lunedì 31 ottobre 2011

Grazie a STAMINCHIA Le 13 regole d’oro per vivere felici……

MINCHIA….. una parola da mille significati

 Minchia è una parola importante …… In italiano è una brutta parola, ma in dialetto ha più significati. Messa insieme alle altre parole spiega il senso della vita …. (libera traduzione nella lingua madre Siciliana)

1. Non Saprei Traduzione: Chi Minchia ni Sacciu.
2. Chi se ne importa Traduzione: Chi Minchia minni futti.
3. Adesso la circostanza si fa drammatica Traduzione: Minchia di versu.
4. Mi fai cadere le braccia Traduzione: Minchia però.
5. Hai tanti pensieri per la testa Traduzione: Chi Minchia ti passa pa testa.
6. Non sei  capace di assolvere un compito Traduzione: Minchia di panipersu.
7. Ti ringrazio per ciò che mi dici ma sono argomenti che già conoscevo da tempo Traduzione: Grazie a Staminchia.
8. Sei arrivato di soppiatto, senza che alcuno se ne accorgesse, anche con un’invadente superbia Traduzione: Arrivò sta Minchia.
9. Ma chi è costui che si presenta me dinanzi con fare spavaldo? Traduzione: Cu Minchia si ?
10. Cerchi forse qualcosa che io non posso darti? Traduzione: Chi Minchia voi?
11. Non dovresti interessarti della vita privata degli altri Traduzione: Chi Minchia tinni futti di l’avutri.
12. Sei una persona un po’ assillante Traduzione: Ci stai scassannu la Minchia.
13. Le cose non vanno per il giusto verso Traduzione: Minchia di malu versu.

Arrestato Di Piazza, boss della famiglia agrigentina

L'uomo, 71 anni, è ritenuto a capo della cosca di Casteltermini. Il tutto si inquadra nell'operazione antimafia 'Kamarat' che il 18 maggio scorso portò in carcere altri quattro esponenti di spicco di Cosa nostra agrigentina



AGRIGENTINO. I carabinieri di Cammarata (Ag), in esecuzione di un'ordinanza di custodia cautelare in carcere firmata dal gip del tribunale di Palermo, Fernando Sestito, su richiesta dalla Dda, hanno arrestato Vincenzo Di Piazza, 71 anni, di Casteltermini (Ag). L'anziano è ritenuto a capo della famiglia mafiosa di Casteltermini. L'arresto di stamattina s'inquadra nell'operazione antimafia 'Kamarat' che il 18 maggio scorso portò in carcere altri quattro esponenti di spicco di Cosa nostra agrigentina, appartenenti al mandamento mafioso di Casteltermini e Cammarata.

Per l'arresto di Di Piazza sarebbero risultate decisive le dichiarazioni rese dal neo-collaboratore di giustizia, Maurizio Carrubba, già appartenente alla famiglia mafiosa di Campofranco (Cl). Le dichiarazioni rese da Carrubba avrebbero consentito al gip, che in occasione dell'operazione 'Kamarat' aveva rigettato un'analoga richiesta di custodia cautelare in carcere a carico di Di Piazza, di superare ogni dubbio sulla sussistenza di gravi indizi di colpevolezza circa "il perdurante e attivo inserimento dell'uomo nella famiglia mafiosa di Casteltermini, con funzione direttiva". Di Piazza era stato già arrestato nel 1995, con successiva condanna per associazione per delinquere di tipo mafioso e per avere favorito la latitanza dell'allora capo della provincia mafiosa di Agrigento, Salvatore Fragapane, che si sarebbe nascosto nella tenuta di Di Piazza.


I carabinieri della Compagnia di Cammarata coadiuvati dai militari della stazione di Casteltermini, hanno arrestato il presunto capo famiglia di Casteltermini, Vincenzo Di Piazza, 71 anni.


Il provvedimento di custodia cautelare in carcere, che costituisce una integrazione dell’operazione antimafia denominata “Kamarat”, è stata emesso dal Gip del Tribunale di Palermo Fernando Sestito, su richiesta del sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia, Giuseppe Fici.

Il castelterminese, in concorso ed unitamente ad altri soggetti (fra cui Brusca Giovanni, Bagarella Leoluca Biagio, Brusca Enzo Salvatore, Monticciolo Giuseppe, Chiodo Vincenzo, Di Caro Antonino, Costanza Antonio, Messina Gerlandino, Longo Salvatore, Falzone Alfonso, Putrone Luigi, Traina Michele, Buggea Giancarlo, Accascio Ignazio e Sardino Giuseppe), avrebbe fatto parte, con ruolo di capo, della famiglia mafiosa di Casteltermini; con l’aggravante di aver concorso ad una associazione armata, avendo i componenti della medesima la disponibilità di armi ed esplosivi per il conseguimento delle finalità dell’associazione miranti al controllo di attività economiche finanziate con il prodotto, profitto e prezzo di altri delitti.

Di Piazza è stato rinchiuso nel carcere di Agrigento. L’odierna operazione rappresenta un prosieguo dell’operazione denominata “Kamarat” che il 18 maggio del 2011, portò alla cattura di altri 4 soggetti di spicco nell’ambito dell’organizzazione mafiosa agrigentina, in esito ad approfondite investigazioni svolte dalla Compagnia dei carabinieri di Cammarata, finalizzate ad illuminare l’attuale composizione delle famiglie mafiose di Cosa Nostra operanti nel territorio dei Comuni di Cammarata, San Giovanni Gemini, Castronovo di Sicilia e Casteltermini. Particolare importanza, in tale prospettiva, hanno rivestito le dichiarazioni rese da collaboratori di giustizia di significativo peso all’interno dell’organizzazione criminale e di comprovata attendibilità quali Alfonso Falzone, Luigi Putrone, Ciro Vara, Maurizio Di Gati, Antonino Giuffrè, Giuseppe Salvatore Vaccaro e Beniamino Di Gati, sulle quali si è di volta in volta appurata la veridicità attraverso i positivi riscontri da parte dei carabinieri. Da ultimo sono risultate decisive per l’arresto del Vincenzo Di Piazza, le dichiarazioni rese dal neo-collaboratore di giustizia Maurizio Carruba, già appartenente alla famiglia mafiosa di Campofranco.

Pesanti dichiarazioni, che hanno consentito al Gip, che già in precedenza aveva rigettato un’analoga richiesta di custodia cautelare in carcere a carico del Di Piazza, di superare ogni dubbio sulla sussistenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine al perdurante ed attivo inserimento del predetto nella famiglia mafiosa di Casteltermini, con funzione direttiva. A carico di Vincenzo Di Piazza, grava già un precedente arresto avvenuto nel 1995, con successiva condanna per associazione per delinquere di tipo mafioso, per aver favorito la latitanza dell’allora capo della provincia mafiosa di Agrigento, Salvatore Fragapane, il quale avrebbe trascorso la sua latitanza in un casolare, messo a disposizione proprio dal castelterminese.

Samo, ucciso un consigliere comunale con cinque colpi alla testa

Sgabellone, 31 anni, è stato ammazzato con cinque colpi alla testa. L’uomo non era tornato a casa sabato sera ed è stato trovato morto in campagna

E' stato ucciso con cinque colpisparati alla nuca, una vera e propria esecuzione, compiuta nelle campagne pre aspromontane. Vincenzo Sgabellone, 31 anni bracciante agricolo e consigliere comunale di maggioranza a Samo è stato assassinato nella serata di sabato, ma il cadavere è stato ritrovato solo ieri mattina dai familiari della vittima.


Sgabellone, infatti, come ogni giorno anche sabato pomeriggio aveva lasciato la casa dei genitori per raggiungere un podere di contrada Scorizzi, una zona isolata al confine fra i comuni di Samo e Ferruzzano, ed accudire agli animali di famiglia. Li ha trovato la morte. L'assenza prolungata del giovane, sulle prime, non ha preoccupato i familiari che, solo ieri mattina, nel non vederlo ancora a casa si sono prodigati nella sua ricerca. Sono stati proprio i parenti del giovane consigliere comunale a ritrovare il cadavere steso sul selciato. E' stato uno zio di Vincenzo Sgabellone a contattare i carabinieri al numero di emergenza e ad attivare il protocollo investigativo.

Sul luogo del delitto, in contrada Scorizzi, i militari della stazione di Samo, quelli del Nucleo investigativo del Gruppo Locri, coordinati dal colonello Giuseppe De Liso e diretti sul posto dal maggiore Alessandro Mucci e gli specialisti della quarta Sezione investigazioni scientifiche di stanza presso il comando provinciale dell'Arma di Reggio Calabria.

