giovedì 31 marzo 2011

Zen, la mafia dietro le occupazioni abusive?

Inchiesta della Procura di Palermo sulle case popolari prese d’assalto. Due collaboratori di giustizia hanno avvalorato i sospetti degli inquirenti. Indagini anche su eventuali complicità nella pubblica amministrazione


PALERMO. Dietro le occupazioni abusive dello Zen, a Palermo, c’è la mafia. È la tesi che sta sviluppando la Procura del capoluogo – come riportato nelle pagine del Giornale di Sicilia in edicola questa mattina.

I magistrati, in particolare, indagano su alcuni recenti episodi in cui alcune famiglie hanno lasciato il proprio appartamento per un viaggio o una vacanza e lo hanno trovato immediatamente occupato da altri. Circostanze che si sta cercando di appurare con la collaborazione di due recenti pentiti del quartiere: Salvatore Giordano e il genero Sebastiano Arnone, che avrebbero avvalorato alcuni dei sospetti degli inquirenti.

Indagini anche su eventuali complicità nella pubblica amministrazione.

Beni per 3 milioni sequestrati in Spagna a imprenditore agrigentino

Nel mirino Diego Agrò, di 64 anni, originario di Racalmuto, già condannato all’ergastolo per un omicidio del ’92. È indicato dagli investigatori come vicino ai capimafia agrigentini Fragapane, Fanara e Di Gati


PALERMO. Beni per un valore di oltre 3 milioni di euro sono stati sequestrati dalla Direzione Investigativa Antimafia a un imprenditore agrigentino, attualmente detenuto con una condanna all'ergastolo. Si tratta di tre società per la produzione ed il commercio di olio alimentare che hanno sede in Spagna, paese verso il quale é stata avanzata una rogatoria internazionale alla competente autorità giudiziaria.

L'imprenditore colpito dal provvedimento di sequestro è Diego Agrò, di 64 anni, originario di Racalmuto (Agrigento). Agrò viene indicato dagli investigatori come vicino ai capimafia agrigentini Salvatore Fragapane, Giuseppe Fanara e Maurizio Di Gati. Nel 2009 è stato condannato all'ergastolo per l'omicidio di Mariano Mancuso, ucciso a Aragona nel '92.

L'operazione relativa al sequestro delle tre aziende del settore oleario impiantate dall'imprenditore siciliano in Spagna é stata coordinata dalla Dia di Palermo, diretta dal capo centro colonnello Giuseppe D'Agata.

Omicidio in un bar a Reggio Calabria ucciso un pregiudicato

L'agguato è stato compiuto questa mattina; la vittima è un pregiudicato di 64 anni, Carmelo Morena, ucciso mentre si trovava in un bar
 
Un pregiudicato, Carmelo Morena, 64 anni, è stato ucciso in un agguato compiuto questa mattina a Reggio Calabria, mentre l'uomo si trovava in un bar del centro cittadino. A sparare una sola persona armata di pistola, che si è poi allontanata a piedi. La morte di Carmelo Morena è stata istantanea. Uno dei colpi sparati dall’assassino, tra l'altro, lo ha raggiunto alla testa. Nel momento dell’omicidio nel bar c'erano soltanto Morena, che era entrato per prendere un caffè, e il titolare del locale. Quest’ultimo, dopo aver assistito all’omicidio, ha avvertito un malore. Secondo le prime indagini, Morena era sospettato di essere vicino ad ambienti della 'ndrangheta ed era considerato vicino alla cosca Condello-Tegano, che ha il controllo delle attività illecite in una vasta zona di Reggio Calabria. Nel 2005, era stato coinvolto nell’operazione Vertice fatta dai carabinieri contro la cosca Tegano. L’uomo però, dal processo che ne era scaturito dall’operazione, era stato assolto. La vittima era titolare di un’impresa che effettuava lavori di pitturazione. L’inchiesta sull'omicidio è condotta dal pm della Procura della Repubblica di Reggio Calabria, Stefano Musolino.

Castrovillari, operazione «Street market»14 arresti nel clan degli "zingari"

I centri dello spaccio di droga, erano un bar della frazione Doria e le case popolari di Lauropoli, a Cassano Ionio (Cs),
 
Sono quattordici le persone arrestate nella Sibaritide (CS) da agenti del Commissariato di a Polizia di Castrovillari, nell’mabito dell’operazione antidroga denominata in codice «street market». Le persone colpite dalle misure cautelari emesse dal Gip del Tribunale di Castrovillari su richiesta della Procura della Repubblica, sono accusate di detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, in particolare eroina e cocaina. (


In carcere sono andati Marco Longhi, 41 anni, Aldo Caruso, 48 anni, Antonio Bevilacqua, 29 anni, Giuseppe Rinaldi, 25 anni, Pietro Milito, 27 anni, Fabrizio Praino, 30 anni, tutti pregiudicati. Inoltre Alessandro Graziadio, 22 anni, e Franco Mario, 42 anni, incensurati. Arresti domiciliari per Francesco De Rose, 39 anni, Mariuccia Parrotta, 40 anni, Filippo Lorenzo Rinaldi, 54 anni, Rosetta Gabriele, 40 anni. Obbligo di presentazione alla Polizia Giudiziaria per Roberto De Rose, 41 anni, e Natale Voto, 29 anni.

Tutti sono accusati, in concorso, di detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti. Durante l’operazione sono state sequestrate 135 dosi di eroina, per un totale di 65 grammi, 15 dosi di cocaina, per un totale di 25 grammi, e 2 bilancini elettronici di precisione.

L’operazione era partita un anno fa grazie alle dichiarazioni di un tossicodipendente scampato a un’overdose. Secondo la ricostruzione dell’accusa coordinata dal procuratore della Repubblica di Castrovillari Franco Giacomantonio, in collaborazione con il suo sostituto Baldo Pisani, gli spacciatori, che rifornivano consumatori provenienti da gran parte della provincia, erano legati al clan degli zingari di Cassano Ionio. Nei dodici mesi di indagine, i poliziotti, guidati dal vice questore Giuseppe Zanfini, hanno documentato decine di consegne di dosi con riprese video effettuate da una microtelecamera installata nella piazza.

Un bar della frazione Doria e le case popolari di Lauropoli, a Cassano Ionio (Cs), erano i centri dello spaccio di eroina e cocaina, che veniva gestito attraverso messaggi sms da un’esperta organizzazione. Già dal 2009 il Commissariato di Polizia di Castrovillari teneva però d’occhio alcuni degli arrestati di questa operazione, attraverso diverse telecamere piazzate su palazzi e lampioni della luce. Si è così scoperto che i carichi di droga venivano chiamati "lenzuola", le partite di cocaina erano "balle di fieno" o carichi di "ianca", l’eroina era la "nera" o la "birra", che poteva essere «grande» o «piccola» a seconda della quantità.

«La particolarità è che gli indagati avevano realizzato dei veri turni di lavoro, per coprire le 24 ore. I clienti arrivavano a Doria e a Lauropoli da tutta la provincia», ha detto in conferenza stampa Giuseppe Zanfini, Dirigente del Commissariato di Castrovillari. Diverse dosi di droga sono state recuperate in una grotta, dove erano state nascoste da alcuni degli arrestati.

Agente segreto in manette per una mazzetta da 50mila euro

Soldi da un imprenditore a un funzionario dell'Aisi (ex Sisde) per evitare una verifica fiscale

PADOVA - Riceve una mazzetta di 50mila euro da un imprenditore per "influenzare" un accertamento fiscale ma viene colto sul fatto dai carabinieri e arrestato per concussione. Si tratta di Ettore Mantovan, 58 anni in servizio all'Aisi, l'ex Sisde, e sostituto commissario presso il commissariato di Porto Tolle (Rovigo). I carabinieri del Comando provinciale di Padova lo hanno arrestato a conclusione di una attività investigativa coordinata dalla procura della Repubblica presso il Tribunale, partita dalla denuncia presentata da un imprenditore.


Mantovan è stato bloccato in un parcheggio di Corso Stati Uniti, nella zona industriale del capoluogo euganeo. Il funzionario, libero dal servizio e con autovettura privata, è stato sorpreso dai militari nell'atto di ricevere dall'imprenditore 50.000 euro in banconote di vario taglio, quale corrispettivo per essersi proposto di influenzare in modo più favorevole gli esiti di una verifica fiscale a cui era stato sottoposto. Mantovan è stato immediatamente sospeso dal servizio e si trova in regime di isolamento nel carcere di Padova. L'udienza di convalida dell'arresto è prevista per domattina in tribunale.

Facevano prostituire bambine 12enni: otto arresti a Corigliano Calabro

Le persone arrestate avrebbero fatto prostituire ragazze dall’età di dodici anni, con uomini di età compresa tra i 50 e i 70 anni

I carabinieri hanno arrestato a Corigliano Calabro, sullo Jonio Cosentino, otto persone accusate, a vario titolo, di induzione, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione minorile. Secondo quanto emerso dalle indagini gli otto arrestati avrebbero fatto prostituire ragazze dall’età di dodici anni, facendole incontrare con uomini di età compresa tra i 50 e i 70 anni, tutti con consistenti disponibilità economica. Gli arresti sono stati fatti in esecuzione di ordinanze di custodia cautelare emesse dal gip del tribunale di Rossano su richieste dei sostituti procuratori, Maria Vallefuoco e Vincenzo Quaranta e le indagini che hanno portato agli arresti erano state avviate nell’agosto dello scorso anno.


