giovedì 31 marzo 2011

Caos Manduria Mantovano lascia il governo

Il sottosegretario si dimette: troppi ospiti, i patti
non erano questi

MANDURIA
Sono bastate le parole di Silvio Berlusconi a Lampedusa - «L’isola sarà liberata, 1400 clandestini finiranno nella tendopoli di Manduria» - e gli effetti si vedono già. Il sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano sbatte la porta e si dimette.

Il sindaco di Manduria, Paolo Tommasino, pure del Pdl, dopo l’incontro a Roma col ministro Roberto Maroni fa lo stesso: «Se queste sono le condizioni facciano loro senza di me. Se il piano del governo è quello di scaricare tutto su Manduria io non ci sto. A quei governatori del Nord che dicono che non vogliono immigrati, da Roberto Formigoni in Lombardia a Luca Zaia in Veneto, dico soltanto che il problema o è nazionale o si trovino un altro sindaco per Manduria».

Zero risposte. L’unica cosa che è stata trovata è una doppia recinzione più alta della prima, per evitare che dal campo di Manduria ci siano altre fughe nella notte. Cresce la rete e si moltiplicano le tende. Adesso sono quattrocento e passa. Sono da otto ognuna. Fatti due conti il campo sulla strada di Oria potrebbe arivare a contenere 3200 immigrati. «Una pazzia. Vuol dire una concentrazione di clandestini pari al dieci per cento della popolazione del mio paese», spiega il sindaco diventato ex in meno di un pomeriggio. Nel campo sono rimasti milleduecento clandestini. Quattordici hanno ottenuto lo status di rifugiato politico, documenti nuovi di zecca, una vita tutta in salita ma comunque una vita fuori da qui, da questo campo con le tende blu con il logo del ministero dell’Interno bello grande e bene in vista.

Il vescovo di Oria Vincenzo Pignanello ci passa al mattino per vedere l’effetto che fa: «Spero che sia una situazione di emergenza e non definitiva...». Smentito in due ore e tante grazie. Davanti al campo vengono in processione gli abitanti di Oria e sono bestemmie: «Qui non li vogliamo...». Venti giovani dei centri sociali fanno la voce grossa e srotolano uno striscione dall’altra parte della strada: « Siamo qui per difendere i vostri diritti. Che sono pure i nostri».

In questa storia nata male e destinata a finire peggio, i tunisini dentro al campo aspettano di capire cosa sarà di loro. Samir che è da qui da domenica sogna di andare a Genova: «In Tunisia si stava peggio che a Lampedusa. A Lampedusa si stava peggio che qui. Stiamo solo migliorando la nostra vita...».

Che è una bella botta di ottimismo in questa tendopoli dove piove dentro, ci sono venti centimetri di fango, a pranzo e a cena si mangiano «maccaroni», l’acqua è nelle bottigliette, le docce quando ci sono sono fredde, i bagni chimici sono sul punto di esplodere e il pacchetto da dieci di sigarette dato ad ognuno è finito da un pezzo.

Una psicologa in aiuto al campo racconta che la paura più grande è quella dei rimpatri e che molti non sanno dove si trovano. Ahmed che al posto delle scarpe ha i sacchetti di cellophan chiede smarrito: «È lontana la stazione? È lontana la Francia?».

FABIO POLETTI

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