L'esito delle prime indagini, seguite dal pubblico ministero Cosentino, ha permesso di chiarire la dinamica dell'omicidio. Vincenzo Sgabellone è stato attinto da almeno cinque colpi di pistola calibro 7 e 65. I proiettili, di cui solo il primo esploso a distanza di tiro dal giovane di Samo, lo hanno raggiunto alla testa da pochi centimetri, sfigurandolo. Si ipotizza che il fatto di sangue possa essere maturato in un contesto di criminalità organizzata. Il corpo di Vincenzo Sgabellone giaceva senza vita a pochi metri dalla propria autovettura, riverso su di una strada in pietrisco e terra battuta. Sul posto sono state recuperate le ogive esplose dalla pistola dell'assassino che, ora, saranno passate al microscopio comparatore al fine di individuare eventuali coincidenze con altri episodi di cronaca che si sono registrati nell'area.

Il killer prima di allontanarsi dalla vittima e dal luogo dell'omicidio, si è preoccupato di dare alle fiamme l'autovettura della vittima, una Mitzubishi L200 di proprietà del padre Salvatore ed in uso al giovane consigliere comunale di Samo, come se volesse cancellare con il fuoco delle tracce compromettenti. Il killer, quindi, potrebbe aver viaggiato fianco a fianco con la propria vittima. Proprio questo particolare ha incuriosito gli investigatori dell'Arma. I carabinieri, infatti, non escludono a priori la possibilità che l'assassino di Vincenzo Sgabellone possa aver raggiunto contrada Scorizzi proprio a bordo dell'autovettura della vittima o che sulla stessa potesse essere custodito un indizio fondamentale per l'identificazione del sicario. In queste ore, poi, i carabinieri sono impegnati nello scandagliare la vita di Vincenzo Sgabellone e, soprattutto, le ultime ore trascorse dal giovane ancora in vita. Il pm della Procura di Locri potrebbe disporre l'autopsia sul cadavere del bracciante agricolo 31enne. La fedina penale del consigliere comunale di Samo era pulita. Per tutta la giornata di ieri, infine, si sono susseguiti gli interrogatori di parenti ed amici di Vincenzo Sgabellone e le perquisizioni su tutto il territorio di Samo.

La mafia foggiana dovrà risarcire lo Stato: 6 milioni


BARI - Gli assassini dell’imprenditore foggiano Giovanni Panunzio dovranno risarcire lo Stato per la «ferita» causata al capoluogo dauno ma soprattutto per quanto speso in uomini, mezzi e ogni risorsa per contrastare il dilagare del fenomeno criminoso negli anni Novanta. Lo ha stabilito una sentenza del Tribunale civile di Bari (giudice monocratico, dott.ssa Carmela Romano) che ha accolto un ricorso promosso dall’Avvocatura dello Stato di Bari che si è vista liquidare 6 milioni di euro di danni: 5 destinati alla Presidenza del Consiglio dei ministri ed uno al ministero dell’Interno.

Il verdetto, sia pure nella sua sintesi (cinque pagine) prende le mosse dalla sentenza irrevocabile che ha visto condannate in via definitiva 36 persone accusate di associazione di stampo mafioso, droga e omicidi di cui sono stati ritenuti «capi» Giosuè Rizzi e Rocco Moretti. Tra questi c’è anche Donato Delli Carri, l’assassino dell’imprenditore Giovanni Panunzio che, insieme a Nicola Ciuffreda (entrambi ammazzati tra settembre e novembre del 1992) divennero i martiri dell’opposizione dell’imprenditoria al racket delle estorsioni. Quegli stessi soldi basterebbero da soli a limitare il taglio di 10 milioni (sui 12 previsti) a partire dal prossimo anno sui due fondi destinati alle vittime di mafia ed usura.

La causa contro la mafia foggiana che ha agito tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, si concluse con un primo sigillo della Cassazione il 16 maggio del 1996, salvo poi ottenere una riconferma - dopo un nuovo round in appello - il 13 ottobre del 1999. In quella vicenda giudiziaria, sia Palazzo Chigi sia il Viminale si costituirono parte civile e ottennero il diritto al risarcimento in sede civile. E la spiegazione a tale diritto, riportata dal giudice civile, la fornì la stessa Cassazione nel 1996 quando stabilì che il Governo «al pari di singoli dicasteri... che abbiano subìto danni da una certa attività criminosa, è portatore di un autonomo diritto ad agire per il soddisfacimento dei propri interessi».

Da qui la valutazione del danno, operata dal giudice secondo un criterio equitativo, anche considerando la voluminosa documentazione e l’articolata difesa dell’Avvocatura distrettuale dello Stato (avv. Filippo Patella) che è riuscita a dimostrare i danni subìti dallo Stato.

Il clan mafioso è riuscito a piegare le vittime, queste ultime costrette addirittura a patteggiare con il sodalizio, scrive l’avvocatura. E proprio tale silenzio «imposto» dalla piovra dauna costrinse lo Stato a impegnare risorse e mezzi per riconquistare il territorio, ma soprattutto per garantire protezione ad alcuni testimoni rivelatisi poi determinanti per smantellare il clan. È il caso dei costi per proteggere Salvatore Chiarabella («le cui rivelazioni hanno consentito di venire a capo della questione relativa all’esistenza del sodalizio criminale»), nonché di quelli per l’incolumità del teste chiave, Mario Nero, le cui dichiarazioni hanno permesso di individuare in Delli Carri l’autore materiale dell’omicidio Panunzio. Da qui le spese per i familiari, il cambio di identità «non certo rilevantissimi ma significativi» per il mantenimento mensile del testimone.

Ma oltre a questo, lo «sfregio» della mafia foggiana ha portato ad ulteriori azioni dello Stato (che ha inciso sui bilanci) per offrire garanzie a chi decideva (e decide) di opporsi al racket istituendo appositi strumenti. Primo fra questi il Fondo di solidarietà per le vittime del racket (poi unificato per le vittime dell’usura), varato all’indomani anche dei fatti gravi di Foggia, lo stesso che insieme a quello delle vittime di mafia - per effetto del disegno di legge sulla stabilità di bilancio - l’anno prossimo sarà decurtato. Ora dopo la sentenza di Bari la parola passa ai politici.

NICOLA PEPE

Agguato a Bari ucciso 21enne senza precedenti


BARI - Un giovane di 21 anni, Alessandro Marzio è stato assassinato ieri pomeriggio quasi sotto gli occhi del padre, in via dei Mille, al quartiere San Pasquale. Il ragazzo era appena uscito di casa, poco dopo le 17 e si era piegato per liberare il suo scooter dalla catena che lo teneva ancorato ad un paletto quando i sicari gli sono arrivati alle spalle aprendo il fuoco. Il genitore, dal primo piano, ha udito il crepitìo dei colpi e si è affacciato alla finestra scoprendo con orrore che il suo ragazzo era riverso sul marciapiede accanto allo scooter. Con la coda dell’occhio ha percepito la sagome di una persona, forse armata, forse con il volto nascosto o coperto da un casco che si allontanava a piedi. Ma in quel momento ogni sua attenzione era concentrata sul ragazzo per terra. Altri testimoni avrebbero raccontato successivamente agli investigatori di aver visto due giovani su una moto allontanarsi dalla scena dell’agguato.


Sono stati quindici i colpi calibro 9 esplosi all’indirizzo del povero Alessandro Marzio che è stramazzato al suolo, esanime. Non ha visto arrivare i suoi assassini, non ha avuto né il tempo né il modo per sottrarsi a quella pioggia di fuoco che lo ha investito in pieno. Chiuso tra il muro dell’edificio al civico 306 e le auto parcheggiate, quasi attaccate una all’altra lungo il marciapiede di via dei Mille non avrebbe avuto comunque via di scampo. È morto tra le braccia del padre.

Pochi minuti dopo il suo telefono cellulare ha cominciato a squillare. Era la sua fidanza alla quale il padre sotto choc ha raccontato il dramma che si era appena consumato. Nulla hanno potuto fare i soccorritori del 118, se non coprire quel giovane corpo senza vita con una coperta, un sudario.

I carabinieri del Reparto operativo provinciale e della Compagnia Bari Cento sono giunti in via dei Mille in pochi minuti. La strada è stata chiusa al traffico, Il luogo del delitto transennato sotto gli sguardi attoniti della gente affacciata ai balconi e radunata per strada. Sono stati informati i pm Teresa Iodice della procura ordinaria e Giuseppe Gattidella Direzione distrettuale antimafia. I carabinieri della Sezione investigazioni scientifiche hanno individuato i bossoli seminati sul marciapiede e sulla strada. Le informazioni raccolte nel corso dei rilievi serviranno a ricostruzione l’esatta traiettoria seguita dai colpi e quindi il punto esatto in cui i sicari hanno aperto il fuoco. A quanto pare avrebbero percorso via dei Mille seguendo il regolare senso di marcia, ossia da via Postiglione giù in picchiata verso via Marina Cristina di Savoia.