L'agghiacciante vicenda sarebbe maturata in una situazione di particolare indigenza delle vittime e delle loro famiglie, che avrebbe facilitato ad alcuni degli arrestati, l’adescamento e l’avvio alla prostituzione delle minori già all’età di dodici o tredici anni. In alcuni degli episodi accertati è emerso che due ragazze, tra gli arrestati, da vittime sarebbero poi diventate carnefici, avviando a loro volta alla prostituzione, persino le sorelle più piccole pur di trarne profitto.

È stato inoltre accertato che uno dei destinatari del provvedimento procacciava, su richiesta ad una vasta clientela, prostitute anche non minorenni, e in uno degli appuntamenti organizzati avrebbe, con un terzo soggetto, sequestrato e violentato una delle vittime. Il tariffario previsto per i rapporti con le minori prevedeva un corrispettivo molto più elevato in caso di consumazione con ragazzine senza pregresse esperienze sessuali, favorendo in questo modo l’avvio di giovani indigenti alla prostituzione in tenera età. L'operazione è stata denominata "Flash Market".

Avvenente commessa finisce a sua insaputa su un sito pornografico

Su un sito erotico, c’era la sua foto e l’imbarazzante nickname «vacca». Ma lei, un’avvenente bionda commessa leccese di trent’anni, non ne sapeva niente. Sapeva solo di aver aperto un profilo su Facebook, che per altro utilizzava assai di rado, e solo per scambiare qualche confidenza con i pochi amici internauti.

E proprio da loro ha saputo che la sua foto era finita su quel sito compromettente. All’inizio la giovane non voleva nemmeno crederci, pensando si trattasse di uno scherzo, poi la brutta sorpresa quando ha verificato di persona che era la verità.
Scoperto quanto qualcuno stava combinando alle sue spalle, a dir poco infuriata, la donna si è subito decisa a sporgere denuncia in Questura, ed il suo caso è stato affidato agli agenti della polizia postale e delle telecomunicazioni.
Approdati sul sito erotico, del tipo utilizzato per incontri di natura sessuale od anche semplicemente per parlare liberamente di sesso, gli agenti sono risaliti ad un utente di Cossato, un paesino della provincia di Biella.
Ma grande è stata la meraviglia quando hanno scoperto che quell’utente era una donna, un’impiegata di quarant’anni.

L’arcano è stato però rivelato quando i poliziotti piemontesi si sono presentati nella casa della donna, che al cospetto delle domande degli investigatori, è caduta dalle nuvole. Ma avendo immediatamente realizzato quanto doveva essere accaduto, si è subito ripresa, e ha detto che, di tanto in tanto, il suo personal computer veniva utilizzato da un amico, pure lui impiegato.

Inutile aggiungere che era stato proprio lui ad impossessarsi della foto della commessa leccese, che con lo sgradevolel nickname utilizzava per chattare liberamente sul sito pornografico.

L’uomo, di 45 anni, è stato ovviamente denunciato per il reato di sostituzione di persona, mentre il pc dell’amica è stato sequestrato

Caos Manduria Mantovano lascia il governo

Il sottosegretario si dimette: troppi ospiti, i patti
non erano questi

MANDURIA
Sono bastate le parole di Silvio Berlusconi a Lampedusa - «L’isola sarà liberata, 1400 clandestini finiranno nella tendopoli di Manduria» - e gli effetti si vedono già. Il sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano sbatte la porta e si dimette.

Il sindaco di Manduria, Paolo Tommasino, pure del Pdl, dopo l’incontro a Roma col ministro Roberto Maroni fa lo stesso: «Se queste sono le condizioni facciano loro senza di me. Se il piano del governo è quello di scaricare tutto su Manduria io non ci sto. A quei governatori del Nord che dicono che non vogliono immigrati, da Roberto Formigoni in Lombardia a Luca Zaia in Veneto, dico soltanto che il problema o è nazionale o si trovino un altro sindaco per Manduria».

Zero risposte. L’unica cosa che è stata trovata è una doppia recinzione più alta della prima, per evitare che dal campo di Manduria ci siano altre fughe nella notte. Cresce la rete e si moltiplicano le tende. Adesso sono quattrocento e passa. Sono da otto ognuna. Fatti due conti il campo sulla strada di Oria potrebbe arivare a contenere 3200 immigrati. «Una pazzia. Vuol dire una concentrazione di clandestini pari al dieci per cento della popolazione del mio paese», spiega il sindaco diventato ex in meno di un pomeriggio. Nel campo sono rimasti milleduecento clandestini. Quattordici hanno ottenuto lo status di rifugiato politico, documenti nuovi di zecca, una vita tutta in salita ma comunque una vita fuori da qui, da questo campo con le tende blu con il logo del ministero dell’Interno bello grande e bene in vista.

Il vescovo di Oria Vincenzo Pignanello ci passa al mattino per vedere l’effetto che fa: «Spero che sia una situazione di emergenza e non definitiva...». Smentito in due ore e tante grazie. Davanti al campo vengono in processione gli abitanti di Oria e sono bestemmie: «Qui non li vogliamo...». Venti giovani dei centri sociali fanno la voce grossa e srotolano uno striscione dall’altra parte della strada: « Siamo qui per difendere i vostri diritti. Che sono pure i nostri».

In questa storia nata male e destinata a finire peggio, i tunisini dentro al campo aspettano di capire cosa sarà di loro. Samir che è da qui da domenica sogna di andare a Genova: «In Tunisia si stava peggio che a Lampedusa. A Lampedusa si stava peggio che qui. Stiamo solo migliorando la nostra vita...».

Che è una bella botta di ottimismo in questa tendopoli dove piove dentro, ci sono venti centimetri di fango, a pranzo e a cena si mangiano «maccaroni», l’acqua è nelle bottigliette, le docce quando ci sono sono fredde, i bagni chimici sono sul punto di esplodere e il pacchetto da dieci di sigarette dato ad ognuno è finito da un pezzo.

Una psicologa in aiuto al campo racconta che la paura più grande è quella dei rimpatri e che molti non sanno dove si trovano. Ahmed che al posto delle scarpe ha i sacchetti di cellophan chiede smarrito: «È lontana la stazione? È lontana la Francia?».

FABIO POLETTI

martedì 29 marzo 2011

"Il crollo si poteva evitare" undici indagati a Favara

FAVARA (AGRIGENTO) - Undici avvisi di conclusione delle indagini sono state notificati ad altrettante persone indagate per disastro colposo ed omicidio colposo per il crollo della casa di via Del Carmine che provocò la morte delle sorelline Chiara Pia e Marianna Bellavia.


Gli indagati sono: il sindaco di Favara, Domenico Russello, 49 anni; due suoi predecessori, Carmelo Vetro, 65 anni, e Lorenzo Airò, 53 anni; il proprietario ed il possessore dell'immobile, Rosalia Presti, 38 anni, e Antonio Noto, 52 anni; e 6 dirigenti ed ex dirigenti dell'Utc di Favara, Giacomo Sorce, 50 anni; Sebastiano Dispenza, 53 anni; Pasquale Amato, 56 anni; Alberto Avenia, 51 anni; Antonio Grova, 48 anni; e Vincenzo Arnone, 53 anni.

Secondo l'accusa, il crollo si poteva evitare se le persone indagate avessero messo in atto i controlli e le verifiche necessarie finalizzate a constatare l'agibilità dell'immobile e ad emettere il conseguente ordine di sgombero.

Il sindaco di Favara, Domenico Russello (Pdl), si è dimesso dopo aver ricevuto l'avviso di conclusione indagini: "Lascio l'incarico - ha detto durante una conferenza stampa - perchè in questi quattro anni ho sempre sposato e portato avanti una battaglia per la legalità. Nessuno può avere sospetti sul fatto che io abbia responsabilità per quel disastro, ma questo lo dimostrerò nelle aule di tribunale".

"Sono sempre stato convinto che chi ricopre una carica pubblica non debba avere su se stesso l'ombra del sospetto per comportamenti illegittimi, illegali o per omissioni, ecco perchè, seppur con grande sofferenza, ho lasciato l'incarico di sindaco di Favara", ha detto Russello. Adesso gestirà il Comune, in attesa che la Regione nomini un commissario straordinario, il vice sindaco Josphef Zambito.

È probabile che il consiglio comunale rimanga in carica fino alla sua naturale scadenza, fissata per la primavera del prossimo anno. Il segretario generale del Comune di Favara ha comunque già trasmesso alla Regione le irrevocabili dimissioni di Russello e non è escluso, anche se sembra difficile dato i tempi strettissimi, che la città possa essere inserita nella tornata elettorale del prossimo maggio.

