sabato 30 luglio 2011

Agrigento “Un monumento per le vittime innocenti di mafia”

Roberto Gallo: “Un monumento per le vittime innocenti di mafia”


Roberto Gallo, Consigliere provinciale del movimento politico “La Destra” ha indirizzato una lettera aperta al Presidente dell’ente Provincia, Eugenio D’Orsi sul tema delle vittime della mafia. “Avendo avuto tanti contatti con persone che rappresentano associazioni di vittime della mafia , mi sono reso conto che il fenomeno ha distrutto negli ultimi decenni , nella Provincia di Agrigento, diverse decine di famiglie , che hanno assistito impotenti all’uccisione dei loro familiari .

Parlo di vittime innocenti, cioè persone che si trovavano casualmente dove avveniva un agguato o un attentato , e che venivano assassinate per errore o perché avevano visto ciò che non dovevano vedere. Un problema quello della mafia che ha fortemente condizionato lo sviluppo del nostro territorio che si trova agli ultimi posti d’Italia, e che negli anni si è caratterizzato , troppo spesso, anche con una frequente collusione tra politica , imprese ed organizzazioni criminali.

Una realtà che ha fortemente condizionato anche l’opinione pubblica , tragicamente a volte schierata verso una mentalità mafiosa, con scarso senso dello Stato e della civile convivenza della Comunità. Un contesto dove tutti, chi più chi meno, è stato sollecitato nei comportamenti di ogni giorno, orientati all’egoismo , alla furbizia e troppo poco al rispetto delle regole e dell’ordine .


Tutto ciò ha determinato una scarsa crescita civile, economica e culturale bloccando di fatto un normale processo di sviluppo, rispetto ad altre zone d’Italia. Visto la sua sensibilità sul tema, ho ritenuto opportuno chiederle di intervenire facendo realizzare un monumento per ricordare queste vittime innocenti della mafia, e per ribadire un cambiamento culturale rispetto al passato . La provincia di Palermo ha già realizzato in tal senso . Penso che anche noi dovremmo dare questo piccolo segnale alle genti agrigentine . Qualora ritenesse utile questa mia proposta , le suggerisco di realizzare l’iniziativa in una zona centrale di Agrigento quale capoluogo della nostra Provincia”.

Roberto Gallo

Consigliere Provinciale de “La Destra”

Falso cieco percepiva la pensione da 19 anni

Scoperto mentre riparava la bici denunciato dalla Guardia di Finanza di Lecce: ha truffato lo Stato per oltre 112mila euro

 
Le Fiamme Gialle di Lecce hanno denunciato un falso non vedente che ha indebitamente percepito indennità pensionistica e di accompagnamento per "cieco assoluto" dal 1992. L'uomo conduceva una normale vita: andava a far la spesa, camminava in strada e addirittura si dilettava nella riparazione di biciclette. Ora dovrà rispondere del reato di truffa.


Attraverso l'ausilio di videoriprese è stato accertato che il falso invalido faceva la spesa domestica scegliendo la merce e controllando i prezzi, riparava una bicicletta, gettava la spazzatura e si muoveva per la città attraversando agilmente incroci oberati dal traffico automobilistico, passeggiando con scioltezza, il tutto senza alcun accompagnatore.

La ricostruzione della posizione pensionistica effettuata in collaborazione con personale dell'Inps di Lecce, ha consentito di accertare che il soggetto, in 19 anni, ha percepito oltre 112mila euro di emolumenti. Sono in corso ulteriori indagini al fine di accertare le responsabilità di carattere penale da parte dei professionisti che hanno certificato la patologia.

Il falso invalido, gravato da numerosi precedenti penali e di polizia dovrà rispondere di truffa a danno di ente pubblico e sono in corso le procedure per il recupero delle somme indebitamente percepite.

Narcotraffico internazionale, operazione del Ros contro il clan Mancuso

Operazione dei carabinieri in Calabria e in altre regioni contro il reimpiego dei proventi del narcotraffico della cosca Mancuso


Operazione dei carabinieri del Ros, questa mattina, in varie regioni italiane, per l'esecuzione di 10 ordinanze di custodia cautelare nei confronti di affiliati alla cosca Mancuso attiva nella provincia di Vibo Valentia. Le accuse, contestate a vario titolo, riguardano il ricicliclaggio di denaro proveniente dal narcotraffico.


I provvedimenti vengono eseguiti non solo in Calabria ma anche in Umbria, Lazio Liguria ed Emilia Romagna e sono stati emessi dal gip del tribunale di Catanzaro.

La cosca mancuso è stata già al centro di numerosi processi riguardanti il narcotraffico e dalle indagini sono emersi gli enormi interessi del clan nell'organizzazzione del narcotraffico internazionale gestito in particolare da Vincenzo Barbieri, esponente di spicco del clan, ucciso in un agguato a san calogero nel marzo scorso. Dopo l'omicidio è stato così ricostruito il complesso meccanismo messo in piedi dalla cosca per reimpiegare il denato fruttato con il narcotraffico. L'operazione dei Ros contro la cosca Mancuso è legata in particolare, all’arresto dell’ex direttore generale del Credito Sammarinese, Valter Vendemini, avvenuto l’8 luglio, deciso dal commissario della legge Rita Vannucci, del Tribunale unico della Repubblica di San Marino. Vannucci ha indagato sui rapporti tra l’istituto di credito e il narcotrafficante Vincenzo Barbieri, ucciso in un agguato di 'ndrangheta. Barbieri aveva al Credito Sammarinese due conti correnti a suo nome.

Barbieri, inoltre, avrebbe avuto contatti personali con Valter Vendemini.

Le indagini sono condotte dal sostituto procuratore della Dda di Catanzaro Salvatore Curcio, che nelle settimane scorse si è recato più volte a San Marino per partecipare agli interrogatori di Vendemini.

Barbieri viveva da diverso tempo in provincia di Bologna e quando fu ucciso era tornato in Calabria per un breve periodo. Nei confronti di Barbieri, dopo il suo assassinio, fu eseguito un provvedimento di sequestro di beni, tra immobili e quote societarie, per svariati milioni di euro.

ARRESTATO ANCHE IL FONDATORE DEL CREDITO SAMMARINESE
Nell'ambito delle indagini è stato arrestato questa mattina a Riccione, il fondatore e presidente del Credito sammarinese, Lucio Amati. I carabinieri del Ros, questa mattina alle 5, si sono presentati nell’abitazione riccionese di Amati per notificare l'ordinanza di custodia in carcere. Al momento è in carcere a Rimini. Amati, noto imprenditore sanmarinese che nel 2005 aveva fondato la piccola banca e che è anche ambasciatore della Repubblica in India, si dice totalmente estraneo ai fatti contestati dalla Procura, che l’8 luglio scorso ha disposto l'arresto di Valter Vendemini, ex direttore generale del Cs.

La richiesta di carcerazione di Amati, che compare nell’ordinanza di Catanzaro insieme ad altre due richieste di carcerazione per altrettante persone legate al credito sammarinese, sarebbe il frutto anche delle dichiarazioni rese da Vendemini ai magistrati. L’ex direttore agli inquirenti avrebbe confermato che dei due conti correnti intestati al narcotrafficante Vincenzo Barbieri al Credito sammarinese erano a conoscenza altre persone all’interno della banca. Secondo quanto trapelato, sarebbero iscritti nel registro degli indagati dell’ufficio inquirente del Tribunale sammarinese, tutti i membri del Cda e del collegio sindacale del credito sammarinese.

PERQUISITI GLI UFFICI DEI COMMERCIALISTI DI BEPPE SIGNORI
Gli uffici dei commercialisti di Beppe Signori, Manlio Bruni e Francesco Giannone – arrestati nell’inchiesta sul calcioscommesse – sono stati perquisiti questa mattina dai carabinieri del Ros nell’ambito dell’inchiesta sul riciclaggio dei proventi del narcotraffico da parte della cosca Mancuso. La perquisizione, secondo quanto si apprende, sarebbe stata disposta in considerazione dei rapporti tra i due professionisti e Vincenzo Barbieri, l’esponente di spicco della cosca ucciso lo scorso marzo in Calabria. Dallo studio sarebbero stati prelevati diversi documenti.

Rombiolo: abusi sessuale sulla nipote minorenne, arrestato 65enne

Una vita rovinata per la ragazzina, 13enne all'epoca dei fatti che non si è più ripresa dal trauma subito
 
Un uomo di 65 anni, Domenico Antonio Marturano, è stato arrestato dai carabinieri della Compagnia di Tropea diretti dal capitano Francesco Di Pinto, dovendo lo stesso scontare una pena divenuta definitiva di 3 anni e 6 mesi.


L’arresto è avvenuto a Rombiolo, un comune del vibonese, dove i carabinieri di quella stazione al comando del maresciallo Carmine Pica, stanotte hanno bussato alla sua porta e lo hanno ammanettato.

L’uomo, una decina di anni fa, abusò a lungo della nipote allora tredicenne, rovinandogli la vita. Infatti la ragazza non si è più ripresa dal trauma subito. Abbandonato dalla moglie non finì mai di commettere atti di carattere sessuale.