Diverse le persone, a partire dal padre del ragazzo e dagli altri parenti, sono state accompagnati nella caserma di via Tanzi, sede del comando di compagnia e del Nucleo investigativo del Reparto operativo e interrogate.

Le modalità efferate dell’aggressione armata, eseguita con modalità tipiche di una esecuzione mafiosa, inducono gli investigatori ad orientare le indagini negli ambienti della malavita organizzata senza però escludere i giri della criminalità comune e gli ambienti della droga.

Alessandro Marzio, aveva 21 anni, la sua fedina penale era immacolata. Dagli archivi delle forze di polizia sono saltate fuori a suo carico due segnalazioni alla Prefettura per la detenzione di sostanze stupefacenti ai fini di consumo privato. Il possesso di droghe è sempre illegale ma in questo caso si tratta di un illecito amministrativo e non penale, che prevede comunque sanzioni severe e conseguenze da non sottovalutare. Insomma un peccato veniale. Alessandro Marzio non era quindi un criminale né risulta dallo schedario delle forze dell’ordine che sia stato mai trovato in compagnia di pregiudicati o malavitosi. Questo è quanto risulta dai casellari di carabinieri e polizia, la verità apparente, ma gli investigatori hanno motivo di credere che possa essere successo qualcosa, nella vita di questo ragazzo, che ne ha fatto un bersaglio mobile, uno da ammazzare per strada, senza pietà. Quindici bossoli di arma da fuoco trovati a terra sulla scena del delitto (un proiettile si è conficcato nella portiera di in una delle auto parcheggiate) dicono una sola cosa, chi ha aperto il fuoco era ferocemente determinato e deciso ad uccidere.

Una telecamera di videosorveglianza tra quelle recentemente posizionate nelle vie del centro cittadino dall’Amministrazione comunale era puntata su via dei Mille. Gli investigatori stanno accertando se era in funzione. Inoltre hanno contattato i titolari di alcuni negozi che si trovano in via Postiglione per sapere se sono dotati di sistemi di sorveglianza con telecamere.

l.nat.

Ammazzato per vendetta dopo una lite al videopoker

Una pista per la morte dell’ambulante: sono stranieri dell’Est


Torino
C’è una traccia per risalire all’assassino di Francesco «Adriano» Pepè, 36 anni, il titolare di un banco di ortofrutta nel mercato di corso Cincinnato, ucciso sabato sera nel suo magazzino, nel cortile del 168 con otto coltellate. Il fendente mortale a una coscia, arteria femorale recisa di netto: è morto dissanguato in pochi minuti. Lascia la compagna, Sonia (in attesa di un bimbo) e un figlio di 4 anni, Michele.

Qualche giorno fa, (secondo le testimonianze raccolte dai carabinieri del nucleo investigativo, guidato dal tenente colonnello Domenico Mascoli), Francesco avrebbe litigato violentemente in un bar della zona con un giovane dell’Est, forse romeno o albanese. Uno scontro duro, a causa di una partita giocata su una delle tante slot del locale; lo avrebbero aggredito in gruppo, lui era riuscito a fuggire in auto ma lo avevano inseguito; per sfuggire, avrebbe anche urtato l’auto di chi voleva a tutti i costi raggiungerlo per dargli una lezione. Si era rifugiato a casa, in corso Mortara e aveva raccontato ad amici e familiari quanto era accaduto poche ore prima.

Ma gli investigatori, coordinati dal pm Stefano Demontis, non si sbilanciano e indagano a 360 gradi. Ieri sono stati sentiti per ore, nella caserma di via Valfrè, i genitori («non ci siamo accorti di niente, credevamo che fosse ancora nel magazzino») e i tanti amici di Francesco, un ragazzo solare e allegro che, nei primi Anni ‘90 aveva avuto un piccolo precedente per possesso di droga. Era stato fermato in una discoteca di Mondovì, assieme ad altri coetanei, con uno spinello. Dopo questa piccola disavventura si era dedicato solo al lavoro e alla sua famiglia. I genitori e la sorella. Gente che ogni giorno si spacca la schiena nel mercato di corso Cincinnato, d’estate e d’inverno. Una vita di fatiche e sacrifici ma molto felice, con Sonia e il piccolo Michele a cui i genitori non facevano mancare nulla.

La sua compagna è sotto choc, i genitori e i familiari le stanno vicino sempre, temono per la gravidanza, è al settimo mese. L’altra sera ha voluto entrare lo stesso nel magazzino dove è stato ucciso Francesco, i capelli biondi, il volto segnato dalle lacrime. E’ facile descrivere Francesco: un ragazzo minuto, con tantissimi amici, generoso sempre. Il tipo che non si dimentica un compleanno, un anniversario, per tutti un regalo o un pensiero. Chi ha tentato invano di soccorrerlo, Giuseppe De Cesare, lo rievoca così: «Avevamo litigato due anni fa e non ci parlavamo più. Quando è mancato mio padre mi ha cercato e mi ha abbracciato. Mi è stato vicino più di tanti amici, alla fine molto meno sensibili di lui».

Uno che non si lamentava mai, neanche nei momenti difficili, neanche quando in tasca aveva pochi soldi e allora bisognava semplicemente lavorare ancora di più. L’uomo che gli ha tolto la vita, forse per niente, per una parola sgradita o pochi spiccioli, ha distrutto due famiglie, ha lasciato due bimbi senza padre e una mamma che non può permettersi nemmeno di affondare nella disperazione. Michele ha lo sguardo e gli occhi di Francesco, esattamente identici. Lo stesso modo di sorridere. Ogni volta che lo abbraccerà, sentirà il suo compagno vicino, come se quella sera «Adriano» fosse ritornato a casa come sempre, dopo avere smontato il banco, rimesso a posto nel magazzino le cassette di frutta e verdura. Il cartello posto davanti alla porta, attenti al cane e al padrone, il disegno di un coltello e di un’arma, non è servito a niente.

massimo numa

Strage ciclisti, il marocchino 21enne condannato ad otto anni di carcere

Per Chafik El Ketani, il marocchino responsabile della morte di 8 ciclisti avvenuta a Lamezia il 5 dicembre scorso è stato condannato ad otto anni di reclusione. Delusi i familiari delle otto vittime

Otto anni di reclusione è la condanna inflitta dal gup di Lamezia Terme a Chafik El Ketani, di 21 anni, il marocchino che il 5 dicembre scorso, a bordo della sua auto, a Lamezia Terme, investì un gruppo di ciclisti amatoriali uccidendone sette. Un ottavo morì dopo alcuni mesi. Il pm aveva chiesto la condanna a 10 anni anni per omicidio colposo plurimo pluriaggravato, tra l’altro, dalla guida sotto l'effetto di sostanze stupefacenti.


Il gup Carlo Fontanazza ha concesso ad El Ketani le attenuanti generiche, riducendo così la pena inflitta rispetto alle richieste. Stamani, prima che il giudice si ritirasse per la camera di consiglio, il difensore di El Ketani, l’avv. Salvatore Staiano, aveva sostenuto che il suo assistito non guidava sotto l’effetto di sostanze stupefacenti e non c'era neanche la certezza dell’eccesso di velocità, chiedendo una condanna più mite. Il legale aveva anche detto di avere chiesto al suo assistito di presentarsi in aula, ma che il giovane marocchino non se la sentiva di guardare in faccia i familiari delle vittime. Dopo Staiano aveva preso la parola il pm per una breve replica.

Nell’incidente morirono Rosario Perri, di 55 anni; Francesco Stranges (51); Vinicio Puppin (47); Giovanni Cannizzaro (58); Pasquale De Luca (35), Fortunato Bernardi (58) e Domenico Palazzo (46). Nell’ospedale di Cosenza, a distanza di due mesi, morì Domenico Strangis, di 48 anni.

I FAMILIARI DELLE VITTIME: "UNA PENA TROPPO LIEVE"
Il giudizio dei familiari degli otto ciclisti è unanime: "una pena troppo lieve"
quella inflitta a Chafik El Ketani. «La pena ci sorprende – ha detto Gennaro Perri, che quel giorno si salvò per miracolo e nello scontro ha perso il fratello, Rosario – anche perchè lui, intanto, sta comodamente a casa sua e va anche su facebook mentre ha travolto la vita di tante famiglie. Per quello che ha fatto è una pena lieve, un anno per ognuna delle vittime».

I familiari di un’altra vittima, Vinicio Puppin, si limitano a dirsi «delusi» preferendo evitare di fare altri commenti. Fabio Davoli, avvocato, anche lui nel gruppo dei ciclisti travolti ed uscito illeso, ha attribuito la responsabilità di una sentenza «che non condivido ma che rispetto, al legislatore che ha lasciato una lacuna per questo grave tipo di reato. Il giudice ha deciso sicuramente in base alla sua coscienza. Per quanto mi riguarda ritengo che vi fossero gli elementi per il massimo della pena».