'Ndrangheta, latitante arrestato a Siderno sfuggito all'operazione "Crimine"

L'operazione «Crimine», nel luglio del 2010 aveva portato all’arresto di oltre trecento persone tra la Calabria e la Lombardia
 
La polizia ha arrestato a Siderno (Rc) un affiliato alla 'ndrangheta, Antonio Galea, di 49 anni, latitante dal luglio del 2010, accusato di associazione per delinquere di tipo mafioso. Galea si era sottratto all’arresto nell’ambito dell’operazione «Crimine», condotta dalle Dda di Reggio Calabria e Milano, che nel luglio del 2010 aveva portato all’arresto di oltre trecento persone tra la Calabria e la Lombardia. Galea, in particolare, è accusato di essere un affiliato alla cosca Commisso di Siderno per conto della quale avrebbe gestito affari illeciti sia in Calabria che in Lombardia.


Antonio Galea è stato sorpreso dalla Squadra mobile di Reggio Calabria in un appartamento nel centro di Siderno. I dettagli dell’operazione saranno illustrati nel corso di una conferenza stampa che avrà luogo alle 16 nella Q

Sequestrati 69 kg di cocaina al Porto di Gioia Tauro

Ancora un sequestro di cocaina al porto di Gioia Tauro dopo i 220 kg rinvenuti nei giorni scorsi
 
I funzionari dell’Ufficio delle Dogane di Gioia Tauro, con la collaborazione dei militari della Guardia di Finanza operanti nell’area doganale e del GICO di Reggio Calabria, hanno effettuato, un nuovo sequestro di cocaina pari a circa 69 kg, per un valore di mercato stimato di oltre 5 milioni di euro. La sostanza stupefacente, occultata in un container contenente banane, proveniva dal Sud America ed era destinata ad una azienda del Nord Italia. La scoperta è stata effettuata grazie al monitoraggio della merce proveniente dal continente sudamericano svolto dall’Ufficio Antifrode Centrale di Roma e all’utilizzo dell’apparecchiatura scanner a raggi X in dotazione all’Ufficio delle Dogane di Gioia Tauro. L’inchiesta è coordinata dalla Procura della Repubblica di Palmi e dalla DDA di Reggio Calabria. Nei giorni scorsi, sempre al porto, erano stati sequestrato 220 chilogrammi di cocaina.

Inchiesta proiettili all'uranio, in Sardegna ordinata riesumazione 20 allevatori

Procura Lanusei indaga sui casi di tumore nella popolazione e negli animali vicini a poligono Perdasdefogu-Salto di Quirra

ROMA - Il procuratore della Repubblica di Lanusei Domenico Fiordalisi ha ordinato la riesumazione di venti allevatori morti fra il 1995 ed il 2010 a causa di tumori al sistema linfo-emopoietico. Tutti avrebbero condotto al pascolo le loro greggi sui terreni del Poligono sperimentale interforze di Perdasdefogu-Salto di Quirra. Il magistrato ha avviato una inchiesta sulla cosiddetta sindrome di Quirra, per accertare eventuali legami fra l'attività della base e le patologie tumorali riscontrate nella popolazione vicina al poligono ed i casi di malformazione sugli animali.


I resti umani saranno analizzati dal fisico nucleare Evandro Lodi Rizzini, direttore del Dipartimento di Chimica e fisica dell'Università di Brescia e membro del Cern di Ginevra, che è stato incaricato di eseguire gli esami peritali con metodiche che consentano di individuare eventuali tracce di contaminazioni radioattive o tossiche. Gli esami, come già accaduto nel caso di quelli effettuati in un laboratorio francese sui resti di un soldato reduce dei Balcani, morto a 27 anni per un linfoma non Hodgkin, dovranno individuare anche le correlazioni tra la causa delle morti e l'inquinamento che si sospetta possa esserci nell'area del Poligono. Nel fascicolo processuale contro ignoti aperto dalla procura di Lanusei è stato aggiunto anche un nuovo capo di imputazione: omicidio colposo con dolo.

La base è sede del Reparto di sperimentazione e standardizzazione del tiro aereo (Rssta) dove si addestrano tutti i reparti italiani e tedeschi, che hanno una compartecipazione nella gestione dell'aeroporto, e di altre nazionalità ospiti per le esercitazioni.

Nelle scorse settimane Fiordalisi aveva ordinato l'acquisizione di documentazione sulle armi e sulle esercitazioni svolte nelle basi sarde di Perdasdefogu e Decimomannu, in Umbria a Baiano di Spoleto (sede di uno stabilimento di munizionamento militare), e nel Lazio, a Nettuno. Fiordalisiaveva emesso ancheo un decreto di esibizione degli ordini di servizio degli aerei decollati da Decimomannu alla volta dei poligoni addestrativi sardi. Il periodo preso in esame sarebbe di 30 anni. Il magistrato punta a stabilire quali fossero gli armamenti in uso ai velivoli in addestramento, per accertare se siano stati impiegati ordigni bellici con uranio impoverito. Secondo alcune testimonianze all'inizio degli anni '90 al Salto di Quirra l'aeronautica tedesca avrebbe testato missili antinave Kormoran della Mbb con lanci su un vecchio rimorchiatore ormeggiato davanti alle coste sarde.

Quattro giorni fa una discarica di materiali pericolosi era stata scoperta vicino al poligono da agenti del Corpo Forestale e di Vigilanza ambientale della Regione Sardegna. La nuova discarica è vicina al punto dove qualche settimana fa le piogge avevano fatto affiorare parti di missili e razzi. Gli agenti avevano trovato, in un'area di ettaro, apparecchiature elettriche, lamiere, fusti metallici, avvolgimenti di vario materiale, amianto, pneumatici e gomme, cavi elettrici. Il procuratore Fiordalisi, informato del ritrovamento, aveva esteso il provvedimento di sequestro anche a quella parte della zona. Nel lavoro di ricerca i forestali sono affiancati dal tossicologo Pierluigi Carboni, per accertare se ci sia stato avvelenamento delle falde acquifere.

Il procuratore Fiordalisi potrebbe esser sentito alla Camera sulle preoccupazioni delle popolazioni riguardanti la situazione del poligono di Quirra e delle aree circostanti. Il deputato dell'Italia dei Valori, Federico Palomba, ha incontrato il procuratore e ha consegnato al magistrato gli atti relativi all'interpellanza urgente da lui proposta. Fiordalisi è stato già sentito a Roma, il 17 marzo scorso, dalla Commissione d'inchiesta del Senato sull'uranio impoverito.

Delitto dell'Olgiata, dopo 20 anni fermato il domestico filippino

Il 40enne Winston Manuel


Reves accusato dell'omicidio della contessa Alberica Filo
della Torre avvenuto a Roma: "Incastrato da un Dna maschile"

ROMA
Un delitto irrisolto da quasi 20 anni, quello della contessa Alberica Filo della Torre, strangolata e colpita alla testa con uno zoccolo nella sua villa dell’Olgiata il 10 luglio 1991, torna oggi alla ribalta con il fermo di Winston Manuel, il domestico filippino, di 41 anni che all’epoca lavorava nella villa.

Ad incastrarlo, dopo anni di silenzio, il dna estrapolato su alcuni reperti. Un delitto e un’inchiesta che sembra procedere di pari passo con l’omicidio di via Poma, dove Simonetta Cesaroni fu uccisa nell’agosto del 1990, a Roma, e che proprio grazie alle nuove tecniche investigative che si basano sull’esame del codice genetico ha individuato l’ex fidanzato Raniero Busco come l’omicida e che proprio pochi mesi fa è stato condannato in primo grado.

Il domestico filippino è stato sottoposto al fermo nel quadro degli accertamenti del procuratore aggiunto Pierfilippo Laviani e del sostituto Francesca Loy, in collaborazione con i carabinieri del Reparto Operativo e del Ris. A determinare il fermo è stato il pericolo di fuga. La procura dovrà ora chiedere la convalida del fermo. Le nuove indagini erano state sollecitate da Pietro Mattei, vedovo della contessa, con un’istanza nella quale si chiedeva, attraverso l’uso delle nuove e più sofisticate tecnologie, specie quelle relative all’identificazione delle tracce biologiche, il riesame degli oggetti repertati nella stanza in cui avvenne il delitto. Tra questi, un fazzoletto di carta con del muco, i pantaloni di Winston e di Roberto Iacono, figlio della governante della contessa, il lenzuolo del letto della contessa, lo zoccolo con il quale fu colpita alla testa ed alcuni suoi indumenti intimi.

Tre anni fa il gip del Tribunale di Roma aveva infatti respinto la richiesta di archiviazione per i due storici indagati della vicenda, l’ex domestico filippino Winston Manuel e il figlio della governante della contessa. Il giudice ordinò alla procura di riesaminare completamente il caso analizzando alla luce delle nuove tecniche di indagine, sia biologiche, sia strumentali, tutti i reperti acquisiti: primo tra tutti lo zoccolo usato come arma del delitto per colpire la contessa a morte. Ad opporsi all’ archiviazione della posizione di Winston e Iacono fu il legale di Mattei, l’avvocato Giuseppe Marazzita che aveva raccolto nuove prove scovando una nuova testimone, un’amica della nobildonna, depositaria dei timori della stessa contessa a cui lei avrebbe confessato di temere per la propria vita e di essere spiata.