Vibo: false lauree, 14 indagati anche il genero di Totò Riina

Tra le persone coinvolte l’ex vicepresidente del consiglio regionale del Veneto e il genero di Totò Riina. L’inchiesta, partita nel 2009 da Vibo Valentia, si è allargata in tutta Italia


Era partita da Vibo nel 2009 e si è poi allargata nel resto d'Italia, e ieri i carabinieri della Compagnia di Vibo e della Stazione di Pizzo hanno notificato l’avviso di conclusione delle indagini per altre 14 persone accusate di aver acquistato false lauree od altri documenti contraffatti per avere i requisiti per iscriversi ad ordini professionali o per fare carriera. Tra queste figurano anche medici, assicuratori, odontoiatri, funzionari pubblici ed imprenditori residenti in varie regioni. Tra gli indagati anche Angelo Pietro Fiorin, di 61 anni, fino al 2005 vice presidente del Consiglio regionale del Veneto, dirigente Ipab a San Bonifacio (Verona), eletto alle regionali del 2000 tra le fila di Forza Italia, e Antonino Ciavarello (37), di Palermo, genero di Totò Riina. Secondo il sostituto procuratore della Repubblica di Vibo Valentia, Michele Sirgiovanni, titolare del caso, i professionisti sono ritenuti responsabili, a vario titolo, di falsità materiale commessa dal privato, falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico, falsità materiale ed ideologica commessa dal pubblico ufficiale ed esercizio abusivo di una professione. L’indagine è partita nel 2009 dopo una segnalazione dell’Ordine dei medici odontoiatri di Vibo su alcune anomale iscrizioni di neolaureati. Tre nuovi iscritti, infatti, a distanza di pochi giorni avevano dato come residenza lo stesso indirizzo di San Costantino Calabro. Ciò ha portato gli investigatori a scoprire, nel piccolo comune del vibonese, una vera e propria stamperia di documenti nazionali e stranieri che venivano venduti in tutta Italia. Nel corso delle indagini i militari dell'Arma hanno esaminato documenti e file informatici rinvenuti nell’appartamento di San Costantino di proprietà di Francesco D’Andrea, biologo di 51 anni del luogo, riuscendo ad identificare gli altri sette acquirenti che, in vari momenti, si erano rivolti a D’Andrea per ottenere certificati di laurea, pergamene e, in alcuni casi, addirittura diplomi di scuola superiore da utilizzare per le attività lavorative. Secondo quanto emerso dall’inchiesta «a tradire alcuni degli indagati è stata la circostanza che i documenti recavano la firma di docenti deceduti all’epoca dell'ipotizzata seduta di laurea». Gli investigatori, coordinati dal capitano Stefano Di Paolo e dal maresciallo Pietro Santangelo, hanno accertato che, oltre alle lauree in medicina, venivano falsificati e venduti, per migliaia di euro, certificati degli esami sostenuti, abilitazioni professionali, certificati di residenza e diplomi di scuola superiore. Ad essere oggetto di acquisto erano soprattutto le lauree in medicina, economia, giurisprudenza ed i diplomi di scuola superiore.


I NOMI DEGLI INDAGATI
Oltre a Fiorin e Ciavarello, sono indagati sono Antonietta Lucia Busi (49), di Gallipoli (Lecce), residente a Matera; Marcella Ciaralli (52), di Roma; Carmelo Maria Linosa (44), residente a Sant'Olcese (Genova); Paolo Marzi (32), residente a Grottaferrata (Roma); Marco Zanforlin (49) residente ad Arcene (Bergamo); Paolo Anelli (39), residente ad Arese (Milano); Francesco Pelle (48), di Milano, residente a Paterno Dugnano (Milano); Roberto Conti (51), residente a Cesano Maderno (Monza e Brianza); Giovanni Tempesta (50), residente a Luisago (Como); Luciano Di Cristo (50), residente ad Arese (Milano); Ave Carpinelli (62), residente a Viterbo; Giovanni Galatolo (54), residente a Cerveteri.

Omicidio Scazzi Chiesti 13 rinvii a giudizio

«E ora processateli»



TARANTO - Omicidio intrafamiliare. Il quadro è chiaro, almeno per la procura di Taranto. L'inchiesta sulla morte di Sarah Scazzi, la 15enne di Avetrana uccisa e gettata in un pozzo il 26 agosto del 2010, approda a uno snodo cruciale: quello dell'udienza preliminare. Il procuratore aggiunto Pietro Argentino e il sostituto Mariano Buccoliero hanno depositato la richiesta di rinvio a giudizio per 13 indagati. Rispetto all'avviso di conclusione delle indagini, firmato l'1 luglio scorso, resta tutto invariato. Sono state, però, stralciate le posizioni del fioraio 40enne Giovanni Buccolieri, possibile testimone oculare delle fasi precedenti l'omicidio di Sarah, e di un suo amico, il 37enne Michele Galasso, accusati di false dichiarazioni al pm.


Nei prossimi giorni il giudice Pompeo Carriere fisserà la data dell'udienza preliminare, che potrebbe iniziare tra il 29 agosto e il 5 settembre. Tredici imputati, numeri da maxiprocesso. Ma i tre personaggi chiave di questo giallo in apparenza “inestricabile” sono sempre loro: Michele Misseri, il 57enne contadino che consentì il ritrovamento del cadavere della nipote la notte tra il 6 e il 7 ottobre 2010 nelle campagne di contrada “Mosca”, sua figlia Sabrina (23enne) e sua moglie Cosima Serrano (54enne). Le due donne sono entrambe in carcere per omicidio volontario. Sarebbero state loro a uccidere Sarah Scazzi nella villetta di via Deledda, mentre zio Michè si sarebbe limitato ad occultare il cadavere. E lo avrebbe fatto con l'aiuto di moglie e figlia e la complicità di suo fratello Carmine, di 55 anni, e di suo nipote Mimino Cosma, di 34, anche loro in cella per alcuni giorni, prima che il tribunale del riesame di Taranto annullasse l'ordinanza di custodia cautelare per mancanza di esigenze cautelari.

Un omicidio con un movente intrafamiliare, come si dice in gergo, che sarebbe maturato per la gelosia che Sabrina Misseri nutriva nei confronti della cugina Sarah, che si era avvicinata all'amico comune Ivano Russo, del quale entrambe si erano invaghite. Alla sbarra c'è tutta la famiglia Misseri ad eccezione di Valentina , la figlia primogenita, che in quei giorni era a Roma. La figlia che ha riaccolto in casa il padre e che continua a difendere la mamma Cosima e la sorella Sabrina.

Zio Michè, subito dopo essere stato scarcerato, è rientrato nella sua abitazione e si è concesso a microfoni e telecamere per tornare alla prima delle sue sette versioni. Si è autoaccusato nuovamente di tutto: dell'omicidio, del vilipendio e della soppressione del cadavere. Ma non gli credono più. Il contadino, che ha cambiato quattro avvocati (ora è assistito dal civilista Armando Amendolito), aveva chiesto qualche giorno fa di essere interrogato, ma poi ha cambiato idea. Se ne riparlerà nel corso del processo. Quello vero, non quello mediatico. Non più il plastico in tv con il luogo del delitto, ma un'aula di Corte d'Assise. A Cosima Serrano e Sabrina Misseri, la procura contesta i reati di concorso in omicidio, sequestro di persona, soppressione di cadavere e furto aggravato del telefonino, con annessa batteria, di Sarah. Michele Misseri, scarcerato il 30 maggio scorso, è invece accusato di concorso in soppressione di cadavere e del furto del cellulare, nonché di danneggiamento seguito da incendio per aver dato fuoco ai vestiti e allo zainetto di Sarah.

Misseri e misteri. Nel corso delle indagini, durate poco più di dieci mesi, sono cambiate molte cose: dal luogo del delitto – si partì dal garage di casa Misseri e si è arrivati all'abitazione di via Deledda – al ruolo dei protagonisti. Secondo la tesi dell'accusa, Cosima Serrano e Sabrina Misseri avrebbero privato «della libertà personale Sarah Scazzi, costringendola dopo averla strattonata e afferrata per i capelli, e comunque con tono minaccioso, a salire sull'autovettura della Serrano, conducendola verso la loro abitazione contro la volontà della minore, di cui cagionavano la morte a mezzo di una cinghia». Ma l'arma del delitto non è ancora stata individuata. E zio Michè è pronto all'ennesimo colpo di teatro.

GIACOMO RIZZO

Vescovo di Trani indagato per usura


TRANI – Il vescovo dell’arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie e Nazareth, mons. Giovanni Battista Picchieri, è indagato dalla Procura della Repubblica di Trani per usura reale. Stesso reato viene contestato anche al vicario generale dell’arcidiocesi, mons. Savino Giannotti, e all’economo, mons. Angelo Di Pasquale.


Nei giorni scorsi il pubblico ministero Antonio Savasta, che ha diretto le indagini, ha fatto notificare agli indagati l'avviso di conclusione delle indagini preliminari. L’accusa si riferisce all’acquisto a Trani, nell’ottobre del 2006, del palazzo nobiliare Broquier d’Amely, adiacente alla sede della Curia.

Secondo la denuncia dei venditori, l’edificio sarebbe stato acquistato per tre milioni di euro circa, mentre il valore reale sarebbe stato il doppio e la Curia avrebbe pagato sottocosto l’immobile approfittando dello stato di bisogno dei venditori.

venerdì 29 luglio 2011

Mafia, sequestrati beni a un uomo dei Lo Piccolo

Nel mirino della Dia un patrimonio di oltre un milione di Salvatore Greco, 42 anni, fratello del presunto capo della famiglia di Passo di Rigano

PALERMO. La Direzione Investigativa Antimafia di Palermo ha sequestrato beni per oltre un milione di euro a Salvatore Greco, 42 anni, palermitano, ritenuto vicino ai boss Salvatore e Sandro Lo Piccolo e fratello di Vincenzo, considerato il capo della famiglia mafiosa di Passo di Rigano. Fra i beni sequestrati, che secondo gli investigatori sarebbero frutto di investimenti di capitali illeciti, appezzamenti di aree commerciali. Nel provvedimento si dispone anche la sospensione dalla carica di amministratore di un centro benessere del palermitano che Greco ricopriva. L'inchiesta è stata coordinata dal pm Gaetano Paci.