Insoddisfatti anche i legali di parte civile. «Dobbiamo leggere le motivazioni – ha detto l’avv. Francesco Pagliuso - per capire perchè ci siano state le attenuanti generiche». Un punto, quest’ultimo, ripreso dall’avv. Francesco Caglioti: “ciò che stride è l’equivalenza delle attenuanti generiche rispetto ad aggravanti specifiche. Anche gli amici dell’imputato hanno riferito che era solito mettersi alla guida sotto l'effetto di sostanze stupefacenti».

giovedì 27 ottobre 2011

Roma, catturato in una clinica il boss americano Rosario Gambino


ROMA - Gli agenti della Squadra Mobile della Questura di Roma hanno catturato il noto boss della mafia italo-americana Rosario Gambino. Gambino, 69 anni, è stato sorpreso all'interno di una clinica della Capitale, dove aveva chiesto alcuni accertamenti per problemi clinici.


A suo carico pendeva un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Corte di Appello di Palermo in seguito alla sua recente scarcerazione dall'Istituto di Prevenzione di Parma.

Gambino è stato condannato nel 1983 a venti anni di reclusione per associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di sostanze stupefacenti.

Nell'ambito dell'operazione Pizza Connection Gambino fu condannato a 45 anni di detenzione negli Stati Uniti per un ingente traffico di eroina con un giro di affari annuo pari a circa 600 milioni di dollari.
Nel 1985 nell'ambito di un'indagine condotta dal giudice Giovanni Falcone, Rosario Gambino fu giudicato in contumacia.

Droga, sequestrati 37kg di cocaina al porto di Gioia Tauro

Sempre secondo gli inquirenti, il quantitativo di cocaina sequestrato, tagliato almeno 3-4 volte, avrebbe raggiunto, alla vendita, un prezzo medio di cinquanta/sessanta euro al grammo


Un carico di circa 37 Kg di cocaina purissima è stato rinvenuto all'interno di un container in transito nel porto calabrese e sbarcato dalla nave mercantile Msc Santiago, ed è stato sequestrato a Gioia Tauro dai finanzieri del G.I.C.O. del Nucleo di Polizia Tributaria di Reggio Calabria, unitamente ai Funzionari dell’Agenzia delle Dogane di Gioia Tauro ed ai Finanzieri del Gruppo della Guardia di Finanza della città calabrese.


L’operazione, condotta dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria in coordinamento con la Procura della Repubblica di Palmi, secondo quanto reso noto, ha consentito, dopo una serie di incroci documentali e meticolosi controlli eseguiti su numerosi container in transito nel porto di Gioia Tauro, anche attraverso l’impiego di apparecchiature scanner in uso alla Dogana, di individuare il carico di droga, occultato nel contenitore imbarcato nel porto ecuadoregno di Guayaquil. La merce, destinata al mercato iberico, avrebbe fruttato, secondo gli investigatori, con la vendita al dettaglio, circa 9 milioni di euro. Sempre secondo gli inquirenti, il quantitativo di cocaina sequestrato, tagliato almeno 3-4 volte, avrebbe raggiunto, alla vendita, un prezzo medio di cinquanta/sessanta euro al grammo.

I sospetti che hanno portato al sequestro sono sorti, in particolare, dalla comparazione tra la documentazione doganale e le caratteristiche fisiche del carico, costituito da sacchi di caffè, destinato ad una azienda iberica. Lo stupefacente, occultato all’interno di 2 borsoni, era costituto da 34 panetti di droga per un peso complessivo di 36,950 kg di cocaina.

Borsellino, ordine di scarcerazione per sette ergastolani

Lasceranno il carcere sei degli otto condannati all'ergastolo per la strage di via D'Amelio a cui è stata sospesa l'esecuzione della pena dai giudici di Catania


CATANIA. Quando 17 anni fa entrò in carcere con l'accusa di avere fatto parte del commando che trucidò il giudice Paolo Borsellino c'erano ancora le lire. Il pesante sospetto che la sua condanna all'ergastolo sia frutto di un incredibile errore giudiziario gli ha consentito oggi di tornare un uomo libero. E la prima sensazione che ha avuto lasciando la cella di Voghera è stata di confusione. Spaesato si è trovato un Paese cambiato: pure la moneta non è più la stessa. "Come pago? - ha detto Gaetano Murana, finito in manette da incensurato, al suo avvocato - Io con gli euro non sono pratico. Ne ho maneggiati pochi". Insieme a Murana sono tornati liberi altri due detenuti per l'attentato di via D'Amelio, anche loro ergastolani. E altri quattro, domani, potrebbero seguire la stessa sorte, dopo che la corte d'appello di Catania, accogliendo la richiesta del pg di Caltanissetta, ha sospeso per tutti l'esecuzione delle pene. Tra loro c'é anche il falso pentito Vincenzo Scarantino, il "picciotto" della Guadagna che si è inventato una verità sulla strage suggellata da due sentenze diventate definitive nonostante i dubbi e le ritrattazioni di un testimone chiave palesemente poco credibile. Resta in carcere Gaetano Scotto, l'uomo dei misteri dell'eccidio di via D'Amelio. Legato ai Servizi, dicono i pentiti, anche lui condannato all'ergastolo ingiustamente per le accuse di Scarantino, deve scontare due condanne per altri reati: la sospensione della pena, dunque, a lui non si applica.

La decisione della corte d'Appello è arrivata a sole due settimane dalla richiesta di revisione e di stop delle pene del pg Roberto Scarpinato che ha rimesso in discussione sentenze definitive sulla strage dopo le rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza. L'ex uomo dei Graviano, autoaccusatosi dell'eccidio, ha riscritto la storia dell'attentato, scagionato gli innocenti condannati e accusato i veri responsabili. I giudici di Catania hanno fatto in fretta, quasi a voler rimediare, almeno in parte, agli anni di carcere ingiusti sofferti da undici persone, otto delle quali fino ad oggi detenute. Per la Corte la revisione è inammissibile, ma la sospensione dell'esecuzione della pena è sacrosanta, Una decisione solo apparentemente contraddittoria già suggerita dal pg che solo proponendo la celebrazione di un nuovo processo, però, poteva chiedere la liberazione dei carcerati.

"L'istanza di revisione fondata sull'asserita responsabilità di un terzo è inammissibile qualora la responsabilità non sia stata accertata giudizialmente in modo definitivo", scrivono i giudici di Catania. In sostanza, adeguandosi alla giurisprudenza in materia, la Corte ha sostenuto che le nuove rivelazioni di Spatuzza non bastano da sole a chiedere la revisione di quei verdetti di colpevolezza. Serve infatti che le responsabilità alternative - dell'ex killer dei Graviano innanzitutto e poi di quelli che lo stesso pentito tira in ballo - vengano accertate con sentenza passata in giudicato: solo allora in presenza di due verdetti definitivi contrapposti si potranno rifare i processi. Ma il ragionamento, non impedisce la sospensione dell'esecuzione della pena per gli otto ingiustamente condannati che altrimenti dovrebbero stare in carcere fino alla nuova sentenza definitiva che punisca i veri colpevoli. Per loro - spiega la corte - "appare verosimile l'accoglimento (futuro n.d.r.) della domanda di revisione e la conseguente revoca della condanna".

Una previsione che è anche un giudizio sull'attendibilità di Spatuzza. La sua verità, paiono dire i giudici, reggerà a nuovi processi, porterà a nuove condanne e spazzerà via i verdetti errati. Nel frattempo, però, è giusto che chi in carcere ci sta per errore - determinato dalla fretta di chiudere le indagini su una delle pagine più oscure della Storia della mafia o frutto di un clamoroso depistaggio - torni libero.

Palermo, polemica sul quadro religioso tolto a scuola

La decisione della dirigente scolastica di evitare simboli, preghiere e festeggiamenti di ricorrenze cristiane, per garantire parità di diritti tra tutti gli alunni, scatena un vespaio di reazioni. Ma la direttrice tiene duro

PALERMO. La decisione della dirigente scolastica di evitare simboli religiosi, preghiere e festeggiamenti di ricorrenze cristiane, per garantire parità di diritti tra tutti gli alunni, scatena un vespaio di reazioni e polemiche. Il caso scoppia nel plesso Andrea Sole di Borgo Molara, dove molti genitori hanno firmato una lettera in cui chiedono alla nuova dirigente Melchiorra Greco di fare un passo indietro, riposizionare il quadro della Madonna nell'atrio, consentire che i propri figli «mantengano la loro identità religiosa e culturale». Ma la direttrice tiene duro.