Tra i tanti oggetti il giudice aveva chiesto di acquisire la famosa agenda di Alberica Filo della Torre, piena zeppa di nomi di vip, di personaggi istituzionali e sulla quale, secondo l’avvocato Marazzita, potrebbero essere segnati date e orari di appuntamenti da verificare, proprio il giorno 10 luglio 1991. Agenda saltata fuori grazie alle dichiarazioni di un giornalista che ne è entrato in possesso. Il gip ordinò infine alla procura di acquisire le centinaia di foto scattate sulla scena del crimine e che non sono state inserite nel fascicolo. E chiese l’espletamento di nuove analisi biologiche sul Rolex d’oro fermo all’ora del delitto che Alberica portava al polso. Questa sera il colpo di scena. E dopo vent’anni lo spiraglio di un probabile processo per la morte della contessa.

lunedì 28 marzo 2011

Imprenditore edile ferito a Riace intaccato il midollo, rischia la paralisi

I sicari sono entrati in azione dopo aver bloccato il cancello automatico della casa di Nicola Ienco, ricoverato nel reparto di Rianimazione a Locri. Ha subito l’asportazione di un rene
 
Ancora non sarebbe chiaro il movente della sparatoria nella quale sabato notte, a Riace, è rimasto gravemente ferito Nicola Ienco, 53enne (nel riquadro) imprenditore edile del luogo, già noto alla giustizia. Gli inquirenti, per il momento, non escludono alcuna ipotesi e lavorano a 360 gradi per capire movente ed arrivare all'autore del tentato omicidio. L'imprenditore Ienco ora, lotta tra la vita e la morte e le sue condizioni sono preoccupanti, secondo quanto riferito da un congiunto, che ha parlato ieri sera con i responsabili del reparto di rianimazione dell'ospedale di Locri, dove Nicola Ienco è stato ricoverato subito dopo l'attentato subito. L'imprenditore, sposato e padre di due figli, è stato colpito da due scariche di fucile da caccia caricato a pallettoni, sparate a distanza di pochi metri. I colpi si sono conficcati tutti nella parte superiore del corpo dell'uomo. Le conseguenze sono molto pesanti, la situazione è seria. Dopo il ricovero urgente presso il nosocomio locrese i sanitari hanno valutato le condizioni dell'uomo e sono intervenuti per asportargli un rene.


Sempre per le conseguenze delle gravi ferite di arma da fuoco, Nicola Ienco è stato subito trasferito in sala rianimazione. Uno dei pallettoni gli ha lesionato una costola e perforato un polmone, per cui si è reso necessario il drenaggio toracico, allo scopo di far fuoriuscire aria e sangue che potrebbero accumularsi in cavità. La situazione che desta maggiore preoccupazione, e anche per ciò viene mantenuta riservata la prognosi, è per il pallettone che è finito per compromettere il midollo spinale, si presume in modo irreversibile. Nicola Ienco, se riuscirà a salvarsi, rischia di rimanere per sempre su una sedia a rotelle.

Duisburg, la moglie di un detenuto: "mio marito è gravemente malato"

Parla la moglie di Giuseppe Nirta, detenuto in regime di 41 bis nel carcere de l’Aquila dopo l'arresto per essere coinvolto nella faida di San Luca
 
La moglie di Giuseppe Nirta, Aurelia Strangio, in una lettera si dice «profondamente allarmata» per le condizioni di salute del marito, «che è gravemente ammalato - afferma la donna – ed abbandonato a se stesso». Giuseppe Nirta, arrestato in Olanda nel 2009 per la faida di San Luca e detenuto in regime di 41 bis nel carcere de l’Aquila, secondo l’accusa, sarebbe l’esecutore della strage di Duisburg del giorno di Ferragosto del 2007, in cui furono uccise sei persone, insieme al cognato Giovanni Strangio.


«Mio marito – dice la consorte – è sofferente da due anni e dai pochi accertamenti cui è stato sottoposto in carcere non è stata trovata la causa dei suoi malori. Da un anno è ridotto a non mangiare più cibo e ad assumere solo liquidi. Malgrado questo continua ad avere forti dolori che lo costringono a stare a letto con sofferenze atroci, nausea e continue perdite di sangue. Mio marito ha bisogno di controlli e di essere curato in una struttura adeguata. Ho scritto anche al direttore del carcere e mi ha risposto che hanno fatto tutti i passi necessari, compresa la richiesta di ricovero, che però fino ad oggi non è avvenuto». «Aiutatemi ad evitare – conclude Aurelia Strangio – un’altra morte in carcere. Aiutatemi a fare valere la legge anche per i detenuti per problemi di salute affinchè, come si è sempre detto, possano essere curati in strutture adeguate».

"Bancarotte per non pagare le tasse" In cella i signori del marchio Aiazzone

Evasi oltre dieci milioni di euro.Tra gli arrestati anche l'ex patron del Torino Gianmauro Borsano

TORINO
Negli anni ’80 il mobilificio Aiazzone, grazie anche allo slogan «provare per credere», era uno dei marchi più conosciuti nella vendita di mobili in Italia. Oggi sono finiti in manette tre imprenditori che di quel marchio erano gli attuali utilizzatori. Si tratta degli imprenditori Gianmauro Borsano, già patron del Torino, Renato Semeraro e Giuseppe Gallo.

Omesso pagamento delle imposte, bancarotta documentale e per distrazione, a seconda delle posizioni processuali, i reati contestati dai pm della Procura di Roma. I provvedimenti hanno riguardato anche il commercialista Marco Adami, finito ai domiciliari, mentre per un avvocato romano, Maurizio Canfora, è stata disposta la sospensione dall’esercizio della professione. Le misure cautelari sono state emesse dal gip Giovanni De Donato su richiesta del procuratore aggiunto Nello Rossi e dei sostituti Francesca Loy e Francesco Ciardi.

I provvedimenti cautelari sono stati eseguiti dal nucleo di polizia valutaria della guardia di finanza. Nell’inchiesta, iniziata nel marzo del 2010, sono indagate, in totale, dieci persone. Gli uomini delle Fiamme Gialle hanno provveduto anche ad un sequestro preventivo, anche per equivalente, per un valore di oltre 50 milioni di euro. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti i tre imprenditori arrestati svuotavano sistematicamente le società del Gruppo, tra cui la capofila B&S e la Mete Spa, indebitate con il fisco mediante fittizie cessioni di immobili e di partecipazioni societarie, prelevamenti in contanti ed emissione di fatture per operazioni inesistenti. Gli arrestati facevano, quindi, confluire la parte attiva delle aziende stesse (dipendenti, rami d’azienda e beni immobili) in nuove società appositamente costituite.

In una seconda fase gli arrestati, in modo fraudolento, cedevano la rappresentanza delle società oramai depauperate ad un cittadino bulgaro che provvedeva al trasferimento delle società in Bulgaria con la conseguente cancellazione dal registro delle imprese italiano al fine di scongiurare il procedimento di fallimento. Gli inquirenti hanno accertato, inoltre, che Borsano, Semeraro (solo omonimo dell’attuale proprietario del Lecce calcio) e Gallo, per le ulteriori società del gruppo tra cui Holding dell’Arredo Srl hanno chiesto a diversi tribunali di essere ammessi al concordato preventivo per evitare sempre il fallimento fornendo, però, garanzie patrimoniali inesistenti.



venerdì 25 marzo 2011

Un pentito parla di Fragalà: "Aveva una cattiva fama tra i mafiosi"

Il pool della Procura di Palermo che indaga sull'omicidio dell'avvocato, avvenuto il 23 febbraio dello scorso anno, ha acquisito il verbale di un nuovo collaboratore di giustizia, Onofrio Prestigiacomo, bagherese arrestato nell'operazione Perseo del dicembre 2008


PALERMO. Il pool della Procura di Palermo che indaga sull'omicidio dell'avvocato Enzo Fragalà, avvenuto il 23 febbraio dello scorso anno, ha acquisito il verbale di un nuovo collaboratore di giustizia, Onofrio Prestigiacomo, bagherese arrestato nell'operazione Perseo del dicembre 2008, che da fine 2010 rende dichiarazioni ai pm.

Prestigiacomo, che ha parlato della cattiva fama di Fragalà tra i mafiosi perché assisteva spesso poliziotti, carabinieri e finanzieri, potrebbe adesso essere sentito anche dai pm Carlo Lenzi e Nino Di Matteo che si occupano dell'inchiesta coordinata dall'aggiunto Maurizio Scalia. In particolare il collaboratore ha raccontato che il suo compagno di cella Giuseppe Casella, anche lui arrestato nell'operazione Perseo e condannato in primo grado per mafia, gli avrebbe detto che aveva sbagliato a farsi interrogare e ad essere difeso dall'avvocato Fragalà perché adesso lo chiamavano "sbirro". Non è una novità per gli inquirenti che Fragalà non godesse dell'ammirazione dei mafiosi a causa dell'abitudine di far interrogare i clienti e di difendere alcuni esponenti delle forze dell'ordine. Non è un caso che Fragalà non avesse fra i suoi clienti mafiosi di grande spessore. I pm decideranno solo dopo aver letto il verbale, depositato nel processo Perseo, se sentire Prestigiacomo.