Salvatore Greco, ex gestore del bar nella sala bingo "Las Vegas" a Palermo, secondo gli investigatori era in contatto con Tommaso Gambino, figlio di Rosario, leader della omonima famiglia mafiosa americana, e con diversi esponenti mafiosi palermitani.

Con il provvedimento emesso dalla sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, dopo le indagini condotte dalla Dia, sono stati sequestrati a Greco un appezzamento di terreno su cui sorge un distributore di carburante, due fabbricati che ospitano una rivendita di prodotti ittici e un' officina di elettrauto.

Camorra, operazione antiriciclaggio della finanza: 5 arresti a Roma



ROMA - È in corso dalle prime ore di questa mattina a Roma, un'operazione della Guardia di finanza di Napoli, in collaborazione con lo Scico e sotto il coordinamento della Dda di Napoli, per il sequestro di una società ritenuta controllata dalla camorra, nel settore delle slot machine. Cinque le ordinanze di custodia cautelare in corso di esecuzione. L'indagine, a carico di esponenti del clan dei Casalesi, è condotta nei confronti di 5 soggetti ritenuti colpevoli di riciclaggio di denaro di provenienza illecita in società operanti nel settore del gioco del bingo, della raccolta delle scommesse sportive e del noleggio di slot machine e new slot.


Contestualmente, si sta procedendo al sequestro preventivo delle quote e dell'intero patrimonio aziendale di una società subentrata, attraverso nuovi prestanomi e con una differente denominazione, nell'attività di reimpiego dei capitali illeciti svolta da una preesistente impresa già sottoposta a sequestro.

Truffe e assicurazioni 12 arrestati: anche medici ed avvocati


BARLETTA – Militari della Guardia di finanza della Compagnia di Barletta hanno arrestato nel nord Barese 12 persone ritenute appartenenti ad un gruppo dedito alle truffe ai danni di compagnie di assicurazione. Tra gli arrestati ci sono anche due avvocati e due medici specialisti; altre persone sono indagate in stato di libertà. L’inchiesta è stata coordinata dalla Procura della Repubblica di Trani


IL SISTEMA: FALSI INCIDENTI CREATI A TAVOLINO - Creavano a tavolino incidenti stradali oppure alteravano dinamiche e conseguenze di incidenti realmente accaduti, presentando, dopo giorni e a volte anche settimane, certificati medici attestanti le conseguenze degli stessi incidenti e truffando così le compagnie di assicurazione con i risarcimenti. Per questo motivo 12 persone sono finite agli arresti domiciliari su ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip del Tribunale di Trani Margherita Grippo, richiesta dal pm Michele Ruggiero ed eseguita dai militari della Guardia di finanza di Barletta e Andria; altre otto persone sono indagate in stato di libertà.

Tra gli arrestati c'è un avvocato, Giuseppe Di Renzo, di 66 anni, che è anche consigliere comunale Pdl al Comune di Andria. Gli arrestati sono accusati, in concorso tra loro e a vario titolo, dei reati di 'falsità ideologica in certificati, commessa da persone esercenti un servizio di pubblica necessità', e di 'fraudolento danneggiamento dei beni assicurati e mutilazione fraudolenta della propria persone'.

Secondo quanto riferito in un conferenza stampa dal procuratore della Repubblica di Trani, Carlo Maria Capristo, Di Renzo sarebbe stato uno dei promotori della truffa insieme ad un altro avvocato, Mauro Sgaramella, di 39 anni, anche lui di Andria, e a due medici ortopedici, Salvatore Sbano, di 67 anni, e Massimo Pasqua Di Bisceglie, 47 anni, l’unico di Trani degli arrestati. Tra gli otto indagati in stato di libertà c'è anche un altro avvocato.

Agrigento, tre condanne per usura

Nove anni di reclusione ciascuno Sergio Nobile e Salvatore Simone, ritenuti responsabili anche di percosse e lesioni Due anni e due mesi di reclusione anche Calogero Chianetta

AGRIGENTO. La prima sezione del tribunale di Agrigento, presieduta da Antonina Sabatino, ha emesso la sentenza di condanna per tre dei sette imputati nel processo per usura ed estorsione ai danni del commerciante di auto di Favara Giuseppe Vita.

Condannati a 9 anni di reclusione ciascuno Sergio Nobile e Salvatore Simone, ritenuti responsabili oltre che dei reati di usura ed estorsione anche di percosse e lesioni nei confronti di Vita che venne aggredito fisicamente e si vide puntare una pistola alla testa. Condannato a due anni e due mesi di reclusione anche Calogero Chianetta, mentre Rita Onolfo, Giuseppe Schillaci ed Antonio Cinquemani hanno beneficiato della prescrizione.

Il tribunale ha, infine, accolto la richiesta del pm Lucia Brescia sull'assoluzione dell'imputato Pietro Ceresi perché "estraneo ai fatti". E' stato disposto, a carico degli imputati condannati, anche il risarcimento dei danni, da quantificarsi in sede civile, per Vita e i suoi familiari che si erano costituiti parte civile

Uccide la moglie e si spara Dramma a Termini Imerese

A far fuoco Agostino Bova, 56 anni. Morta sul colpo la moglie Margherita Carollo, 51. Ferita a colpi di pistola anche la figlia della coppia, Ornella, 30 anni, in fin di vita


PALERMO. Un raptus di follia, scatenato dalla depressione in cui era piombato dopo essere stato licenziato, ha armato la mano di Agostino Bova, ex operaio dello stabilimento Fiat di Termini Imerese che ha sparato e ucciso la moglie, Margherita Carollo, ferito la figlia, Ornella e poi si é suicidato.

Una tragedia familiare covata per mesi tra problemi economici, la disperazione di trovarsi senza lavoro a 56 anni e l'accusa infamante di essere un ladro: l'azienda aveva scoperto che aveva usato il badge di un capo-reparto in malattia e aveva scaricato 46 pasti in mensa sulla sua busta paga. Un "furto" di 55 euro sanzionato col licenziamento. Distrutto dalla vergogna l'uomo si é chiuso in se stesso. Da qualche settimane aveva anche terminato di percepire l'indennità di disoccupazione e non aveva più redditi, se non quelli ricavati da lavoretti saltuari.

Anche la moglie soffriva di depressione ed era in cura da un medico che si era accorto del difficile stato emotivo dell'ex operaio durante alcuni colloqui e l'aveva invitato, invano, a rivolgersi a uno psichiatra. Cosa, oggi, abbia fatto scattare la scintilla non è ancora chiaro: la sola a poterlo rivelare è Ornella, 30 anni, ricoverata all'ospedale Civico di Palermo, unica superstite di una famiglia distrutta. Il colpo di pistola con cui il padre ha cercato di ammazzarla non le ha trapassato la scatola cranica.

La tac ha escluso danni cerebrali: la ragazza è vigile e sarà sentita dalla polizia nelle prossime ore. Per salvarsi dalla follia dell'ex operaio, che ha freddato la moglie di 51 anni, casalinga, e poi si è diretto verso di lei, é corsa lungo il corridoio. Bova l'ha raggiunta ed ha sparato. Poi credendo che fosse morta si è tolto la vita. La ragazza, ferita alla testa, ha avuto la forza di uscire di casa e telefonare al fidanzato. "Mi ha detto: 'mi hanno sparato'", ha raccontato il ragazzo. In strada Ornella ha incontrato una pattuglia della polizia, nel frattempo chiamata dai vicini che avevano sentito i colpi di pistola.

La famiglia Bova - persone tranquille e perbene, così li descrivono i conoscenti - abita in via Navarra, una zona popolare di Termini Imerese in una palazzina nuova color crema e rosa, vicino alla stazione centrale. Agostino e la moglie hanno una seconda figlia più piccola, Valentina, 26 anni, che è sposata e vive fuori casa. Ornella, invece, ha da poco lasciato gli studi universitari e fa la commessa in una gioielleria di Bagheria. "Agostino aveva enormi problemi. Era stato licenziato un anno e mezzo fa per un futile motivo che in altri tempi avrebbe comportato solo un richiamo. Ma la grande Fiat sa anche usare il pugno forte", commenta il sindaco di Termini Salvatore Burrafato, che ha saputo la notizia mentre partecipava a una riunione sulle sorti dello stabilimento al ministero per lo Sviluppo economico.

"Da mesi era depresso, era sul lastrico, la moglie non lavorava e aveva difficoltà sempre maggiori", racconta. "L'esasperazione ha raggiunto il massimo livello. - commenta il presidente della Regione Raffaele Lombardo - Serve una mobilitazione seria e decisa perché il governo non rinvii più le scelte per il futuro di Fiat". "Quel licenziamento oltre a creare un problema economico serio alla famiglia - racconta un collega - aveva cambiato Agostino. Non riusciva quasi più a guardare in faccia i suoi ex compagni di lavoro, era un tipo orgoglioso". Una settimana fa si era presentato negli uffici della Uil a Termini Imerese per la dichiarazione dei redditi, il modello Unico. "Si è scusato più volte per aver ritardato qualche minuto - ricordano all'ufficio - poi ha richiesto il modello Isee, forse gli serviva per l'Università della figlia, ed è andato via"

giovedì 28 luglio 2011

Aggredito con un cacciavite, morto giovane a Canicattì

È deceduto dopo undici giorni di coma Calogero Giardina, 24 anni. Il minorenne che lo ha colpito per una rivalità in amore dovrà ora rispondere di omicidio aggravato

CANICATTÌ. È morto Calogero Giardina, il giovane di 24 anni di Canicattì (Ag), aggredito a colpi di cacciavite alla testa da un ragazzino di 17 anni ora in carcere. Giardina era in coma dal 17 luglio. Il giovane è deceduto all'alba nel reparto Rianimazione dell'ospedale di Sciacca dov'era stato portato subito dopo il ferimento.