Una decisione indotta dalla presenza di un'alunna musulmana, la cui madre ha chiesto che non ricevesse insegnamenti cattolici. Ma tra i presidi le soluzioni adottate sono le più varie. Rosa Maria Rizzo, non credente, dirige la Ferrara a piazza Magione e la Valverde, che hanno il 25% di alunni stranieri, e ha la reggenza della Madre Teresa di Calcutta, in via Maqueda, col 40-45% di stranieri. «L'insegnante di religione progetta le attività col consiglio di classe, dal precetto pasquale al presepe - spiega -. La scuola non chiude per la messa, ma si organizzano attività alternative per gli alunni non cattolici. Vietare le immagini religiose non ha senso, fanno parte della cultura italiana. E' sbagliato negare le diversità». E Pia Blandano, da 18 anni preside dell'Antonio Ugo, alla Zisa, con un 12% di stranieri, ha sempre dato agli insegnanti libertà di decidere se far recitare le preghiere. «I simboli religiosi ci sono, prepariamo il presepe con una connotazione sociale - spiega -. L'associazione Mowgly, che ospitiamo, festeggia la fine del Ramadan. L'unica cosa che ho vietato è la celebrazione della messa a Natale e a Pasqua».

In molti ieri hanno reagito contro la decisione della dirigente dell'Andrea Sole. L'assessore comunale alla Cultura, Giampiero Cannella, sostiene che «l'integrazione non si ottiene così. Chi decide di vivere in Europa sa di incontrare una cultura e una identità precisa, così come farebbe una famiglia cristiana che decidesse di trasferirsi in Medio Oriente». Nunzio Moschetti, consigliere Pdl, annuncia una lettera al sindaco Diego Cammarata e all'assessore Grisafi, perché «intervengano per far revocare questi provvedimenti, ritenendo che si tratta di una decisione fuori luogo e sproporzionata».

Di «deriva laicista» parla il coordinatore regionale di Forza Nuova, Giuseppe Provenzale. In difesa della dirigente, ma chiedendole di fare un passo indietro, interviene l'assessore regionale alla Pubblica istruzione, Mario Centorrino: «La rimozione di simboli religiosi non è difesa della multireligiosità, ma neppure un atto compiuto contro i valori religiosi. Sono sicuro, apprezzando e conoscendo l'azione della preside, che qualunque simbolo religioso nei prossimi giorni troverà nella sua scuola opportuna collocazione». Mentre il consigliere comunale di Un'altra storia, Antonella Monastra, ribadisce che «la scuola è un'istituzione dello Stato e deve dare spazio a tutti. I simboli devono essere di tutti o di nessuno. Da mamma non credente, che non ha battezzato i figli, ho mandato i miei figli alla scuola valdese, perché sapevo che in quella statale avrebbero trovato preghiere e crocifissi».

ALESSANDRA TURRISI

Tangenti fotovoltaico, indagato Bonomo

Il coordinatore del del partito Alleati per la Sicilia, sotto inchiesta per concussione dalla Procura di Palermo. Il suo nome era emerso nell'inchiesta in cui era stato arrestato a marzo scorso, il deputato del Pd Gaspare Vitrano fermato mentre intascava una mazzetta di 10 mila euro da un imprenditore



PALERMO. Il deputato regionale Mario Bonomo, coordinatore del partito Alleati per la Sicilia, è indagato per concussione dalla Procura di Palermo. Il suo nome era emerso nell'inchiesta in cui era stato arrestato a marzo scorso, il deputato del Pd Gaspare Vitrano fermato mentre intascava una mazzetta di 10mila euro da un imprenditore del fotovoltaico. In carcere era finito anche Piergiorgio Ingrassia, l'ingegnere che avrebbe fatto da mediatore e che stamattina ha patteggiato la pena di due anni. Il nome di Bonomo è stato fatto proprio da Ingrassia che, dopo l'arresto, ha iniziato a collaborare con gli inquirenti. Secondo i pm, Gaspare Vitrano, Mario Bonomo e Piergiorgio Ingrassia erano soci nella Green srl, una impresa del settore fotovoltaico con sede a Palermo, che avrebbe ottenuto dalla Regione siciliana, grazie anche all'interessamento dei deputati, le licenze per la costruzione di due impianti fotovoltaici a Carlentini, nel Siracusano.

Vitrano e Bonomo la controllerebbero attraverso alcuni prestanome. I due deputati detengono il 40% ciascuno, mentre l'ingegnere ha il restante 20%. Altre due società del fotovoltaico sono sotto la lente d'ingrandimento degli inquirenti: l'Enerplus 2010, gemella della Enerplus, società a responsabilità limitata che, grazie "all'interessamento di Vitrano", come ha detto Ingrassia, avrebbero avuto in poco tempo le concessioni. Le due società, che avevano realizzato degli impianti nel palermitano, avevano aumentato subito il loro valore tanto da essere vendute a una società spagnola per oltre sei milioni di euro. I fondi sarebbero poi stati versati in due conti in Svizzera: uno di Ingrassia e l'altro di Marco Sammatrice, nipote di Bonomo e socio della Green srl. I pm, che hanno fatto una rogatoria in Svizzera, attendono l'esito di questi accertamenti.

Mafia, archiviata l'inchiesta su ex sindaco di Racalmuto

Il gip del tribunale di Palermo ha accolto la richiesta avanzata lo scorso 6 settembre dal procuratore Vittorio Teresi e dal sostituto Fernando Asaro della Dda, nei confronti di Salvatore Petrotto, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa



PALERMO. Il gip del tribunale di Palermo ha accolto la richiesta di archiviazione, avanzata lo scorso 6 settembre dal procuratore Vittorio Teresi e dal sostituto Fernando Asaro della Dda, nei confronti dell'ex sindaco di Racalmuto Salvatore Petrotto, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. L'inchiesta su Petrotto, che lo portò anche per "senso di correttezza istituzionale" a dimettersi dalla carica di sindaco, era scattata in seguito alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Maurizio e Beniamino ed Ignazio Gagliardo. Petrotto è stato difeso dagli avvocati Ignazio Valenza e Giovanni Castronovo.

"Ho pagato il prezzo che si paga dalle nostre parti. Ma riesco ancora ad assaporare il sapore dell'onestà. Ho avuto sempre fiducia nella magistratura e, al di là delle calunnie, la verità emerge sempre". Lo ha detto l'ex sindaco di Racalmuto, Salvatore Petrotto, commentando l'archiviazione dell'inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa nei suoi confronti. "Non mi sono mai pentito d'essermi dimesso - ha aggiunto - l'ho fatto per rispetto dei magistrati che stavano indagando sul mio conto e dei miei concittadini che mi hanno eletto tre volte sindaco". Circa su un suo eventuale ritorno in politica, visto che dopo l'avviso di garanzia aveva dichiarato di non volerne più sapere, Petrotto ha aggiunto: "C'é un'ispezione di una commissione prefettizia in corso. Spero che riesca a fare piazza pulita fra i calunniatori di professione e i burocrati in malafede, che sono comunque una ristretta minoranza. Fino a quando il livello politico e burocratico rimarrà quello attuale, non ho nessuna intenzione di rimettere piede al Comune di Racalmuto".

Mafia, beni sequestrati a un boss di Ficarazzi

Il provvedimento fa seguito all'operazione 'Iron Man', che il 5 agosto 2010 portò all'esecuzione di otto provvedimenti cautelari decapitando il vertice delle cosche. Nel mirino dei carabinieri due aziende edilizie

PALERMO. I carabinieri di Palermo hanno eseguito un decreto di sequestro beni per un valore complessivo pari a 8 milioni di euro, emesso dalla sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, nei confronti del capo della famiglia di Ficarazzi, detenuto con l'accusa di associazione mafiosa.

Il provvedimento patrimoniale fa seguito all'operazione antimafia 'Iron Man', che il 5 agosto 2010 portò all'esecuzione di otto provvedimenti cautelari decapitando il vertice delle cosche mafiose di Ficarazzi. Tra i beni sequestrati, due aziende operanti nel settore dell'edilizia, la cui attività veniva imposta agli imprenditori locali a prezzi maggiorati. Le stesse imprese emettevano anche fatture a favore degli imprenditori estorti per dissimulare il pagamento del pizzo.

Sequestrati beni a Giovanni Trapani, 55 anni, ritenuto a capo della famiglia mafiosa di Ficarazzi


PALERMO. I beni sequestrati dai carabinieri di Palermo sono intestati a Giovanni Trapani, 55 anni, ritenuto a capo della famiglia mafiosa di Ficarazzi, nell'hinterland di Palermo, attualmente detenuto per associazione mafiosa. Le misure sono state emesse dal Tribunale di Palermo su richiesta della Dda, che oltre all'associazione mafiosa contesta a Trapani i reati di estorsione (due aziende a lui riconducibili avevano adottato un sistema di "fatturazione" del pizzo), danneggiamento e traffico di droga. L'operazione parte da indagini avviate dagli uomini dell'Arma di Bagheria (PA) a Ficarazzi, a partire dal alcuni attentati incendiari a danno di imprenditori, avvenuti con identiche modalità: copertoni imbevuti di benzina e lasciati agli ingressi o dentro i locali delle ditte.

