori. Gli insegnanti: i militari devono fermarsi davanti all'ingresso dell'istituto



AGRIGENTO. La scorta l'accompagna fin davanti la porta dell'aula scolastica e i docenti protestano. A raccontare quanto accaduto alla figlia Veronica, 18 anni, studentessa dell'istituto tecnico commerciale "Panepinto" di Bivona, in provincia di Agrigento, è Ignazio Cutrò, imprenditore edile divenuto testimone di giustizia dopo aver denunciato i suoi estorsori. Lui e i suoi familiari camminano scortati.

"I professori - dice Cutrò - hanno detto ai carabinieri, che accompagnavano mia figlia fino alla classe che avrebbero dovuto fermarsi davanti la porta di ingresso dell'istituto e che all'interno non c'era alcun rischio. Alle rimostranze dei carabinieri che hanno seguito il protocollo del ministero, qualcuno dei docenti e degli operatori scolastici ha iniziato ad urlare. Mia figlia si è sentita rifiutata nell'ambiente scolastico ed umiliata. Una sensazione che l'ha spinta a non voler più frequentare le lezioni". "Ai carabinieri - aggiunge Cutrò - è stato detto che per entrare fin dentro la scuola era necessario l'autorizzazione della prefettura".

"Cutrò - replica il dirigente scolastico Giovanni Battista Salamone - ha sempre avuto il massimo appoggio dal nostro istituto che ha partecipato alle sue conferenze per la legalità. Alla base di tutto c'é stato un difetto di comunicazione. La prefettura di Agrigento non ha, infatti, avvisato l'istituzione scolastica e visto che il dirigente scolastico è responsabile della sicurezza nell'istituto è libero di scegliere". "Tuttavia, per garantire la sicurezza della studentessa e dei suoi compagni di classe - aggiunge Salamone - mi sono confrontato con i carabinieri che mi hanno dato conferma: i militari devono fermarsi davanti al portone dell'istituto e non possono accompagnare fino al secondo piano la studentessa. All'interno della scuola non può entrare nessun estraneo, se non identificato, quindi gli studenti che vengono in istituto sono già, tutti, tutelati".

A Palermo la commemorazione di Mario Francese

Il cronista del Giornale di Sicilia fu assassinato il 26 gennaio 1979 in viale Campania. La manifestazione, organizzata dall'Unci, si terrà sul luogo dell'uccisione



PALERMO. Dal giorno del delitto sono passati 32 anni. Mario Francese, cronista del Giornale di Sicilia, aveva appena posteggiato l'auto e stava per raggiungere il portone dello palazzo in cui abitava, dopo una giornata di lavoro, quando venne assassinato dai sicari mafiosi in viale Campania, a Palermo, la sera del 26 gennaio 1979. Per ricordarlo é stata organizzata per una manifestazione sul luogo dell'assassinio. L'incontro è stato promosso dall'Unci, unione nazionale cronisti. E' prevista la partecipazione del vice-sindaco Marianna Caronia, del prefetto Giuseppe Caruso, del dirigente della Dia, del questore e dei comandanti dell'Arma dei carabinieri, della Guardia di finanza, del Comando Regione militare, della polizia municipale e dei vigili del fuoco.

Francese fu ucciso dai killer dei corleonesi. Ma chi furono i mandanti del delitto? Ad ottobre 2005 la Cassazione confermò la condanna all'ergastolo di Bernardo Provenzano. La posizione del capomafia era stata stralciata dal processo principale che si era concluso con la condanna all'ergastolo di Totò Riina e a 30 anni ciascuno di Michele Greco e Pippo Calò. Erano stati invece assolti in Cassazione Pippo Calò, Francesco Madonia e Giuseppe Farinella, anch'essi condannati in appello a 30 anni di reclusione. Il movente del delitto è stato ricondotto dai giudici di primo grado allo "straordinario impegno civile con cui la vittima aveva compiuto un'approfondita ricostruzione delle più complesse e rilevanti vicende di mafia degli anni '70''. I due processi hanno ricostruito la stretta relazione tra il delitto e il lavoro di Francese che aveva intuito, in una inchiesta sugli interessi mafiosi sulla costruzione della diga di Garcia, le "fitte relazioni tra gli ambienti mafiosi e il mondo dell'economia e degli appalti pubblici nella Sicilia occidentale". Nei suoi articoli Francese aveva anche delineato gli scenari dei nuovi assetti mafiosi in quegli anni dominati dall'ascesa del gruppo corleonese di Riina e Provenzano.