Il minorenne arrestato, che avrebbe aggredito la vittima per una rivalità in amore, adesso dovrà rispondere di omicidio aggravato. I carabinieri di Canicattì e la Procura della Repubblica di Agrigento stanno valutando anche la posizione di due giovani presenti all'aggressione che potrebbero avere aiutato il diciassettenne.

Tenta il suicidio il pentito Mannoia

L'uomo ha provato ad uccidersi con un cocktail di farmaci ma la moglie, insospettita dal tono di una sua telefonata, l'ha raggiunto e salvato. Ora è fuori pericolo. Quello del collaboratore di giustizia, 60 anni, è il secondo tentativo di suicidio in quattro mesi, da quando, cioé, ha fatto ritorno in Italia, lamentando la scarsa attenzione nei suoi confronti



ROMA. Il pentito di mafia Marino Mannoia, che vive in una località segreta in Italia, dopo il suo ritorno dagli Stati Uniti, ha provato a uccidersi con un cocktail di farmaci; ma la moglie, insospettita dal tono di una sua telefonata, l'ha raggiunto e salvato. Ora è fuori pericolo.

Quello del collaboratore di giustizia, 60 anni, è il secondo tentativo di suicidio in quattro mesi, da quando, cioé, ha fatto ritorno in Italia, lamentando la scarsa attenzione nei suoi confronti dopo 22 anni di collaborazione con la giustizia.

Attraverso il suo avvocato, Carlo Fabbri - secondo quanto riportano alcuni quotidiani -, Mannoia ha chiesto di parlare con i magistrati di Palermo e con quelli della Dna, preannunciando importanti rivelazioni sui retroscena del mondo dei collaboratori di giustizia. Soltanto venerdì scorso un pentito, Giuseppe Di Maio, 33 anni, ex appartenente alla famiglia mafiosa palermitana del quartiere Guadagna, si era ucciso a Genova.

Sanità, ricette mediche per anziani deceduti arrestato un farmacista a Crotone

Le indagini, partite nel marzo 2009 hanno permesso di accertare numerose prescrizioni di farmaci, da parte di medici di base, a favore di assistiti ignari o addirittura morti



Un farmacista di Crotone è stato posto agli arresti domiciliari dai carabinieri del Nas di Cosenza che hanno notificato anche avvisi di conclusione indagine a 42 dei 65 medici di base della città (pari ai due terzi) nell’ambito di un’inchiesta su una truffa di oltre un milione di euro ai danni del Servizio sanitario nazionale.


Al farmacista, accusato di falso e truffa aggravata, sono anche stati sequestrati conti correnti bancari intestati e cointestati nonchè dei beni mobili ed immobili per un importo di 1.176.375,95 euro. La stessa accusa è contestata ai medici.

Le indagini, avviate nel marzo 2009 e coordinate dal procuratore di Crotone, Raffaele Mazzotta, hanno permesso di accertare numerose prescrizioni di farmaci, presumibilmente da parte di medici di base, a favore di assistiti ignari e/o defunti. Dal confronto incrociato tra i dati del Servizio farmaceutico territoriale con quelli della società che si occupa della catalogazione delle ricette, è risultato che 30 pazienti intestatari di ricette false risultavano essere deceduti da parecchi anni. Le ricette venivano quindi consegnate direttamente a farmacie compiacenti, che a loro volta ne richiedevano il pagamento all’Azienda sanitaria provinciale.

Il professionista arrestato è titolare di una farmacia di Crotone che è stata individuata quale destinataria della quasi totalità delle ricette false. Su queste, secondo l’accusa, applicava fustelle false richiedendone il rimborso al Servizio sanitario regionale.

Sequestrati beni al Nord ad un esponente della 'ndrangheta crotonese

Il sequestro ad opera della Direzione investigativa Antimafia di Padova, coordinata dalla Dda di Venezia


La Dia di Padova e la Dda di Venezia, hanno sequestrato beni immobiliari del valore di 3 milioni di euro riconducibili, anche attraverso interposta persona, a Domenico Multari, 51enne di Cutro (Kr), raggiunto da una misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno per due anni.


Multari, detto 'Gheddafi', ha numerosi precedenti e condanne per sequestro di persona, omicidio colposo, ricettazione e bancarotta fraudolenta ed è sospettato di essere affiliato alla cosca della 'ndrangheta calabrese Dragone, operante nella zona di Cutro con ramificazioni nel Nord Italia, soprattutto nella provincia di Reggio Emilia.

Gli investigatori hanno verificato, in indagini supportate dalla magistratura di Verona, che Multari, da tempo residente con la sua famiglia nel veronese, continuava a svolgere attività criminali. Oltre a immobili, tra le province di Verona e Catanzaro, la Dia ha sequestrato quote rilevanti di una società edile di Verona.

Arrestate 3 educatrici Denuncia anonima: «Maltrattano i bimbi»


RODI GARGANICO (FOGGIA),  – Umiliazioni morali, maltrattamenti, punizioni con schiaffi, ingiurie e offese. Avrebbe dovuto essere una casa accogliente per ritrovare un pò di serenità per bambini già provati da storie difficili, e invece si è trasformato in un ulteriore luogo di violenza e disagio un centro di recupero di Rodi Garganico, il Melograno. La polizia ha arrestato tre educatrici responsabili, secondo l’accusa, di maltrattamento di minori affidati alle loro cure, di sequestro di persona, lesioni aggravate per aver agito per motivi futili, crudeli ed abbietti.


“Questa operazione non ha un nome – ha detto il procuratore della Repubblica di Lucera, Domenico Seccia – però se dovessi darne uno, la chiamerei 'Figli di un dio minorè, perchè i fatti che si sono verificati contro bambini disagiati, ospitati in una comunità di recupero passano dalla sofferenza fisica a quella psicologica”. Le educatrici arrestate (ai domiciliari) sono Antonia Silvestri, di 54 anni di Vieste, direttrice, Anna Maria Tozzi, 50 anni di Ischitella, coordinatrice e Antonietta Silvestri, 31 anni di Foggia, nipote della direttrice ed educatrice.

Secondo gli investigatori, le vessazioni contro i bambini, che hanno tra i quattro e i sette anni, erano varie e crudeli: venivano presi a schiaffi e picchiati sulle mani anche con un cucchiaio di legno, sarebbero stati costretti in qualche caso, dopo aver vomitato, a mangiare la pasta col loro stesso vomito. Ad un bambino che si era fatto la pipì addosso – secondo l'accusa – per punizione sarebbe stata infilata la testa nel water.

Il pm che ha coordinato le indagini, Mara Flaiani, ha riferito “che sono state diverse le persone, oltre alle giovanissime vittime, ad aver riferito quello che succedeva ai danni dei bambini. Persone che hanno assistito personalmente e che quindi sono degne di fede”.

I fatti si riferiscono ad un periodo compreso tra luglio 2009 e febbraio 2011. I minori sono stati ascoltati, hanno confermato i maltrattamenti subiti e riferito anche di una bambina, fatta girare nuda tra i ragazzi mentre piangeva. Mentre venivano ascoltati dal pm alla presenza del giudice del Tribunale per i minorenni di Bari, piangevano ed erano visibilmente terrorizzati all’idea che la direttrice venisse a sapere del loro racconto.

Le misure cautelari sono state emesse dal gip del Tribunale di Lucera Ida Moretti che ha concesso i domiciliari: decisione, questa, che è stata contestata dal procuratore vista la gravità di quanto emerso.

mercoledì 27 luglio 2011

'Ndrangheta: maxi sequestro per 15mln di euro al clan Condello

Il sequestro preventivo di beni per un valore di oltre 15 milioni di euro compiuto nei confronti di cinque persone accusate di essere prestanome delle cosche della 'ndrangheta operanti in città, ed in particolare della cosca capeggiata da Pasquale Condello, detto «il supremo»

Operazione congiunta questa mattina dei Carabinieri e della Guardia di Finanza di Reggio Calabria, per l'esecuzione di un decreto d'urgenza, emesso dalla Direzione Distrettuale Antimafia, per il sequestro preventivo di 4 imprese, 4 punti vendita di ottica, un immobile e numerosi conti correnti per un valore di oltre 15 milioni di euro.


Il provvedimento è stato emesso nei confronti di cinque persone, che secondo gli inquirenti sarebbero prestanome della cosca capeggiata da Pasquale Condello, detto «il supremo», una delle più potenti della Calabria. Nei confronti dei 5, è stata notificata anche un'informazione di garanzia. Le indagini, succesivamente convalidate dalle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Antonino Lo Giudice, hanno consentito di accertare che le società e gli esercizi commerciali si sono avvalsi nel tempo dell'interesse delle cosche reggine per assicurarsi immediati incrementi delle vendite che hanno fruttato ingenti guadagni.

Cosenza, imprese evadono il fisco accertata un'evasione da 13mln di euro

Il Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Cosenza ha individuato un’evasione fiscale per oltre 13 milioni di euro

Da un’indagine dal nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Cosenza, nei confronti di un gruppo di imprese della provincia cosentina, operanti nel settore della trasformazione, conservazione e commercio di prodotti agricoli ed alimentari, le quali, attraverso operazioni che hanno visto interessate società formalmente distinte ma di fatto riconducibili ad un «unico centro decisionale», hanno evaso ed eluso il fisco.