Trapani doveva vedersela con l'aspirante boss Atanasio Alcamo, 34 anni, che aveva lanciato l'offensiva a Ficarazzi per assumerne il controllo del territorio. Gli arresti del 5 agosto scorso nell'operazione "Irion Man" avevano interrotto lo scontro e la scia delle intimidazioni che in un caso avevano condotto anche al violento pestaggio di un imprenditore, riottoso all'imposizione del racket. In una conversazione tra picciotti, intercettata dai carabinieri, gli estorsori dicevano che "chi non paga scippa legnate" (riceve botte).

Gli investimenti dell'organizzazione criminale si sono incentrati nel settore dell'edilizia, attraverso la raccolta del pizzo, ma anche con l'imposizione di imprese mafiose nello svolgimento di lavori, a prezzi maggiorati. Due le aziende maggiormente coinvolte: la Pama Costruzioni di Marianna Pace, 39 anni, nipote di Trapani; e la Triassi srl, con sede a Ribera (AG), specializzata nel movimento terra, di cui risultano titolari Silvana Trapani, 50 anni, e Mariangela Manna, di 29, rispettivamente sorella e nipote del boss. Le aziende servivano anche per regolarizzare il pizzo sul piano fiscale. I versamenti periodici - concentrati soprattutto a Natale e Pasqua - venivano mimetizzati come pagamenti per forniture e opere in subappalto. A Ficarazzi l'estorsore rilasciava la "fattura".

L'impero economico di Trapani sosteneva anche il benessere del mandamento mafioso di Bagheria, cui risponde la famiglia di Ficarazzi. Appaiono determinanti gli stretti rapporti con Giuseppe Scaduto detto "Pinuzzu", nel super-carcere di Cuneo, in regime del 41 bis. Scaduto raccoglieva persino le lamentele degli imprenditori che si sentivano vessati dalle esose richieste avanzate dalla famiglia mafiosa di Ficarazzi.

Ciao Marco, migliaia in lacrime «Ora sei tu sul podio più alto»

A Coriano i funerali di Simoncelli. Valentino Rossi fa rombare la moto di Sic in chiesa. Maxischermi in piazza e a Misano. Musica di Vasco

ROMA - Migliaia di persone hanno dato oggi l'ultimo addio a Marco Simoncelli. Scortato dagli amici di Coriano, che lo hanno accompagnato e portato a braccia, il feretro di Sic - morto domenica scorsa a 24 anni in un terribile incidente nel Gp di Sepang, in Malesia - è arrivato poco prima delle 15 nella chiesa del paese vicino a Rimini per i funerali. Ad accompagnarlo nella scalinata una nuvola di palloncini rossi con il suo numero di gara, il 58.


Il feretro ha percorso il breve tragitto tra il teatro comunale, dove era stata allestita la camera ardente, e la chiesa in mezzo a due ali di folla, che lo hanno salutato con un lunghissimo e fragoroso applauso. In chiesa c'erano già i familiari di Simoncelli, il padre Paolo, la mamma Rossella, la sorella Martina e il nonno. Anche per loro, come per la fidanzata Kate non sono mancati applausi di conforto. Prestissimo, attorno alle 14, era arrivato Valentino Rossi, seguito da moltissimi big del mondo dei motori: Mattia Pasini, Jorge Lorenzo, Randy De Puniet, da Loris Capirossi, Sete Gibernau, Fausto Gresini.

«La sera prima dell'ultima gara hai detto che desideravi vincere il Gran Premio, perché lì sul podio ti avrebbero visto meglio tutti. A noi ora addolora non riuscire a vederti, ma ci dà pace e tanta gioia la speranza di saperci inquadrati da te dal podio più alto che ci sia». È questo il passaggio conclusivo dell'omelia del vescovo di Rimini, Francesco Lambiasi, durante il funerale di Simoncelli.

«Lasciaci allora dire un'ultima semplicissima parola: addio Marco», ha aggiunto il vescovo. «È una parola - ha spiegato - scomposta dal dolore, ricomposta dalla speranza, a Dio». Terminato il discorso, la gente in chiesa è aperta in un grande applauso: uno dei primi a rispondere alle parole del vescovo, battendo le mani, il padre del pilota, Paolo Simoncelli. «So di condividere con voi, spero con tutti, questa incrollabile certezza. Quando un nostro amico, come Marco, non vive più, in realtà vive di più», ha detto ancora il vescovo.


 In chiesa solo familiari, amici e piloti. Ai due lati dell'altare maggiore le due moto, la Gilera campione del mondo 250 e l'Honda con la quale ha corso in MotoGp, a cui Supersic era più legato. Oltre a Valentino Rossi, amico fraterno nei banchi con i familiari, c'è praticamente tutto il mondo del motociclismo. Fuori la gente assiste dai maxischermi allestiti in piazza e nel vicino circuito di Misano Adriatico. Al termine della messa è stata suonata "Siamo solo noi", di Vasco Rossi, una delle canzoni preferite di Simoncelli.

Come ultimo saluto all'amico, Valentino Rossi ha acceso e fatto rombare in chiesa, dietro al feretro, la Honda della Motogp di Simoncelli. Rossi ha abbracciato stretto il padre di Supersic, Paolo. Applausi della gente hanno sottolineato il gesto del campione di Tavullia, che poi ha spinto a mano la moto fuori dalla chiesa.

Più di mille persone si sono ritrovate nell'autodromo Santamonica di Misano per assistere da un maxischermo ai funerali di Simoncelli. La grande maggioranza è arrivata in motocicletta, grande passione da sempre delle gente di Romagna. Forse anche un modo per sentirsi più vicini a SuperSic. L'afflusso al circuito, che ha aperto i cancelli alle 13, è stato comunque, almeno per i primi momenti della cerimonia, largamente inferiore alle previsioni. È probabile che molti abbiano rinunciato temendo blocchi di traffico e che altri abbiano tentato comunque di raggiungere la piccola chiesa di Coriano.

«Lui aveva solo pregi, era una persona perfetta. E le persone troppo perfette non possono vivere con noi comuni mortali». Sono le commosse parole che Kate, la fidanzata di Simoncelli, ha detto dopo il funerale del pilota, davanti al feretro posto dinnanzi alla chiesa. Poi ha abbracciato la madre di Sic.

A Coriano, il centro alle porte di Rimini dove Simoncelli è cresciuto, a salutarlo per l'ultima volta ci sono molti tifosi del pilota. Tanti hanno affrontato anche ore e ore di treno pur di essere presenti alla cerimonia. «Era uno di noi - ha detto una fan - come fosse un amico».

Ieri oltre ventimila persone hanno reso omaggio ieri al feretro di Simoncelli, in una Coriano invasa da tifosi, amici e appassionati.


«Wiva Marco Simoncelli!». Inizia così il ricordo di Sic che Vasco Rossi ha postato su Facebook. «Marco Simoncelli era un ragazzo simpatico e pieno di entusiasmo che per una maledettissima disgrazia ha perso la vita - scrive il cantante -. Correre in moto era la sua passione ed ha tenuto "aperto" fino alla fine. Onore a lui che continuerà a vivere nei nostri cuori e condoglianze alla sua famiglia». La presenza di Vasco Rossi ai funerali è ancora incerta, ma la musica della sua "Siamo solo noi", la canzone preferita del pilota accompagnerà l'uscita del feretro dalla chiesa di Coriano.

Sette arresti a Monopoli GdF sgomina banda trafficanti


MONOPOLI (BARI) – Sette ordinanze di custodia cautelare nei confronti di presunti componenti di una associazione per delinquere finalizzata al traffico e allo spaccio di stupefacenti sono state eseguite questa mattina da militari della guardia di finanza della compagnia di Monopoli. Si tratta di un gruppo criminale che, secondo l’accusa, riforniva di cocaina, eroina, marijuana e hascisc una vasta area comprendente Bari ed alcuni centri della provincia. I clienti erano meticolosamente censiti in elenchi che sono stati sequestrati dagli investigatori. Parte del ricavato dello spaccio veniva destinato all’assistenza dei famigliari dei componenti del gruppo finiti in carcere.


Gli arresti, frutto di un’indagine partita due anni fa, sono stati eseguiti sulla base di ordinanze emesse dal gip di Bari su richiesta dalla procura. A capo dell’organizzazione un barese, residente a Loseto, Giulio Cassano, di 31 anni, che è tra i sette arrestati. Altre cinque persone, tra cui due donne, sono indagate. Secondo l’accusa, era Cassano, che aveva fatto della sua casa il quartier generale dell’organizzazione a rifornire i suoi pusher della droga. Quando arrivava la merce, i clienti venivano contattati attraverso sms in gergo del tipo «il mangiare è buono».