Omicidio Ingarao: ergastolo ai Lo Piccolo e altri tre

Il boss fu ucciso a Palermo il 13 giugno 2007. La prima sezione della Corte d'Assise ha condannato anche Francesco Di Piazza, Andrea Adamo e Vito Palazzolo


PALERMO. Cinque ergastoli sono stati inflitti ai capimafia imputati dell'omicidio del boss Nicola Ingarao, ucciso a Palermo il 13 giugno 2007. La prima sezione della Corte d'Assise ha così accolto le richieste dei pm Francesco Del Bene e Roberta Buzzolani. Il carcere a vita è stato comminato a Salvatore e Sandro Lo Piccolo, Francesco Di Piazza, Andrea Adamo e Vito Palazzolo. Per gli ultimi tre è il primo ergastolo.

L'omicidio di Ingarao fu deciso dai Lo Piccolo per punire la sua vicinanza con il loro nemico storico: il capomafia della cosca di Pagliarelli Antonino Rotolo.

"Ingarao doveva essere ucciso perché era uomo di Rotolo e come era emerso dalle intercettazioni si era espresso in modo pesante nei confronti dei Lo Piccolo. Andrea Bonaccorso era alla guida della moto mentre io sparavo. Avevo una pistola a tamburo calibro 38 con sei colpi in canna e una calibro 9", ha raccontato il pentito Gaspare Pulizzi che è stato condannato, con il rito abbreviato, assieme all'altro collaboratore Bonaccorso alla pena di 10 anni e 6 mesi, confermata anche in appello.

Pulizzi e Bonaccorso avevano seguito in moto Ingarao mentre usciva dal commissariato dove si recava per l'obbligo di firma e poi gli hanno sparato. I due sono poi fuggiti a casa di Paolo Di Piazza, dove sono stati distrutti i guanti e dei caschi usati durante l'agguato e occultate le armi. Gli stessi pentiti hanno svelato il ruolo di copertura fornito al commando da Andrea Adamo e Vito Palazzolo

Napoli, smantellata banda serba di furti in casa: basi da Trieste a Caserta

NAPOLI - La Squadra Mobile della Questura di Trieste ha arrestato i componenti di una banda criminale serba che operava in tutta Italia a conclusione dell'operazione «Black Hole», avviata lo scorso novembre a seguito di numerosi furti in appartamento commessi su tutto il territorio italiano.


Gli arrestati sono Srecko Veselinovic di 31 anni, Perica Djurdjevic di 38, Gordana Mitrovic di 39, Nebojsa Mitrovic di 44 e Mario Radosavljevic di 21, tutti di etnia rom e accusati dal gip del Tribunale di Trieste di associazione per delinquere finalizzata ai furti in appartamento e ricettazione.

Altri due componenti della banda sono ricercati in Italia e all'estero in collaborazione con l'Interpol, per l'esecuzione dell'ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip su richiesta del pm titolare dell'indagine, Maddalena Chergia.

L'attività investigativa si è conclusa in queste ore con l'esecuzione degli arresti e di numerose perquisizioni da parte della Squadra Mobile di Trieste e delle Squadre Mobili di Napoli, Caserta, Padova e Gorizia.

L'indagine è stata particolarmente complessa a causa della clandestinità di alcuni dei componenti della banda, favorita anche dalla complicità di connazionali domiciliati in campi nomadi della Campania. Nel corso dell'indagine, coordinata dal Servizio Centrale Operativo della Direzione Centrale Anticrimine, sono stati coinvolti diversi uffici di polizia, in particolare nel nord-est per l'identificazione dei componenti della banda e dei loro complici, oltre che per l'esatta localizzazione dei vari nascondigli nei campi nomadi utilizzati per nascondere la refurtiva.

Ponza, il porto in mano al clan Bardellino Il pm: processate anche sindaco e politici

PONZA - Era un vecchio capriccio di zio Antonio, di don Antonio Bardellino, camorrista e mafioso. Oltre il Garigliano, tra Formia e Gaeta, aveva costruito il suo piccolo feudo estivo: case, bar, ristoranti, discoteche, un’enclave dedicata al divertimento, succursale di Napoli e Santo Domingo dove pure, nelle vesti di ricco imprenditore amico del regime, governava la vita notturna e il riciclaggio di lusso.

Quando era sparito in Brasile, 21 anni fa, quell’impero era rimasto ai fratelli e ai nipoti, che lì, nel Basso Lazio, si erano rifugiati per sfuggire alla sanguinosa rappresaglia di Mario Iovine e Francesco Schiavone.

I nipoti si sono dati da fare, rafforzando il potere camorrista e ingrandendo quello economico e finanziario, spingendosi fino alle isole, soprattutto a Ponza. Ciò che racconta l’inchiesta del pm di Latina Giuseppe Miliano, che ha depositato all’ufficio gip la richiesta di giudizio immediato per i trenta indagati, è appunto una storia di camorra e di impresa, di camorra moderna che investe denaro nel turismo e che, all’occorrenza, continua a usare la violenza.

Tra le persone per le quali la Procura pontina ha chiesto il processo, figurano molti colletti bianchi: il sindaco dell’isola Pompeo Porzio, assessori e consiglieri comunali, componenti delle forze dell’ordine che negli ultimi anni avevano lavorato a Ponza, i titolari di alcuni pontili privati e infine lui, Angelo Bardellino, 39 anni, accusato di lesioni ai danni di un imprenditore di Formia vittima di un violentissimo pestaggio e recentemente condannato a sette anni e mezzo di reclusione per estorsione.

Nelle carte del pm Miliano, la ricostruzione di una vita isolana fatta di soprusi, di un microcosmo nel quale il controllo di legalità è stato sospeso in una sorta di limbo: niente controlli ai pontili, niente verifiche nei negozi e nei ristoranti. La contropartita? Piccoli e grandi favori personali. Tradotto in contestazioni giuridiche, quei comportamenti sono stati classificati come abusi d’ufficio, concussione, corruzione, falso in atto pubblico.

L’indagine chiusa ieri è l’approfondimento di un’inchiesta ordinaria, relativa alle concessioni delle autorizzazioni ai gestori dei pontili, che due anni fa furono anche sequestrati per violazioni delle norme urbanistiche. Nello stesso periodo, un professionista di Formia fu colpito a bastonate da Angelo Bardellino. Nella denuncia non fece il nome dell’aggressore e per identificare lui e il mandante dell’aggressione furono intercettate alcune utenze telefoniche. Alla gestione «privata» dell’isola, invece, si è risaliti attraverso una denuncia comparsa su un blog, nella quale si faceva riferimento a infiltrazioni camorristiche a Ponza.


di Rosaria Capacchione

Roma, arrestati 5 operatori finanziari: da vent'anni truffavano vip e aristocratici

Tra le vittime delle truffe Sabina Guzzanti, il padre Paolo, Massimo Ranieri, Stefano Desideri e molti nobili

ROMA - La Guardia di Finanza ha arrestato cinque operatori finanziari che da oltre vent'anni truffavano professionisti, vip e famiglie dell'aristocrazia romana ai quali promettevano interessi alti, anche fino al 10%, a fronte dei loro investimenti. I provvedimenti di custodia cautelare, emessi dal Gip Simonetta D'Alessandro su richiesta del procuratore aggiunto Nello Rossi e del sostituto Luca Tescaroli, riguardano Gianfranco Lade, Roberto Torregiani, Giampiero Castellacci di Villanova, Andrea e Raffaella Raspi.


I cinque sono accusati di aver creato una organizzazione che si occupava di raccogliere risparmi illecitamente, ossia senza avere i requisiti previsti dalla legge. Le vittime risiedevano sopratutto nel quartiere Parioli, mentre il gruppo che aveva la propria sede in via Bocca di Leone, nel centro storico. Nei loro confronti si ipotizzano i reati di associazione per delinquere di carattere transnazionale finalizzata ai reati di abusivismo finanziario, al compimento di reati di truffa e di appropriazione indebita. I soldi ottenuti dai risparmiatori, a cui promettevano rendimenti estremamente alti, venivano investiti in strumenti finanziari, attraverso società abusive del Regno Unito e irlandesi, tutte con lo stesso nome: Eim. L'associazione tra l'altro ha fornito dati falsi alla Consob, continuando ulteriormente la truffa e proponendo ai clienti la sottoscrizione di obbligazioni emesse da società lussemburghesi, riconducibili agli stessi membri dell'organizzazione, non rimborsate alla scadenza o a richiesta dei clienti medesimi. Le indagini, tuttora in corso anche attraverso rogatorie all'estero, hanno permesso di individuare circa 700 investitori, i cui risparmi sono stati trasferiti all'estero attraverso una complessa rete societaria, posta anche in Paesi off-shore, ed impiegati tra l'altro in fondi chiusi esteri, in particolare alle Bahamas.