I finanzieri hanno rilevato un’irregolare contabilizzazione ed omessa dichiarazione ai fini fiscali di cospicui contributi pubblici, scoprendo anche una sequenza di atti giuridici, formalmente corretti se presi singolarmente, ma finalizzati all’aggiramento degli obblighi tributari. Le imprese in questione, infatti, per poter ridurre il carico tributario su ingenti proventi straordinari derivanti da una ristrutturazione di debiti bancari concessa dagli istituti di credito, con un’operazione societaria straordinaria di «conferimento di ramo aziendale» hanno trasferito anche i debiti oggetto di stralcio, facendo così apparire che ci fosse un attivo, e per rilevanti importi, su una società del gruppo a tassazione agevolata. Gli investigatori della Guardia di Finanza hanno segnalato ai competenti uffici finanziari complessivamente oltre dieci milioni di euro di base imponibile ai fini Ires e oltre tre milioni di euro di base imponibile ai fini Irap, oltre a circa 200.000 euro di maggiore imposta Irap dovuta.

Misso, boss del rione Sanità lascia, il carcere: per lo Stato è un pentito

 


NAPOLI - Tre anni e mezzo dopo il primo verbale di interrogatorio alla Dda di Napoli, Giuseppe Misso ha ottenuto il programma di protezione definitivo. Tre anni dopo - tante accuse messe agli atti - ma anche decine di udienze in videoconferenza nei principali processi di camorra istruiti a Napoli, c’è un punto fermo nella carriera di collaboratore di giustizia di un boss che ha fatto la storia (tutta ovviamente in negativo) del sistema criminale cittadino.

Misso ottiene un programma di protezione definitivo dal Tribunale di Sorveglianza di Roma, lascia l’ala protetta di un carcere dove in questi anni ha battagliato non poco sulla sua credibilità di pentito, perno dell’accusa in inchieste per delitti in nome e per conto del clan che spadroneggiava a Napoli. Può lasciare il carcere, può tornare a casa. È stato scarcerato, tecnicamente è ai domiciliari, anche se gli è stata assicurata (come per altro accade per i pentiti di mafia), anche una certa libertà di movimento e di comunicazione, tutto ovviamente subordinato a un protocollo di controllo imposto dal Ministero.

Ora vive in un appartamento anonimo di un luogo riservato, probabile che per lui siano stati avviati anche progetti di progressiva emancipazione rispetto al marchio di boss della camorra che ha scandito il suo passato. Giuseppe Misso (all’anagrafe Missi) - sessant’anni compiuti - può immaginare una nuova identità, un lavoro, una storia diversa (anche se ovviamente legata all’esito dei processi non ancora conclusi in cui risponde ancora di delitti efferati). Una decisione controversa, che passa dopo la nota spedita dalla Dda di Napoli alla Procura nazionale antimafia, fino all’istanza del suo avvocato Michele Capano dinanzi al Tribunale di Sorveglianza romano.

Per molti mesi si è discusso sulla sua attendibilità come pentito. Non tanto per quello che ha detto, quanto per le zone d’ombra racchiuse nei verbali firmati dinanzi ai pm del pool guidato dal procuratore aggiunto Sandro Pennasilico. Non ha mai detto granché di significativo sulla strage del Rapido 904 (reato per il quale Misso era stato assolto in via definitiva nel corso degli anni Novanta), né ha contribuito a fare luce sulle trame oscure che hanno protetto per anni crimine organizzato e politica. Il resto è un lungo racconto di odio, sangue e omicidi: quelli contro l’Alleanza di Secondigliano (per altro trasfigurati in modo narrativo nel suo romanzo, «I leoni di Marmo»), contro il clan Licciardi che uccisero la moglie all’inizio degli anni Novanta.

Oggi è imputato per almeno cinque omicidi, tutti organizzati per dare seguito a una vendetta agognata negli anni della lunga detenzione in isolamento. Cinque omicidi per i quali è candidamente reo confesso.

Lascia la cella, torna a casa, dopo una detenzione ultraventennale. A dicembre del 2003 l’ultima volta che aveva provato a mettere il naso fuori dal carcere (era Poggioreale), quando per un difetto di notifica venne scarcerato solo per una manciata di secondi. Era mezzanotte, termini scaduti per un vizio di forma, la sagoma del «re Nasone» che lascia il carcere, decine di fotografi che lo inchiodano nell’unico scatto oggi a disposizione. Da allora, una lunga detenzione. Unico periodo fuori dalle celle, tra il 1999 e il 2002, quando Misso dà seguito a un’ampia riorganizzazione della camorra.

Nella sua casa di Largo Donnaregina, a pochi passi dalla Curia arcivescovile, legge i libri di De Felice sul fascismo, si dà alla filosofia di Heidegger e Nietzsche, vive da imprenditore apparentemente lontano da droga, falso, contrabbando e estorsioni. Poi, però, tesse la sua tela: nasce la camorra «a tre teste», assieme ai Mazzarella (padroni di Forcella e del Mercato dopo il crollo del clan Giuliano), ai Di Lauro di Secondigliano. Ramifica alleanze ai Quartieri, lascia mano libera sui reati tipici dei clan rionali, ma lavora su un doppio livello: quello sanguinario, con gli omicidi di boss e pregiudicati vicini ai Licciardi; e quello politico: organizza pacchetti di voti per sostenere cavallucci buoni per la corsa alle regionali del 2000. Insomma, raccoglie consensi.

Nessuno lo dice, ma in città comanda lui. Tanti episodi da chiarire, come il rapporto con una parte dei servizi segreti (scenario sul quale ha finora taciuto), come la storia di un piccolo intervento chirurgico in un ospedale napoletano accudito da sedicenti esponenti delle forze dell’ordine, o come il racconto di un incontro a Salerno (da Misso sempre smentito) con esponenti dei servizi sugli assetti della camorra in città. Storie destinate probabilmente a rimanere inesplorate, di tanto in tanto accennate da altri pentiti o testimoni, da ex fedelissimi che hanno via via ceduto alle indagini di carabinieri e polizia. Verbali di gregari o comprimari, come il ricordo di un ex killer giovanissimo del rione Sanità, che si era tatuato sul petto un segno di affiliazione verso Giuseppe Misso, l’ex padrino dei vicoli del centro storico che oggi incassa la scarcerazione dopo anni di vendette, trame e tanti silenzi.

Leandro Del Gaudio

martedì 26 luglio 2011

Firenze, coppia sequestrata: lei stuprata e lui chiuso nel bagagliaio dell'auto


FIRENZE - Notte di terrore e di violenza quella trascorsa, per una coppia che si era appartata in auto nei pressi di Cerreto Guidi. Le vittime sono un ragazzo di 25 anni e la fidanzata di 32. Mentre i due si stavano scambiando effusioni, sono stati aggrediti da tre malviventi.


Questi li hanno fatti scendere dall’auto, hanno chiuso il ragazzo nel bagagliaio e poi, mentre due di loro tenevano ferma la 32enne, il terzo l’ha violentata. Quindi, li hanno derubati del denaro, dei telefonini e sono scappati sull’auto delle vittime. I fatti si sono svolti intorno all’una e mezzo.

I due, sotto shock, sono riusciti a raggiungere una casa nei pressi e a dare l’allarme ai carabinieri del Norm e della Compagnai di Empoli. Le indagini dei militari sono in corso, e nel pomeriggio è stata ritrovata l’auto, di proprietà del fidanzato, nella zona di Massa e Cozzile.

I tre aggressori avevano accento dell’est europeo e uno di loro era armato.

Traffico di droga tra Sicilia, Germania e Romania, 10 arresti

Blitz della direzione investigativa antimafia: tra i coinvolti anche un esponente del clan Santapaola di Catania. Dalle indagini emerso anche un progetto di attentato contro un investigatore

MESSINA. Uomini della Direzione investigativa antimafia (Dia), in collaborazione con le forze di polizia in Germania e Romania, hanno eseguito dieci ordinanze di custodia cautelare in carcere per associazione a delinquere e traffico di sostanze stupefacenti.

L'operazione riguarda i due Paese europei e le province di Messina, Catania e Palermo. Il provvedimento è stato emesso dal gip di Messina su richiesta della Dda, a conclusione di un'indagine che ha consentito di individuare un traffico di stupefacenti, in particolare cocaina, gestito da un'associazione criminale operante attraverso una rete di collegamenti tra diverse persone. L'indagine nasce dalla ricerca dei fratelli Mignacca, latitanti condannati all'ergastolo per associazione mafiosa, omicidio e altro, appartenenti al gruppo mafioso del messinese dei 'tortoriciani'. Sono 23 le persone complessivamente indagate. Tra gli arrestati anche un appartenente al clan Santapaola di Catania. Nel corso delle indagini è emerso un progetto di attentato nei confronti di un esponente delle forze dell'ordine.

Lucera, arrestato consigliere comunale Tentata concussione


LUCERA - Un consigliere comunale di Lucera, in provincia di Foggia, è stato arrestato stamane dai militari della Guardia di Finanza perchè avrebbe richiesto indebitamente prestazioni di tipo privato ad una azienda che si era aggiudicata un appalto municipale. Il presunto illecito è stato tentato tramite l’ex assessore ai Lavori pubblici già arrestato nelle scorse settimane dalle Fiamme Gialle.


Al consigliere è stato notificato, nelle prime ore di stamane, una ordinanza di custodia cautelare agli arresti domiciliari emessa dal gip del Tribunale di Lucera. Sempre per gli stessi fatti sono stati notificati due avvisi di garanzia ad altrettante persone. L'inchiesta è coordinata dalla Procura della Repubblica di Lucera. L'ipotesi di reato è tentata concussione.