Attraverso intercettazioni, arresti e sequestri, gli investigatori hanno ricostruito la struttura piramidale dell’organizzazione che, tra l’altro, provvedeva a fornire assistenza, anche legale, alle famiglie dei pusher arrestati. L'organizzazione disponeva di una vera e propria mappatura dei clienti e il capo forniva agli spacciatori i telefonini dotati di lunghi elenchi di tossici da contattare via sms. In questo modo si evitava il rischio di dovere cercare volta per volta nuovi acquirenti, potendo invece disporre di un «portafoglio clienti».

Nelle intercettazioni le dosi diventavano a volte «magliette» (eroina) o «giubbotti bianchi» (cocaina), oppure Malboro (eroina) e Merit (cocaina).

TUTTI GLI ARRESTATI
Fedelissimi del capo Sebastiano Ratto, e Nicola Del Re, entrambi di 31 anni, che provvedevano non solo a fornire le dosi da spacciare ai pusher, ma anche i soldi per il sostentamento delle mogli di chi finiva in carcere. Gli altri arrestati sono Vincenzo Boccuzzi, di 32 anni, Saverio Frittelli, di 30, Michele Lamacchia di 28, e Giovanni Sblendorio, di 30. Le zone interessate dall’attività illecita erano i quartieri Loseto, Carbonara e Ceglie del Campo di Bari, e alcuni centri del sud-est barese, come Triggiano, Mola di Bari, Monopoli e altri comuni vicini.

Testimone di giustizia protesta davanti al Tribunale di Bari


BARI – Un testimone di giustizia, Francesco Di Palo, che una ventina di giorni fa ha chiesto di uscire dal programma di protezione perchè il Viminale non gli paga più neppure l’affitto della casa nella località protetta in cui vive, ha protestato stamani davanti al palazzo di giustizia di via Nazariantz, a Bari.


Con un megafono l’uomo ha criticato il procuratore di Bari, Antonio Laudati, «perchè – ha detto – non risponde alle decine di mail che gli ho mandato, e con le quali ho denunciato l'abbandono e lo stato di indigenza della mia famiglia». Ha chiesto di parlare «subito, qui» con il sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano, e ha giurato che «non entrerà mai in un’aula di giustizia per confermare quanto ha detto negli ultimi quattro anni ai pm di Bari e Catanzaro sul presunto intreccio tra mafia, politica e forze di polizia ad Altamura», nel barese. Dalle sue dichiarazioni – ha ricordato Di Palo - sono nate alcune inchieste sulla sanità pugliese che hanno poi portato i magistrati baresi a chiedere l’arresto del senatore Alberto Tedesco (ex Pd), ex assessore pugliese alla sanità.

«Oggi – ha detto Di Palo – voglio solo far sapere che fine fa chi si schiera dalla parte dello Stato: i miei tre figli non vanno a scuola perchè non ho soldi, e non ho neppure 200 euro per pagare loro le spese per il dentista». L’uomo ha anche spiegato di essere venuto a Bari, dalla località protetta, senza pagare il biglietto del treno.

Di Palo era il titolare della 'Venere srl' di Matera, società che produceva vasche idromassaggio e dichiarata fallita un anno prima che l’imprenditore decidesse di denunciare alla magistratura barese i soprusi subiti dalla mala altamurana. A causa delle ristrettezze economiche, i figli dell’ex imprenditore sono tornati ad Altamura, senza protezione, cosa che ha fatto anche lui da ieri. «A Pasqua – ha spiegato ai cronisti – ci hanno lasciato con tre euro, un maresciallo dei carabinieri ci ha dato 20 euro per farci fare la spesa: capite, non avevamo i soldi per mangiare!». L’imprenditore ha inoltre spiegato che tre-quattro mesi fa la proprietaria dell’appartamento affittato dal ministero dell’Interno lo ha pregato di andar via perchè il Viminale da un anno non pagava piu 'l'affitto.

«Ero disposto a tutto per la giustizia, ma sono stato buttato al vento come un pezzo di carta. Protesterò – ha concluso – finchè non arriva Mantovano, lui deve dire a questa procura che i testimoni di giustizia sono trattati come pezze per pulire le scarpe».

mercoledì 26 ottobre 2011

Commissione antimafia Roma in mano alle cosche

Il prefetto Pecoraro in Commissione antimafia analizza l’espansione della criminalità organizzata. Roma assediata da ’ndrangheta ma anche da Cosa nostra, camorra e sacra corona. Operative nella Capitale 24 ’ndrine


A Roma capitale operano 24 'ndrine, 16 clan di camorra, 12 famiglie di cosa nostra e due nuclei della sacra corona unità pugliese. Una presenza di boss e picciotti discreta: niente omicidi, niente faide sanguinarie, a Roma e nel suo hinterland i padrini pensano a fare business. Il quadro emerge dalla relazione presentata dal prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, davanti alla Commissione parlamentare antimafia. I capi delle organizzazioni criminali che si sono trapiantate nel Lazio, sono quelle dei Morabito, degli Bruzzaniti, dei Palamara, dei Sergi-Marando, degli Ierinò e degli Alvaro. Il loro obiettivo è di intossicare l'economia legale, comprare con i proventi del narcotraffico interi segmenti produttivi e per esercitare la loro pressione sul territorio sfruttano la collaborazione di professionisti insospettabili: colletti bianchi invisibili alla giustizia che entrano, chiavi in mano, nei gangli vitali dell'economia romana. Roma dunque, come sottolineato dal prefetto Pecoraro, «è uno dei luoghi privilegiati, insieme a Milano, per gli investimenti mafiosi». Un terreno fertile in cui, anche grazie all'accentuarsi della crisi economica, della mancanza di liquidità delle imprese e del sistema dei subappalti incontrollati, la criminalità organizzata ha gioco facile e si avvantaggia «espandendo il suo potere economico».


A Roma la criminalità organizzata calabrese ha scelto di mettere sul piatto i propri ingenti capitali e, senza urtare la suscettibilità dei boss siciliani e campani o stringendo alleanze con la tradizionale criminalità laziale, acquisire il controllo di ben determinati settori economici e commerciali della capitale: «Soprattutto a Roma, snodo essenziale di affari leciti ed illeciti - spiega il prefetto Pecoraro - le organizzazioni criminali acquisiscono, anche a prezzi fuori mercato, immobili, società e attività commerciali nelle quali impiegano i capitali illecitamente acquisiti. A riprova di tale tesi, basta considerare i numerosi sequestri di immobili, di esercizi commerciali di rilievo, di attività che hanno interessato - anche quest'anno - il territorio del Lazio e quello di Roma». Nella Capitale dunque, i boss immettono grandi somme di denaro nei circuiti dell'economia legale, riciclano i proventi delle loro attività illecite e, giorno dopo giorno, conquistano nuovi spazi di manovra. Una situazione da allarme rosso, sottolineata dal prefetto Pecoraro durante la sua audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia. «Gli investimenti effettuati, attesa la sproporzione rispetto alla situazione redditoria e alle stesse capacità imprenditoriali dimostrate - spiega il rappresentante dell'Ufficio territoriale di governo romano - costituiscono un evidente elemento indiziario di operazioni di riciclaggio di illeciti guadagni provenienti dalla cosca di appartenenza, che ha necessità di reinvestire tali capitali in attività lecite che ne consentano l'immissione ed il reimpiego nei circuiti dell'economia legale». «In sintesi dunque - conclude il prefetto Pecoraro - la potenziale minaccia dell'infiltrazione delle organizzazioni criminali nel territorio della Capitale e provincia, che desta maggiore preoccupazione e impone particolare attenzione, è proprio quella diretta nei confronti del tessuto economico. Detti sodalizi esprimono efficaci dinamiche di accumulazione finanziaria di patrimoni illeciti cui conseguono sempre più sofisticate capacità di riciclaggio e di reimpiego del denaro nell'economia legale. Sembra emergere, quindi, un'imprenditorialità mafiosa costituita da gruppi di imprenditori, professionisti ed altre figure che, in cambio di favori o di altre utilità, cura gli interessi delle cosche. Questi ultimi soggetti, spesso di basso profilo criminale per gli organi investigativi, risultano comunque essere personaggi di non trascurabile spessore per le rispettive organizzazioni, attese le loro specifiche competenze e capacità individuali nella gestione economico-finanziaria».

Abusi sulla figlia, chiesti 8 anni per un docente dell'Unical

Il legale del docente chiede l'assoluzione mentre l'accusa chiede la conferma della pena inflitta in primo grado, di otto anni e mezzo di reclusione


Ha preso il via ieri dopo l’impugnazione della sentenza di 1 grado, il processo di 2 grado alla procura generale di Reggio Calabria per un docente dell'Unical, P.C., che tra l'altro pare facesse parte di un'associazione contro la violenza alle donne e che invece è accusato violentato addirittura la figlia minorenne. L’accusa, davanti ai giudici della Corte di Appello di Reggio, ha chiesto la conferma della pena di primo grado, inflittagli il 10 marzo del 2009, pari a otto anni e mezzo di reclusione, mentre la difesa del docente ha chiesto la sua assoluzione. «La vittima - ha ribadito ieri il legale del docente - si è inventata tutto». I fatti contestati vanno dal 2002 al 2005 e gli abusi si sarebbero consumati tra Reggio Calabria e Rende, dove la giovane vittima (ora quindicenne) abita.