Sabina Guzzanti, Massimo Ranieri, l'ex calciatore della Roma Stefano Desideri, la principessa Claudia Ruspoli, sono solo alcuni dei personaggi truffati dall'organizzazione. L'indagine è partita alle fine del 2009 sulla base di una trentina di denunce, presentate tra gli altri da Gloria Helen Von Euduck, Claudia Ruspoli, Maria Carla Clavet di Briga, Alessandro d'Aste Stella, Laura Balducci, Maria Grazia Balducci e Sandro Balducci. Alcuni dei clienti truffati, come Ranieri e Desideri, non hanno sporto querela, altri ancora, invece hanno deciso di rivolgersi ai magistrati. Singolare il caso di Sabina Guzzanti che, a fronte di 408 mila euro consegnati agli operatori, ne ha recuperati 380 mila, con una perdita di 28 mila euro. Il gruppo, secondo gli inquirenti, avrebbe conquistato la fiducia sul mercato con operazioni che effettivamente avevano portato un guadagno ai risparmiatori. Tra i clienti del gruppo anche Samantha De Grenet, Paolo Guzzanti, padre di Sabina, e l'avvocato Titta Madia.

Casalesi, 11 arresti per faida Villa Literno preso anche figlio boss Bidognetti

CASERTA - Figura anche Raffaele Bidognetti, figlio del capoclan Francesco, tra gli undici affiliati e fiancheggiatori al clan dei «Casalesi» del gruppo Bidognetti arrestati oggi dai carabinieri del Nucleo Investigativo di Caserta. Sono ritenuti responsabili, a vario titolo, dell'omicidio, commesso nel maggio del 2004 di un 19enne affiliato a un gruppo camorristico contrapposto a quello dei «Bidognetti». In particolare, Raffaele Bidognetti, di 37 anni, è ritenuto dagli investigatori il mandante dell'assassinio del giovane. L'uccisione del 19enne era stato preceduto, pochi giorni prima, da un ulteriore agguato nei suoi confronti, non andato però a buon fine. L'omicidio si inserisce nel contesto della guerra intestina consumatasi nel clan «dei Casalesi» tra i gruppi Tavoletta-Ucciero e Bidognetti, che si contendevano la supremazia nella gestione delle attività criminose a Villa Literno. Una faida protrattasi dal 1997 al 2005 che fece numerose vittime in entrambe le fila.


I provvedimenti, emessi dal Tribunale di Napoli, su richiesta della DDA, sono giunti al termine di indagini dei carabinieri di Caserta, coordinate dalla DDA partenopea, condotte sulla faida, che dal 1997 al 2005 ha fatto registrare numerosi morti e feriti in agguati tra i due gruppi dei casalesi, i «Tavoletta- Ucciero», guidato da Cesare Tavoletta, ormai da anni collaboratore di giustizia e quello capeggiato da Massimo Iovine, altro pentito della cosca, ma per lungo tempo fedelissimo di Francesco Bidognetti. Quest'ultimo, detto «Cicciotto e' mezanotte», capo storico dei Casalesi, è in carcere da anni con una condanna all'ergastolo. I destinatari dei provvedimenti restrittivi della magistratura napoletana, sono accusati a vario titolo di omicidio, tentato omicidio, porto e detenzione di armi e munizioni. Reati aggravati per avere agevolato l'attività dell'organizzazione camorristica. In partiocolare sono ritenuti responsabili dell'omicidio di Antonio Di Frania, detto «vulpacchiello», ucciso il 27 maggio del 2004, dopo essere sfuggito, circa due settimane prima ad un altro agguato. Dalle indagini dei carabinieri del Nucleo Investigativo è emerso, tra l'altro, uno stretto legame tra la fazione dei «Tavoletta», e quello dei «Contaldo» di Pagani (Salerno), capeggiato da Nicola Fiore. Gli investigatori hanno accertato continui scambi di favori tra le due cosche, anche nel portare a termini agguati mortali.

Camorra, cinque ergastoli annullati Scarcerati 4 presunti killer scissionisti

Sentenze annullate in Appello: resta in cella solo il boss Abbinante erano accusati dello "scambio di omicidi" dopo l'agguato a Giovanni Moccia

NAPOLI - Cinque condanne all'ergastolo che erano state inflitte in primo grado nei confronti di esponenti del clan degli Scissionisti sono state annullate in appello al termine del processo per un delitto avvenuto nel 2007 in provincia di Napoli.

La sentenza è stata emessa oggi dalla seconda sezione della Corte d'Assise di Appello di Napoli (presidente Ghionni) che ha assolto Guido Abbinante, indicato come mandante, nonchè Salvatore Baldassarre, Paolo Ciprio, Giovanni Esposito e Giovanni Carriello.
È stata disposta pertanto la scarcerazione degli imputati, ad eccezione di Abbinante che resta detenuto per un altri reati.
I fatti al centro del processo si verificarono il 27 settembre 2007 quando in un agguato avvenuto a Calvizzano (Napoli) fu ucciso Giovanni Moccia e ferito Giovanni Piana.

Quest'ultimo, scampato all'agguato, poco dopo decise di collaborare con la giustizia. Il pentito spiegò che il delitto era da attribuire a uno scontro interno al clan degli Scissionisti, la cosca che si contrapponeva agli ex alleati dei Di Lauro. In particolare parlò di una sorta di scambio di favori tra i vertici Scissionisti, il gruppo Amato-Pagano, e quello degli Abbinante ai quali i vertici degli Scissionisti rimproveravano di essere troppo morbidi nei confronti dei rivali dei Di Lauro, non partecipando all'esecuzione degli omicidi nel corso della cosiddetta faida di Scampia.

In base a tale accordo Abbinante si sarebbe impegnato ad eliminare due propri affiliati, Moccia e Piana, e in cambio gli Amato-Pagano avrebbero poi ucciso esponenti di una cosca nemica degli Abbinante, ovvero gli affiliati al clan Prestieri.

Le dichiarazioni del pentito (il quale aveva fatto i nomi dei presunti organizzatori e esecutori dell'agguato) che avevano portato in primo grado alle condanne agli ergastoli, sono state ritenute evidentemente prive dei necessari riscontri da parte dai giudici di appello.

giovedì 24 marzo 2011

Immigrati a Catania, fermati 19 scafisti: mafia infiltrata

L’indagine sullo sbarco di tre giorni fa. Indagati anche 4 presunti appartenenti al clan di Riposto e Mascali: avrebbero fornito una barca ai migranti


CATANIA. Diciannove extracomunitari, ritenuti gli scafisti del peschereccio dello sbarco di migranti di tre giorni fa a Catania, sono stati arrestati da polizia, carabinieri e guardia di finanza. Sono 17 uomini e due ragazzi minorenni che hanno affermato di essere egiziani. Il provvedimento è stato emesso dalla Procura distrettuale e da quella per i minorenni di Catania. I migranti finora rintracciati dopo quello sbarco sono 136. La maggior parte è stata trasferita in centri di accoglienza.

Nell'ambito della stessa inchiesta la Dda della Procura di Catania ha indagato, in stato di libertà, quattro presunti appartenenti a un clan mafioso della zona di Riposto e Mascali, la cosca Brunetta, per associazione per delinquere finalizzata al traffico di clandestini. Sarebbero stati loro a fornire una barca di pescatori, la 'Felice', che avrebbe dovuto portare a terra i migranti che erano sul peschereccio egiziano. Durante uno dei 'viaggi' con la 'nave madre', la barca si è arenata vicino Riposto. La nave madre è stata successivamente bloccata al largo di Catania e fatta entrare nel porto etneo. Le indagini sullo sbarco e sugli interessi di gruppi criminali locale nella loro gestione continuano, e sono complesse e articolate. Le coordinano il procuratore capo Michelangelo Patané e il sostituto Enzo Serpotta.

Traffico di droga nel Nisseno, 7 arrestati

L’operazione dei carabinieri ha coinvolto Caltanissetta e la provincia. Ecco i nomi dei coinvolti


CALTANISSETTA. I carabinieri di Caltanissetta hanno eseguito sette ordinanze di custodia cautelare in carcere per reati legati al traffico ed allo spaccio di droga fra Caltanissetta ed altri comuni della provincia. I provvedimenti dell'operazione denominata 'Figaro' riguardano Giorgio Pio Lo Magno, 31 anni, di Caltanissetta, parrucchiere; Claudio Candura, 21, di Caltanissetta, disoccupato; Carmelo Gisabella, detto 'Carmelino' o 'zio Carmelo', 45, di Caltanissetta, ma residente a Castione della Presolana (Bg), invalido civile; Giovanni Germano Paladino, detto 'parla-parla' o 'chiacchiera', 26, di Caltanissetta, guardia giurata a Vicenza; Giuseppe Ferrara, 30, di Caltanissetta, libero professionista; Fabrizio Alfonso Liotta, 28, di Caltanissetta, autista; Luigi Salvatore Palmisano, 21, di San Cataldo (Cl), venditore ambulante.