Il consigliere comunale arrestato è Matteo Silvestre. Il reato sarebbe stato compiuto a febbraio scorso in concorso con l’ex assessore ai Lavori Pubblici, Ruggero Corvino, già sottoposto ai domiciliari. La concussione sarebbe stata tentata ai danni della Icg srl, di Pietro Valentino, la ditta incaricata dell’appalto per il rifacimento della strada di via delle Porte Antiche a Lucera che avrebbe ricevuto la richiesta di effettuare lavori privati, in particolare il rifacimento di una strada interpoderale di accesso in abitazioni private in località 'Carmine Vecchio'.

Silvestre avrebbe indotto l’ex assessore Corvino a recarsi sul cantiere della ditta in via delle Porte Antiche per avanzare la pretesa illecita. Ma anche lo stesso consigliere si sarebbe presentato almeno una volta sul cantiere per parlare con Pietro Valentino chiedendogli conto di eventuali indicazioni ricevute sulla necessità di procedere ai lavori oggetto della richiesta illecita e, dopo aver ottenuto un rifiuto, si sarebbe ripresentato con l’assessore.

Mafia, arrestato latitante a Catania

Fermato dalla polizia nel quartiere di Librino Antonino Arena, 32 anni, presunto affiliato al clan Sciuto Tigna. Era ricercato dal marzo del 2009



CATANIA. Il latitante Antonino Arena, di 32 anni, presunto affiliato al clan Sciuto Tigna, è stato arrestato da agenti della squadra mobile di Catania. L'arresto é avvenuto ieri pomeriggio, nel popoloso quartiere di Librino, ma è stato reso noto solamente stamane. L'uomo, irreperibile dal marzo del 2009, è destinatario di quattro ordinanze di custodia cautelare in carcere per associazione mafiosa, associazione per delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti, reati in materia di armi ed altro.

lunedì 25 luglio 2011

Patti, sequestrato un centro termale

L'operazione eseguita dalla guardia di finanza. Sigilli anche ad un albergo, per un totale di un milione di euro. Il titolare è stato denunciato



PATTI. La Guardia di finanza sta eseguendo a Patti (ME) il sequestro di un centro termale, con annesso albergo, del valore di circa un milione di euro e ha denunciato G.P, titolare della società 'Timeto salute srl' per truffa aggravata. Secondo i militari, la società aveva ottenuto finanziamenti del Por Sicilia 2000/2006 per realizzare un centro termale e una struttura ricettiva, ma l'immobile non era stato mai completato e non era ancora entrato in funzione. Sono in corso altre indagini per accertare ulteriori responsabilità per quanto riguarda le autorizzazioni ottenute dalla società per la realizzazione della struttura.

Associazione antiusura fantasma Con i soldi titoli e opere d'arte

Anche quadri di Guttuso e Chagall "Spariti" fondi della Regione per oltre 600mila euro
Nella casa del presidente della ONIS valori per 400mila euro




NAPOLI, - Dovevano essere destinati a dare supporto alle vittime dell'usura e, invece, sono stati investiti in titoli, immobili, terreni e, sembra, anche in opere d'arte. Fondi pubblici, della Regione Campania e del Ministero dell'Economia, per circa 600mila euro, sottoforma di titoli depositati sui Monte dei Paschi di Siena e sul Banco di Napoli, nella disponibilità dell' associazione antiusura Onis (Opera Nazionale Insieme per la Solidarietà) sono stati sequestrati oggi dalla Guardia di Finanza di Napoli in esecuzione di un decreto urgente emesso dal gip del Tribunale di Napoli su richiesta della Sezione Reati contro la Pubblica Amministrazione della Procura della Repubblica partenopea.


Posti sotto «sequestro equivalente», un immobile e un terreno, complessivamente del valore di oltre 480mila euro, intestati al presidente dell'associazione, e undici importanti d'opere d'arte, tra i quali quadri di De Chirico, Chagall e Guttuso, per un valore stimato in circa 400mila euro, trovate dalle Fiamme Gialle nella sua abitazione durante una perquisizione.

L'ipotesi di reato avanzata dalla Procura nei confronti dei componenti della Onis è truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.

Sulle opere d'arte sono in corso verifiche per stabilirne la provenienza. Secondo quanto accertato dagli inquirenti, l'associazione antiusura Onis, attraverso documenti falsi e con manomissioni contabili, era riuscita ad ottenere l'iscrizione nell'albo delle società antiracket e, quindi, anche l'accesso ai contributi pubblici il cui scopo era garantire finanziamenti da parte delle banche a soggetti aventi difficoltà d'accesso al credito.

I fondi potevano anche essere utilizzati per la realizzazione di progetti di prevenzione, come seminari, conferenze, consulenze legali e psicologiche, attività che, è stato accertato, invece non erano state mai avviate.

Arrestato Vittorio Cecchi Gori

L'accusa per il produttore: bancarotta fraudolenta
Avrebbe sottratto 14 milioni destinati alla custodia giudiziaria


ROMA
Arrestato nuovamente il produttore cinematografico Vittorio Cecchi Gori. I finanzieri del Comando provinciale della Guardia di Finanza di Roma hanno eseguito nei confronti dell’imprenditore un’ordinanza di custodia cautelare degli arresti domiciliari per bancarotta fraudolenta, disposta dal Tribunale capitolino, su richiesta dei sostituti procuratori della Repubblica di Roma, Stefano Fava e Lina Cusano, coordinati dal procuratore aggiunto Nello Rossi.

Secondo l'accusa Cecchi Gori aveva distratto i beni del patrimonio sociale della società Fin.Ma.Vi. S.p.A., causando un passivo fallimentare di circa 600 milioni di euro attraverso strumentali operazioni di finanziamento a favore di altre società a lui riconducibili, tra cui due società statunitensi (la Cecchi Gori Pictures e la Cecchi Gori Usa).

Proprio queste due società americane, nel marzo del 2011 hanno vinto una causa legale intentata negli Stati Uniti nei confronti della Hollywood Gang Production del produttore italo-americano Gianni Nunnari.

Il Giudice della California ha pertanto ordinato alla società di Nunnari di corrispondere alle due società americane di Cecchi Gori la somma di circa 14 milioni di dollari, immediatamente sottoposta a sequestro dal Tribunale di Roma, al fine di metterla a disposizione della procedura fallimentare per la soddisfazione dei creditori della Fin.Ma.Vi. S.p.A..

La somma non è però mai stata resa disponibile alla custodia giudiziaria. Cecchi Gori avrebbe anzi tentato, anche attraverso propri emissari negli Stati Uniti, di entrare in possesso del denaro oggetto del provvedimento di sequestro. Cecchi Gori era già stato arrestato dal Nucleo di Polizia tributaria di Roma nel giugno del 2008 nell'ambito del procedimento penale scaturito a seguito del fallimento della Safin società cinematografica S.p.a., controllata dalla Fin.Ma.Vi. S.p.a.

Roma piange David Tobini, caporal maggiore morto in Afghanistan

Ucciso lunedì mattina durante un'attività congiunta

con le forze afghane nella valle del Murghab

 Roma piange la 41sima vittima del contingente di pace italiano in Afghanistan e il sindaco Alemanno proclama lutto cittadino. Si chiamava David Tobini ed era originario della Capitale il caporal maggiore deceduto lunedì mattina in uno scontro a fuoco nell'ovest del Paese.


Tobini, che aveva compiuto 28 anni sabato scorso, stava partecipando ad una attività congiunta con forze afghane nella valle del Murghab, nella provincia di Badghis. Lo riferisce lo stato Maggiore della Difesa. Il primo caporal maggiore Tobini era in forza al 183esimo reggimento paracadutisti «Nembo» di Pistoia. Il sindaco di Roma ha proclamato il lutto cittadino nel giorno delle esequie del parà. «A nome mio, della Giunta capitolina, di Roma tutta desidero porgere alla famiglia Tobini i più profondi sentimenti di cordoglio e in onore e rispetto di David» ha detto il sindaco.

L'ABITAZIONE A OSTERIA NUOVA - David abitava insieme a sua madre e al fratellino più piccolo a Osteria Nuova, una frazione del Comune di Roma, sulla Cassia nel XX Municipio. Per le 17 di lunedì Alemanno ha annunciato la visita nell'abitazione di famiglia. Il padre del militare, separato da sua moglie, è infermiere e lavora al San Filippo Neri.

LA ZIA: «NON SI PUO' MORIRE COSI'» - «Mio nipote era una persona squisita. Era la seconda volta che si recava in Afghanistan e la prima volta, al ritorno, ci aveva sempre detto che in quella terra c'è troppa miseria». Così, tra le lacrime, la zia ricorda David Tobini. «Sono distrutta - aggiunge - non si può morire così, a 28 anni. Abbiamo letto con apprensione in questi anni di altre morti e siamo sempre stati in apprensione per David, stavolta è toccato a noi. Non riesco ancora a crederci, non è giusto». «Era un ragazzo semplicissimo - dice lo zio - gli piaceva fare questo mestiere». David era fidanzato ed era residente ad Anguillara Sabazia, vicino a Roma, dove abita la madre.

Boss assassinato 15 anni fa: sei arresti a Niscemi

Fatta piena luce sull'omicidio di Alfredo Campisi, assassinato nel 1996 mentre era alla guida di un'automobile da un commando della famiglia gelese degli Emanuello, affiliata al clan Madonia

NISCEMI. Dopo 15 anni di indagini, polizia e magistratura hanno fatto piena luce sull'omicidio di Alfredo Campisi, boss emergente di Niscemi, ucciso, mentre era alla guida della sua automobile il 6 novembre del 1996, in un agguato tesogli da un commando della famiglia gelese degli Emmanuello, affiliata al clan Madonia di Cosa Nostra. Sei ordini di custodia cautelare in carcere e cinque avvisi di garanzia, emessi dal gip di Catania, Daniela Monaco Crea, su richiesta della Dda etnea, sono stati eseguiti, nel corso della notte, a Niscemi, dagli uomini della squadra mobile di Caltanissetta e del locale commissariato di polizia, nell'ambito di un'operazione denominata "Para Bellum".

Identificati esecutori e mandanti sia del delitto Campisi che del tentato omicidio del suo luogotenente Giuliano Chiavetta, che viaggiava con lui al momento dell'agguato, avvenuto sulla Niscemi-Vittoria, in territorio di Acate. Ricostruiti inoltre i due precedenti agguati tesi alla stessa vittima, colpevole di avere messo in piedi una organizzazione di giovani criminali, feroci e senza scrupoli, capaci di contrastare la forza egemone degli Emmanuello, all'interno di Cosa Nostra. La prima volta (il 23 luglio del '96) Campisi era riuscito a sottrarsi ai suoi killer fuggendo dal proprio negozio di marmi dove il gruppo di fuoco si era recato per ucciderlo. Una seconda volta, nella stessa estate, due killer gelesi, giunti a Niscemi su una moto di grossa cilindrata e su un ciclomotore, furono bloccati dai propri complici del gruppo di copertura pochi istanti prima di entrare in azione, perche' in piazza municipio, dove Campisi doveva essere ucciso mentre passeggiava, era sopraggiunta una pattuglia dei carabinieri.

Gli arresti - Questi i nomi degli arrestati: Alessandro Emmanuello, 44 anni di Gela, presunto mandante dell'agguato mortale; Giuseppe Amedeo Arcerito, 58 anni, detto "u dutturi"; Salvatore Di Pasquale, 55 anni, detto "Turi bordò"; Sebastiano Montalto, 42 anni, soprannominato "Iano l'americano"; Rosario Lombardo, 50 anni, chiamato "Saru Cavaddu", tutti di Niscemi; Francesco Amato, 41 anni, di Vittoria, detto "Ciccio pistola". Dovranno rispondere, a vario titolo, di omicidio volontario aggravato, tentativo di omicidio e associazione mafiosa. Ad Alessandro Emmanuello (detenuto in Italia ma che per questo nuovo capo di imputazione attende l'estradizione dalla Germania dove fu arrestato anni fa) e a Lombardo i provvedimenti sono stati notificati in carcere. Indagati Emanuele Greco, 38 anni di Gela e soprannominato "Nele a bestia", e i collaboratori di giustizia gelesi, Massimo Carmelo Billizzi, Fortunato Ferracane, Nunzio Licata ed Emanuele Celona. I pentiti assieme ad Antonino Pitrolo, Giuliano Chiavetta e Crocifisso Smorta hanno contribuito a far luce sulla guerra di mafia all'interno di Cosa Nostra a Niscemi. Per l'uccisione di Campisi e il ferimento di Chiavetta, lo scorso anno furono arrestati Giuseppe Buzzone e Antonino Pitrolo, che poi decise di collaborare.

'Ndrangheta, confiscati beni per 200mln di euro al clan Alvaro

Tra i beni confiscati il 'Cafè de Paris' e il ristorante 'Georgès' di Roma, sono stati confiscati alla cosca Alvaro di Sinopoli. Disposta la confisca di 15 tra imprese e ditte individuali operanti principalmente nel settore dei servizi della ristorazione


Beni per 200 milioni di euro sono stati confiscati dalla Guardia di Finanza al clan della 'ndrangheta facente capo alla famiglia Alvaro di Sinopoli (Rc). Il Tribunale di Reggio Calabria, su richiesta della Procura, ha disposto la confisca di 15 tra imprese e ditte individuali operanti, principalmente, nel settore dei servizi e della ristorazione.

Si tratta di noti locali romani, tra i quali, il «Cafè de Paris» ed il ristorante «Georgès». A queste vanno aggiunti 4 immobili di pregio, 3 autovetture di lusso oltre a rapporti bancari, postali, assicurativi e denaro contante. La Procura ed i finanzieri, nell’arco degli ultimi ventiquattro mesi, hanno sviluppato specifiche indagini tecniche, investigazioni finanziarie e bancarie, nonchè informazioni tratte da segnalazioni di operazioni sospette, provenienti dagli intermediari finanziari. Il Cafè de Paris, ha un valore commerciale, secondo gli investigatori, di 55 milioni di euro e risulta di proprietà della società "Cafè de Paris", con sede a Roma, in via Crescenzio 82, ma, in realtà, sarebbe stato nella disponibilità di affiliati alla cosca degli Alvaro di Cosoleto (Rc) della 'ndrangheta.


Il Cafè de Paris era stato sequestrato esattamente due anni fa nel corso di una operazione congiunta di Guardia di finanza e carabinieri del Ros. Un altro noto locale della capitale che è stato sequestrato, nell’ambito della stessa operazione, il ristorante Georgès è di proprietà ufficialmente della «Georgès Immobiliare e di gestione Srl», con sede a Roma in via Marche 7, ed ha un valore commerciale, sempre secondo gli investigatori, di 50 milioni di euro.

I beni confiscati sono riconducibili a Vincenzo Alvaro, di 47 anni, e Damiano Villari, esponenti si spicco della cosca egemone a Cosoleto e ha importanti ramificazioni a Roma.

Nei due anni intercorsi dal sequestro la Procura di Reggio Calabria ha affidato ai finanzieri del Gico di Reggio Calabria e dello Scico di Roma numerose deleghe d’indagine mirate a rafforzare il quadro probatorio disegnato nel luglio del 2009 ai finanzieri del Gico di Reggio Calabria e dello Scico di Roma. La Procura ed i finanzieri hanno attuato indagini tecniche, investigazioni finanziarie e bancarie e acquisito informazioni su segnalazioni di operazioni sospette provenienti dagli intermediari finanziari.

Vincenzo Alvaro, esponente di spicco della cosca omonima, denominata «Testazzi» o «Cudalonga», si è rivelato la mente "operativa" dell’omonima cosca nella capitale, sin da quando, nel 2001, trasferitosi a Roma per scontare la sorveglianza speciale, si fece assumere come «aiuto cuoco», investendo somme di provenienza illecita nell’acquisto di numerosi esercizi commerciali, operativi nel settore della ristorazione. A questo proposito il Tribunale ha evidenziato l’esistenza di «un vero e proprio sistema occulto di accaparramento e gestione di attività economiche nella città di Roma» riconducibile proprio allo stesso Alvaro e di Damiano Villari, che dopo essere stato inizialmente solo prestanome degli Alvaro con il passare del tempo ha assunto un ruolo di maggiore rilievo nell’ambito delle strategie economiche della cosca.

Villari, giunto a Roma da un piccolo comune dell’Aspromonte dove faceva il barbiere, ha creato un patrimonio pur essendo privo di qualsiasi ricchezza o mezzo di sostentamento.

Vincenzo Alvaro, inoltre, attraverso la moglie, risulta strettamente legato al ramo di Sinopoli della famiglia anch’esso in forte difficoltà dopo la morte del capostipite Domenico Alvaro Domenico e l’arresto, ad opera della polizia di Reggio Calabria, avvenuto proprio in questi giorni, di Cosimo Alvaro, di 47 anni.

I PARTICOLARI ILLUSTRATI IN CONFERENZA STAMPA
«Grazie ai contenuti normativi del pacchetto sicurezza, approvato unanimemente dal Parlamento nel 2008, è stato possibile raggiungere questo importante risultato. Il lavoro sinergico e gli incroci investigativi dei carabinieri del Ros e della Guardia di Finanza, hanno fatto il resto». Queste le parole del procuratore di Reggio Calabria Giuseppe Pignatone incontrando i giornalisti per illustrare i risultati della maxi confisca nei confronti della cosca Alvaro di Cosoleto: «Vincenzo Alvaro e Damiano Villari, un rispettabile barbiere di Cosoleto – ha aggiunto Pignatone – avevano spostato il raggio dei loro interessi legali dal 2001 a Roma e nel Lazio, riuscendo lentamente ad acquisire, con sofisticate operazioni finanziarie, numerosi locali rinomati, come lo storico 'Cafè de Paris'. La lente di ingrandimento degli investigatori, però, è riuscita a sezionare l’insieme delle attività di questo agguerrito gruppo della ndrangheta, smantellandone il sistema di riciclaggio».

«E' il coronamento di uno sforzo investigativo, che il Tribunale ha riconosciuto nella sua interezza – ha aggiunto il comandante provinciale della Guardia di Finanza, colonnello Alberto Reda – e abbiamo scoperto ingenti quantitativi di danaro contante su conti correnti e cassette di sicurezza nella disponibilità di Vincenzo Alvaro, grazie anche alle informazioni acquisite da alcune società di intermediazione del credito». La Guardia di Finanza, grazie al controllo approfondito delle posizioni fiscali e tributarie del 'sistema Alvaro', ha scoperto le attività plurime del gruppo malavitoso.

Afghanistan, ancora sangue italiano Ucciso un militare, due feriti: uno è grave

È la 41.ma vittima italiana. L'assalto avvenuto nella parte occidentale del Paese, a Nord-Ovest di Bala-Murgab. Il cordoglio di Napolitano


AFGHANISTAN - Attaccata un'unità durante un'operazione congiunta tra militari italiani e forze afgane. Lo rende noto lo Stato Maggiore della Difesa. Dei due feriti uno sarebbe in gravi condizioni. Due settimane fa la morte del caporal maggiore Roberto Marchini. Con la vittima di oggi salgono a 41 i caduti italiani in Afghanistan.


Questo il comunicato dello Stato Maggiore della DIfesa: «Durante un'operazione congiunta tra militari italiani e forze afgane nella zona a nord ovest della valle di Bala Murghab l'unità nella quale erano presenti anche i militari italiani è stata attaccata. Durante lo scontro a fuoco è rimasto ucciso un militare italiano, mentre altri due risultano feriti. Uno è grave mentre il secondo non è in pericolo di vita».