Nell'operazione sono stati impegnati 40 militari dell'Arma di Caltanissetta, 20 mezzi e due unità cinofile antidroga. Inoltre sono state eseguite 11 perquisizioni domiciliari nelle abitazioni delle persone arrestate e di altri quattro indagati non raggiunti dalla misura cautelare.

Falsi matrimoni per regolarizzare clandestini

Scoperta dai carabinieri un’organizzazione nel Messinese. Arrestate tredici persone


MILAZZO. Organizzavano, secondo l'accusa, matrimoni di facciata per regolarizzare in Italia cittadini extracomunitari clandestini provenienti dalla Tunisia. L'indagine condotta dai carabinieri a Milazzo e Barcellona Pozzo di Gotto, nel Messinese, è sfociata stamani nell'esecuzione di 13 ordinanze di custodia cautelare, quattro delle quali notificate a extracomunitari, con l'accusa di favoreggiamento aggravato dell'immigrazione clandestina.
Le indagini dei militari avviate nel settembre del 2008 hanno permesso di scoprire l'esistenza di una presunta organizzazione criminale, che operava a Milazzo e nella valle del Mela, specializzata nell'organizzazione di finti matrimoni finalizzati alla regolarizzazione dei clandestini.

Gela, operazione "Mystic River": sei arresti

L'indagine è scattata nel 2009 ed ha riguardato un gruppo di 24 persone (18 sono state denunciate a piede libero) ritenute appartenenti a un'organizzazione di trafficanti di droga



CALTANISSETTA. C'é anche il figlio di un vigile urbano tra le sei persone arrestate dalla polizia, a Gela, nell'ambito dell'operazione antidroga "Mystic River", eseguita la notte scorsa a Gela, in esecuzione di altrettanti ordini di custodia cautelare emessi dal gip del tribunale gelese, Veronica Vaccaro, su richiesta del pm, Vittorio Nessi. Si tratta di Domenico Trespoli, di 27 anni, gestore di un bar in via Tevere. Un suo fratello ne gestisce un altro in piazza Umberto, nel "salotto" di Gela, che originariamente fu chiamato "Bar Corleone" per poi cambiarlo in "Bar del Duomo", dopo le proteste del "sindaco antimafia", Rosario Crocetta, che considerò quel nome un'offesa e una provocazione. Domenico Trespoli avrebbe avuto un ruolo di spicco nell' organizzazione dei trafficanti di droga.

Gli altri cinque arrestati sono Vincenzo Savà, di 26 anni e Andrea Martines, di 25, associati alle carceri di Caltagirone, mentre ai "domiciliari" sono finiti Ignazio Adriano Tosto, di 20, Alessandro Emanuele Pellegrino, di 21, e Orazio Farruggia, di 38 anni, tutti di Gela. Dovranno rispondere di spaccio di stupefacenti. Trespoli e Savà sono inoltre accusati di danneggiamento, per l' incendio dell'automobile di un venditore ambulante, Angelo Verderame, nonché di detenzione e porto abusivo di pistola e spari in luogo pubblico, per i colpi esplosi a scopo intimidatorio contro l' autofurgone in sosta di un imprenditore, Vito Fraglica. L'indagine, denominata "Mystic River" è scattata nel 2009 ed ha riguardato un gruppo di 24 persone (18 sono state denunciate a piede libero) ritenute appartenenti a un'organizzazione di trafficanti "tra i quali - ha detto il questore di Caltanissetta, Filippo Nicastro - stanno emergendo le nuove leve della mafia gelese"

Mafia, lama da barba incastra un detenuto: "Ospitò latitante"

Una perizia ha dato la svolta a un'indagine culminata ora con l'arresto di Antonino Russello, 26 anni, accusato di avere favorito il capomafia di Agrigento, Gerlandino Messina. L'uomo era già stato arrestato nell'ambito dell'operazione antimafia "Hardom"



CALTANISSETTA. Dalle tracce di una lama da barba è stato quasi un gioco da ragazzi risalire prima al boss latitante e poi all'uomo che lo aveva accolto e ospitato. Una perizia ha dato la svolta a un'indagine culminata ora con l'arresto di Antonino Russello, 26 anni, accusato di avere favorito il capomafia di Agrigento, Gerlandino Messina. Russello era già stato arrestato nell'ambito dell'operazione antimafia "Hardom" e perciò il provvedimento del gip Luigi Petrucci gli è stato notificato nel carcere di Caltanissetta dove è detenuto. L'indagine è partita appunto dall'operazione "Hardom". In casa di Russello è stata sequestrata il 17 novembre 2009 una lama da barba dalla quale è stato estratto un profilo genetico che, attraverso un esame comparativo, è stato possibile attribuire a Messina. Un primo raffronto era stato fatto con il dna della madre del boss e poi con lo stesso Messina dopo l'arresto a Marsiglia. L'accertamento ha consentito di assegnare anche a Russello un ruolo di primo piano nelle cosche mafiose agrigentine.

Patenti facili: pm chiede il rito immediato

Chiesto per tutti i 51 arrestati nell'operazione che ha portato in carcere anche tre funzionari della Motorizzazione di Palermo, sette titolari di autoscuole e agenzie di disbrigo pratiche, oltre a altre 41 persone che facevano parte del "sistema"


PALERMO. Il pm di Palermo Amelia Luise ha chiesto il rito immediato per tutti i 51 arrestati nell'operazione che ha portato in carcere anche tre funzionari della Motorizzazione di Palermo, sette titolari di autoscuole e agenzie di disbrigo pratiche, oltre a altre 41 persone che facevano parte del "sistema" che permetteva, in cambio di 100 euro, pratiche velocissime per il rilascio di patenti e altri documenti. Il "re delle patenti facili" era il funzionario della Motorizzazione Antonino Nobile, che subito dopo l'arresto, a gennaio, ha confessato come altre dodici persone coinvolte nell'inchiesta. Le corruzioni accertate dagli investigatori sono 122. Le prove a carico di Nobile e dei suoi complici e dei sette titolari di agenzie, a cui è stato contestata l'associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, sono schiaccianti tanto da permettere al pm di chiedere il rito immediato saltando l'udienza preliminare.

Locri: omicidio Fortugno confermati gli ergastoli

La sentenza in appello per l’omicidio del vicepresidente regionale Fortugno ha confermato quattro ergastoli. Condannati mandanti ed esecutori. Arrivano anche due assoluzioni. Alle parti civili risarcimenti per 40mila euro
 
In Corte d'Assise d'Appello a Reggio Calabria sono state confermate ieri quattro condanne all’ergastolo per il delitto del vicepresidente del consiglio regionale Francesco Fortugno, per i mandanti e gli esecutori dell'omicidio compiuto a Locri il 16 ottobre del 2005. In aula anche la vedova di Fortugno, la parlamentare del Partito Democratico, Maria Grazia Laganà.


La Corte ha confermato i quattro ergastoli comminati in primo grado, nei confronti dei due Marcianò, nonché di Ritorto e Audino. Solo per quest'ultimo viene esclusa l'aggravante mafiosa prevista dall'articolo 7 della legge 203/1991.

Gli unici successi difensivi li ha ottenuti l'avvocato Giovanni Taddei, difensore di Vincenzo Cordì, Antonio e Carmelo Dessì. Per Antonio Dessì, infatti, pena ridotta a 5 anni e 8 mesi di reclusione; assoluzione piena, invece per Carmelo Dessì e per Vincenzo Cordì, per il quale è stata disposta l'immediata scarcerazione.

Poco più di quarantamila euro le spese liquidate dalla Corte alle parti civili costituite: Maria Grazia Laganà, Anna e Domenico Fortugno, Concetto Giuseppe Fortugno, nonché Regione Calabria, Provincia di Reggio Calabria, Comune di Locri e Asp di Locri. Al termine del processo, sia il pubblico ministero Mario Andrigo, applicato al sostituto pg Fulvio Rizzo nel secondo grado di giudizio, sia l'onorevole Laganà hanno puntato la propria attenzione sui presunti mandanti occulti del delitto: “Mi auguro che in futuro si possa fare piena luce anche su questo aspetto” ha dichiarato Andrigo, magistrato che ha seguito il processo sia in primo che in secondo grado e che già da oggi sarà assegnato a una nuova sede. “Non spetta a me indicare delle piste, ma spero che le indagini possano andare avanti, per scoprire i coinvolgimenti superiori dell'uccisione di Franco” ha dichiarato invece Maria Grazia Laganà.

Omicidio a Guardavalle, 33enne trovato con il cranio fracassato

Agostino Gerace, il cui fratello fu ucciso all’età di 14 anni e il padre ferito. Scattate le operazioni di un vasto controllo sul territorio con perquisizioni negli ambienti malavitosi
 
E' stato ucciso con un colpo in testa ed il corpo è stato trovato vicino ad un albero con il cranio fracassato, a Elce della Vecchia, frazione montana a 1200 metri nel comune di Guardavalle località “Faggio Grande”, nel Catanzarese. Un omicidio, però, eseguito senza armi da fuoco. La vittima è Agostino Gerace 33, residente a Elce della Vecchia. La morte, secondo le prime ipotesi investigative, sarebbe stata causata da un corpo contundente, forse una pietra o un pezzo di legno o un bastone che ha colpito ripetutamente l’uomo al volto e alla testa.