Il cordoglio del Presidente della Repubblica. Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, appresa con profonda commozione la notizia dello scontro a fuoco in Afghanistan in cui ha perso la vita un militare italiano ed altri due sono rimasti feriti, esprime, rendendosi interprete del profondo cordoglio del Paese, sentimenti di solidale partecipazione al dolore dei famigliari. È quanto si legge in un comunicato del Quirinale.

Melania «Non è mai stata a Colle San Marco»

Il suo cellulare accusa Parolisi e smonta l'ultimo alibi

ASCOLI PICENO - Ora c’è anche il Samsung di Melania ad accusare Parolisi, il cellulare trovato accanto al cadavere e utilizzato dagli investigatori per tutta una serie di esperimenti che, alla fine, hanno portato a una sola conclusione: la donna non è mai stata a Colle San Marco.

Quel telefonino e tutti i sofisticati esperimenti hanno detto, cioè, quello che avevano già detto i 52 testimoni ascoltati per settimane dai carabinieri, smentendo ancora una volta e forse definitivamente il racconto di quel pomeriggio proposto e riproposto dal caporalmaggiore oggi in carcere per l’omicidio della moglie.

Nessuna altalena per Vittoria quel 18 aprile, nessun bisogno di andar in bagno, nessun caffè promesso e mai arrivato, semplicemente perché Melania sul pianoro non ci è mai stata quel pomeriggio, perché tutte le analisi tecniche portano a dire che già dalle 14.53, da quando la sua amica Sonia la chiama inutilmente per la prima volta, lei è al bosco delle Casermette di Ripe di Civitella, forse è stata già uccisa.

L’analisi dei tabulati telefonici e gli esperimenti sul telefonino di Melania erano l’anello mancante di queste indagini. I risultati sono arrivati giusto in tempo per inserirli nei cinque faldoni partiti per la Procura di Teramo e sono ritenuti dagli investigatori quasi una prova regina, e comunque il giusto premio per un lavoro lungo e complicato.

I tecnici del Ros hanno cominciato facendo telefonate e ricevendone dai punti chiave di questa vicenda - e cioè San Marco, le Casermette e anche lungo la strada che collega le due località-, prima con il Samsung di Melania e poi con un apparecchio esattamente simile, per essere ancora più sicuri dei riscontri. Hanno poi analizzato i tabulati classici, le 32 chiamate e i cinque sms che la povera donna ha ricevuto sempre a partire dalle 14.53. E alla fine si sono soffermate sul fatto che il traffico si agganciava soprattutto a due celle, la 451 e la 390.

Soprattutto la prima si è rivelata preziosa perché «ben presente come servente nella zona del ritrovamento del cadavere». Sono poi scesi giù a San Marco, i carabinieri del Ros di Ancona, e hanno scoperto che la zona è «tipicamente servita» da un’altra cella abbastanza potente, la 381. Ma si son voluti concedere l’ultimo scrupolo e così hanno rilevato che «l’unico punto della zona di Colle San Marco in cui vi è copertura della 451 in grado di gestire una chiamata è una specifica e ristrettissima area nelle adiacenze del monumento ai Martiri della Resistenza».

Un beffardo incrocio di celle, quindi? Il Ros lo esclude: «Anche minimi spostamenti da quel punto non consentono la copertura della 451...Melania e il suo telefono sarebbero dovuti rimanere pressoché immobili nello specifico punto per 4-5 minuti» e cioè in occasione delle due chiamate dell’amica Sonia, fra le 14.53 e le 14.56. Due chiamate alle quali non ha risposto, nonostante il telefono fosse «impostato con profilo suoneria all’aperto, suoneria massimo volume e vibrazione inserita».

Conclude il pm Monti: «Si può dunque attendibilmente escludere che Melania quando riceveva le due chiamate da Sonia senza rispondere si trovasse nella zona delle altalene o lungo il percorso che porta al bar il cacciatore. E appare altamente probabile sotto il solo profilo tecnico delle celle agganciate al telefonino di Melania (telefonino che era con lei) che già alle ore 14.53 e 14.56 la donna non si trovava affatto a San Marco, bensì nella zona del ritrovamento del cadavere e dell’omicidio».

C’è poi tutto un ragionamento dell’accusa attorno al fatto che questi esami sul telefonino di Melania vanno a combaciare non solo con i testimoni che negano ogni presenza della famigliola sul pianoro, ma anche con l’autopsia e tutto il resto delle analisi scientifiche. Tre mesi e passa dopo, insomma, per la Procura di Ascoli il cerchio è proprio chiuso.

Nino Cirillo

domenica 24 luglio 2011

«A Melania questo non piaceva» Così Parolisi si tradì la sera dopo

La deposizione di un collega di Salvatore: era appena scomparsa e ne parlava già al passato



ASCOLI PICENO - La sera del 19 aprile, cioè appena trenta ore dopo la scomparsa di Melania, Salvatore Parolisi parlava di lei già al passato. Lo si scopre rileggendo una delle duemila pagine dei cinque faldoni dell’inchiesta appena passata alla procura di Teramo, la 1.090. E’ la testimonianza completa -e non il sunto che se ne conosceva finora attraverso il rapporto del Ros di Ancona- di Raffaele Pagano, caporal maggiore del 235° Reggimento Piceno proprio come Parolisi. Il 19 maggio, intorno alle quattro di pomeriggio, Pagano racconta ai carabinieri di quella sera di un mese prima e offre ricordi nitidissimi: «Ci dirigemmo verso Colle San marco da Folignano, per una strada che io non avevo mai fatto. A San Marco trovammo i parenti della moglie di Parolisi e al riguardo ricordo che all’arrivo di uno zio della moglie, rivolgendosi al suocero, diceva: cosa è venuto a fare questo qui che a Melania non gli piaceva e nemmeno a me piace. Della frase mi colpi il fatto che lui parlava della moglie al passato quando ancora non si sapeva della sua morte». Ma non nota, Pagano, quello che poi gli investigatori avrebbero notato. Parolisi non si serve solo di un verbo al passato -errore perfino comprensibile nella concitazione di quei momenti- ma lo accosta lucidamente e con proprietà di linguaggio a un presente, al suo presente, a quel «nemmeno e me piace» che oggi fa venire i brividi. Come fa venire i brividi un’altra annotazione del caporale Pagano, che si riferisce a tutto il pomeriggio precedente, passato da Parolisi inspiegabilmente in caserma invece che sulla scena delle ricerche: «In realtà non è che mostrasse eccessiva preoccupazione per la situazione anche se ormai erano più di 24 ore che la moglie non si trovava». Questo dell’uso dei verbi è un rompicapo abbastanza classico.

Ci si interroga ancora -ancora oggi che Parolisi è in carcere, accusato di aver ucciso Melania con l’aggravante della crudeltà- su alcune intercettazioni, sui famosi soliloqui del caporalmaggiore nella sua auto imbottita di microspie. A un certo punto sembra chiaro agli investigatori che lui sappia di queste cimici e che voglia costruirsi una serie di piccoli spot difensivi, e lo fa cambiando verbo: «Che cosa ho fatto di male per meritare tutto questo...tutta questa vergogna, perché sono un deficiente, ma se lo prendo chi è stato con le mie mani a quel bastardo... anzi quei bastardi, se li prendo tutti a questi bastardi». Un po’ come il Michele Misseri di Avetrana che quando deve parlare del trasporto della piccola Sarah da casa sua al pozzo, prima se ne addossa tutta la responsabilità e poi usa il «noi». Si domandano comunque i carabinieri: cosa fa pensare a Parolisi che i responsabili siano più di uno? E il pensiero va alla drammatica conversazione telefonica con la sorella, il 25 maggio, quando Salvatore per la prima volta allarga i suoi discorsi alla caserma («ma sai quante altre cose escono in mezzo...») e poi conclude: «Mi dispiace che ci ha rimesso Melania». Che colpa ha pagato la donna? Perché collega l’omicidio alla caserma? Da ieri, comunque, a occuparsi della «personalità camaleontica» del marito di Melania Rea sono i pm teramani Greta Aloisi e Davide Rosati. La Aloisi fu la prima ad accorrere, nel pomeriggio del 20 aprile, al bosco delle casermette per un sopralluogo dopo il ritrovamento del cadavere della donna. Solo il giorno dopo l’inchiesta venne dirottata su Ascoli per rimanerci tutti questi tre mesi, il tempo di stabilire che in provincia di Teramo non solo era stato trovato il corpo ma anche commesso il delitto. Aloisi e Rosati proveranno sicuramente a sciogliere uno dei misteri rimasti irrisolti, cercheranno di dare un’identità al telefonista che da una cabina pubblica di Piazza San Francesco, nel pieno centro di Teramo sotto l’occhio di telecamere che purtroppo non funzionavano, avvertì i carabinieri che il corpo senza vita di Melania si trovava lassù, tra i boschi del poligono di tiro che il marito conosceva così bene. Chi è quell’uomo, a chi appartiene quella voce impaurita di anziano? Cosa ha visto e non ha detto nel dare l’allarme? Può aver addirittura notato chi ha inferto le coltellate post mortem sul corpo di Melania probabilmente quella mattina stessa? La famiglia della giovane mamma di Somma Vesuviana sarà ad Ascoli probabilmente lunedì o martedì, per incontrarsi con l’avvocato Gionni, il legale che hanno nominato quando hanno deciso di costituirsi parte civile, e con il professor Carlo Buccilli dell’università di Napoli, il consulente medico legale che hanno scelto. Il loro obbiettivo in questo momento sembra uno solo: ottenere l’affidamento della piccola Vittoria.

Nino Cirillo