Il giovane sarebbe uscito da casa nella mattinata, con la sua macchina, una Peugeot, si era recato in un vicino bosco per fare un po’ di legna per la stufa. Verso le 13 un automobilista che percorreva la provinciale Guardavalle – Brognaturo, ha notato la macchina parcheggiata ai bordi della strada e ha avvertito i carabinieri.

Sul posto sono arrivati i militari dell’Arma della stazione di Gurdavalle e la Radiomobile della Compagnia di Soverato. Dopo l’analisi esterna del corpo eseguita dal medico legale dell’Università “magna Grecia” di Catanzaro Giulio Di Mizio, il pm ha disposto la rimozione del cadavere, per essere sottoposto ad autopsia presso il centro di medicina legale di Germaneto. Il corpo del Gerace era riverso vicino ad un albero privo di vita con la testa fracassata da diversi colpi vibrati dall’assassino con un corpo contundente. Agostino Gerace, dopo l’uccisione del fratello Damiano di 14 anni avvenuta nel 1981 mentre pascolava le pecore nella stessa zona, e successivamente dopo il ferimento del padre Spartaco, ha deciso insieme alla famiglia padre madre, e due sorelle di trasferirsi a Milano. A Elce della Vecchia è rimasto il fratello più grande Nazareno, sposato con due figli operaio forestale.

Droga, sequetrata una tonnellata: 19 persone arrestate

 
BARI - Militari della Guardia di Finanza di Bari hanno eseguito 19 ordinanze di custodia cautelare, di cui cinque in carcere, nei confronti di presunti componenti di un’organizzazione criminale italo-albanese dedita al traffico internazionale di sostanze stufefacenti.

Secondo le indagini coordinate dal pm della Dda Eugenia Pontassuglia, il gruppo operava in Puglia, Basilicata, Lazio, Emilia Romagna e Toscana e aveva la propria base operativa a Toritto (Bari), zona controllata dal narcotrafficante barese Cosimo Zonno, di 68 anni, tra i destinatari dei provvedimenti restrittivi.
Durante l’operazione è stata sequestrata circa una tonnellata di droga proveniente da Spagna, Olanda e Albania.

Ecco i veri dati sui profughi: l'80 per cento sono clandestini

Altro che profughi, arrivano clandestini: dei quasi 16mila immigrati sbarcati a Lampedusa, circa 13mila non sono cittadini libici ma tunisini e quindi privi dei requisiti per ottenere asilo politico. Domani Maroni in missione a Tunisi per ripristinare i pattugliamenti. L'annuncio del governo di Madrid: "Francia e Spagna non lasceranno sola l'Italia"

Per un attimo abbia­mo sperato che la na­ve da guerra San Mar­co, salpata da Lampe­dusa con un carico di cin­quecento immigrati appena sbarcati sulle coste dell’iso­la, facesse rotta sulla Tuni­sia, Paese dal quale gli inde­siderati ospiti provenivano. Purtroppo non è andata co­sì. La San Marco attraccherà in Sicilia e il suo carico uma­no verrà disperso per l’Ita­lia, come lo saranno i succes­sivi. Dicono che è il prezzo della guerra, ma così non è. Di libici, sulle carrette del mare, non c’è traccia. I sud­diti di Gheddafi sono sì alle prese con una guerra civile, ma non hanno nessuna in­tenzione di lasciare il Paese: stavano benissimo dove so­no e sperano di tornare a sta­re bene al più presto.L’onda­ta che ci sta invadendo arri­va dalla Tunisia, dove poche settimane fa è stato deposto un tiranno mascherato e in­sediato un governo demo­cratico. Non c’è logica nello scappare da una libertà ritro­vata, non ci sono le basi per dichiararsi perseguitato po­litico o sentirsi in pericolo di vita. E, in effetti, sui ventimi­la arrivi degli ultimi giorni, soltanto tremila hanno fatto richiesta di asilo. Sono prati­camente solo uomini. Dubi­to che tutti siano davvero nelle condizioni di dover scappare, fosse solo per il fat­to che non conosco uomini che lascerebbero moglie e fi­gli a casa in balìa di presunti aguzzini. Più facile che tra questi tremila la maggior parte millanti e la restante sia in fuga sì, ma non dal ti­ranno. Più probabilmente scappano dalla polizia dopo essere evasi dalle carceri (nelle quali si trovavano per reati comuni) durante i gior­ni della rivolta.


Arruolare i tunisini tra le persone in diritto di ospitali­tà sull’onda emotiva della guerra è il peggior servizio che possiamo fare ai profu­ghi veri, se e quando questi arriveranno. È come intasa­re un ospedale di finti amma­lati: si sprecano risorse ed energie che potrebbero esse­re esaurite nel momento del vero bisogno. Le leggi che nel nostro Paese regolano immigrazione e ospitalità non risultano essere state so­spese, e semmai l’ecceziona­lità del flusso deve portare a stringere le maglie, non cer­to ad allargarle.

Credo che proprio alla lu­ce di tutto questo il governo abbia ieri deciso di inserire il problema dei clandestini nella risoluzione che il Parla­mento deve approvare sulla crisi libica. Berlusconi chie­de che la coalizione militare si impegni a bloccare sulle coste africane i trafficanti di uomini e i loro carichi. Ov­viamente questo non piace alla sinistra, che più proble­mi e casino ci sono in Italia più spera di trarne vantaggi politici ed elettorali. Bersa­ni fa il finto tonto sulla pelle di quei disgraziati e sulla si­curezza di noi italiani. È ad­dirittura offeso perché alle Camere ieri non è andato a parlare Berlusconi in perso­na, ma il ministro Frattini. Qualcuno gli spieghi che un motivo c’è, e non seconda­rio. Il premier, probabilmen­te, non può parlare con Ber­sani in quanto impegnato con altri interlocutori che chiedono riservatezza e bas­so profilo. Chi sono? Forse lo sapremo nei prossimi giorni. Per risolvere anche le crisi più drammatiche a volte contano più i rapporti personali che la forza milita­re. A volte, per ottenere risul­tati, serve di più dire «per Gheddafi mi sento addolora­to », che non seguire l’eti­chetta. Insomma, da queste parti qualcuno sta median­do davvero per mettere fine alla guerra. Se ne sono accor­ti tutti, americani compresi, salvo Bersani. Che sulle co­se importanti arriva sempre con un po’ di ritardo.


di Alessandro Sallusti



 

mercoledì 23 marzo 2011

Truffe, 16 avvocati civilisti del foro di Catanzaro indagati

Avrebbero falsificato i mandati per intentare cause a Enel e Telecom e intascare le parcelle. La Procura chiude le indagini a carico dei 16 civilisti

Attraverso la firma di un fantomatico cliente, presentavano richiesta di risarcimento danni per disservizi imputabili ad Enel o Telecom. Dopodicchè partivano le cause davanti ai Giudici di pace, puntualmente confluite in sentenze di condanna a carico delle società convenute e a favore dei legali che, in tal modo, avrebbero trovato il modo di arrotondare lo stipendio. Ma proprio loro hanno dovuto pagare il prezzo più alto. Sedici avvocati del foro di Catanzaro, infatti, sono stati raggiunti ieri da un avviso di conclusione delle indagini che parla di truffa e falso. Le ipotesi di reato formulate contro di loro dal sostituto procuratore Simona Rossi, sulla scia degli accertamenti portati avanti per almeno un anno dagli uomini della sezione di Pg della Polizia di Stato, al comando del vicequestore Roberto Coppola. E sarà proprio quest'ultimo, nella mattina di oggi, ad illustrare in conferenza stampa i dettagli dell'attività investigativa che ha portato alla luce lo stratagemma adottato dai sedici avvocati civilisti, operanti nel soveratese.

Le cause “incriminate”, infatti, sono state celebrate tutte davanti ai Giudici di pace di Chiaravalle e Badolato, al cui vaglio, di volta in volta, sono finiti mandati puntualmente firmati da clienti inesistenti o deceduti.

Firme apocrife, utilizzate per intentare cause civili contro la società che fornisce l'energia elettrica, per lo più per questioni attinenti ai diritti di passaggio dei contratti a nuovi intestatari, e per mettere così le mani sui soldi, liquidati dall'Enel su disposizione del Giudice, a titolo di parcella prevista per l'avvocato di turno.

Napoli, allarme carte di credito clonate Svuotati i conti: la pista porta a Chicago

NAPOLI - Carte di credito clonate: è allarme furto ai danni di centinaia di napoletani per una maxitruffa on line sull’asse Napoli-Chicago. La caccia all’organizzazione criminale è scattata dopo che alla polizia sono giunte, a raffica, numerosissime denunce.

La frode si è consumata attraverso la clonazione delle tessere magnetiche emesse da Visa, Mastercard e American Express. Poi i prelievi avvengono nella capitale dell’Illinois, in America. Al vertice dell’organizzazione criminale si sospetta vi sia un regista abile e capace, un super-hacker.