Il tutto, avvenuto in assenza della moglie, dal quale il docente era separato. La piccola sarebbe stata spogliata, baciata e accarezzata insistentemente. Attenzioni tutt'altro che paterne, raccontate dalla stessa vittima alla madre dopo aver visto in televisione papa Giovanni Paolo II, parlare dei bambini vittime di abusi. Il docente venne arrestato nel maggio del 2005, mentre era in un'aula dell'Università della Calabria per tenere lezione.

Dalla procura di Cosenza, gli atti vennero poi trasferiti per competenza alla procura di Reggio, città dove si era verificato il primo dei presunti abusi sessuali e nel corso delle indagini si è svolto anche l'incidente probatorio, con la piccola vittima che ha ripercorso con l'ausilio di psichiatri ed esperti, tutti gli abusi, indicando come responsabile il genitore, che in primo grado era stato anche interdetto dai pubblici uffici e dalla patria potestà.

Mafia, arrestato Giovanni Arena

Inserito nell'elenco dei 30 latitanti più pericolosi d'Italia, era ricercato dal 1993 quando sfuggì all' operazione Orsa maggiore contro la cosca Santapaola


CATANIA. Il latitante Giovanni Arena, 56 anni, ritenuto esponente di Cosa nostra e a capo dell'omonima famiglia mafiosa, è stato arrestato da agenti della squadra mobile di Catania. Inserito nell'elenco dei 30 latitanti più pericolosi d'Italia, era latitante dal 1993 quando sfuggì all' operazione Orsa maggiore contro la cosca Santapaola. In contumacia è stato condannato all'ergastolo per un omicidio commesso nel 1989. Era ricercato anche per associazione mafiosa, detenzione di armi e traffico di droga.

Arena è stato catturato durante un blitz compiuto da agenti della squadra mobile della Questura di Catania nel popoloso rione Librino del capoluogo etneo, che era il suo mandamento di riferimento, confermando la tesi che i boss non si allontanano molto dalla zona che controllano. Secondo quanto si è appreso, era da solo.

Giovanni Arena era irreperibile dal dicembre 1993 quando sfuggi al blitz 'Orsa Maggiore' contro Cosa nostra di Catania, un' operazione ritenuta uno spartiacque nella lotta alla mafia nella provincia etnea coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia della locale Procura. Ritenuto esponente di spicco dalla cosca Santapaola, e legatissimo alla "famiglia", è stato accusato di avere avuto un ruolo nell'attentato incendiario che il 18 gennaio 1990 distrusse la sede della Standa, allora di proprietà del gruppo Berlusconi, nella centrale via Etnea a Catania, lo stesso giorno dell' arrivo della commissione antimafia in città. Da quell'accusa Arena è stato prosciolto. Il latitante è stato condannato all'ergastolo il 28 maggio 2003 nel processo Orione 5, per l'uccisione di Maurizio Romeo, esponente della cosca rivale dei Ferrera, noti come 'Cavaduzzu', avvenuto ad Aci Castello il 31 ottobre 1989.

A delinearne la pericolosità, secondo gli investigatori, sarebbe la sua lunga latitanza: 18 anni trascorsi ben protetto dalla 'famiglia', segno, sostengono, del suo inserimento a alti livelli nell'organizzazione. La sua famiglia, secondo l'accusa, avrebbe adesso una gestione 'autonoma', con il controllo del mercato dello spaccio di stupefacenti nel rione Librino, e in particolare del famigerato 'Palazzo di cemento' dello stesso quartiere che produrre un giro d'affari illecito da fatturati che la polizia ha più volte definiti 'vertiginosi'.

Arresto di Arena, una famiglia dedita alla criminalità

CATANIA. Una 'famiglia' interamente dedita alla criminalità in tutti i sensi quella del boss Giovanni Arena, 56 anni, arrestato dopo 18 anni di latitanza, e inserito nell'elenco delle 30 persone più pericolose tra i ricercati d'Italia dal Viminale. In passato, infatti, sono stati arrestati o fermati anche sua moglie e quattro dei loro figli.


Ricercato per omicidio, per quale è stato condannato all'ergastolo, Giovanni Arena era sfuggito all'operazione Orsa Maggiore, del dicembre del 1993, contro Cosa nostra. Ma l'organizzazione gli stava 'stretta' e così decise di lasciare la cosca Santapaola, alla quale era affiliato, e passò nel gruppo Sciuto-Tigna alleato del clan Cappello, organizzazione criminale storicamente rivale di Cosa nostra. Al centro del passaggio, sostengono, gli investigatori c'é la gestione del fiorente mercato dello spaccio di droga.

La 'famiglia' Arena ha uno spessore criminale: diversi suoi componenti sono stati arrestati o sono stati al centro di indagini. Perché, oltre al latitante, in inchieste contro la criminalità sono finiti anche la moglie, Loredana Agata Avitabile, 55 anni, considerata la 'zarina' del 'palazzo di cemento' del rione Librino, ritenuto uno dei centri dello spaccio di droga a Catania, e quattro loro figli: Maurizio, arrestato con l'accusa di omicidio il 15 novembre del 1999; Agatino Assunto, catturato il 28 febbraio del 1999, e il 27 febbraio del 2010 condannato a 10 anni di reclusione per associazione mafiosa; Antonino, arrestato il 26 luglio del 2011 dopo due anni di latitanza e destinatario di quattro ordinanze di custodia cautelare; e Massimiliano, che fu arrestato il 31 ottobre del 2007, e poi rinviato a giudizio, per tentativo di omicidio: con due complici, il 20 dicembre del 2006, avrebbero ferito con un colpo di pistola un metronotte di 52 anni nel tentativo di rubargli l'arma mentre l'uomo era in servizio davanti la guardia medica del rione Librino. Alcuni del gruppo furono coinvolti nell'operazione denominata "Revenge", condotta dalla Squadra Mobile nell'ottobre del 2009, sequestrando armi e sventando la ripresa di una sanguinosa faida mafiosa a Catania.

Un famiglia anche unita: quando la polizia arrestò il ricercato Antonino Arena, latitante da due anni, una sua sorella si mise in auto inseguendo la pattuglia che lo portava in Questura gridando agli agenti: 'fatelo scendere, fatelo scendere...''.

Arena alla polizia: stavolta siete stati bravi
 
Il latitante al momento della cattura in un appartamento a pochi metri dal palazzo di cemento di Librino: “Da vent’anni sono in questa casa”


CATANIA. "Questa volta siete stati bravi... da vent'anni sono in questa casa...", lo ha detto il superlatitante Giovanni Arena ai poliziotti che lo hanno arrestato. Il boss è stato catturato alle due della notte scorsa dalla squadra mobile di Catania che ha fatto irruzione in appartamento al secondo piano di uno stabile a poche decine di metri dal palazzo di cemento di Librino. Era nascosto dietro un letto a ponte che i poliziotti hanno forzato: lo stesso sistema era stato utilizzato da un altro latitante.

Foto osé in Comune: bufera sul sindaco «Atteggiamenti compromettenti»

AVELLINO - Foto a «luci rosse» al Comune di Solofra, nuova guerra tra il sindaco Antonio Guarino e il consigliere Enzo Clemente. È quest’ultimo a consegnare ai carabinieri della locale stazione degli scatti che dichiara compromettenti. Il primo cittadino smentisce il contenuto, replicando stizzito, e annuncia una nuova querela a carico del consigliere.

Dopo i duri scontri degli ultimi mesi fra il primo cittadino ed il rappresentante dell’opposizione, l’episodio rappresenta il culmine di una escalation senza esclusione di colpi e davvero imprevedibile.

«Nei giorni scorsi - afferma il consigliere Enzo Clemente - è stato recapitato nella mia casella postale un plico di medie dimensioni. Aprendo la busta con stupore ho constatato che il contenuto consisteva di trentatrè foto a colori ritraenti l’attuale sindaco Guarino in atteggiamenti compromettenti all’interno del suo ufficio comunale. Alcuni scatti lo ritraevano in compagnia di donne. È inutile dirvi che ho prontamente consegnato tutto ai carabinieri, ma non posso non considerare che al di là della provenienza del plico evidentemente inviato in anonimato, le immagini sono davvero imbarazzanti».

Segue il messaggio politico: «Lancio un appello accorato alle donne di Solofra che non sono ritratte in quelle foto - continua il consigliere Clemente -. Le mamme e le figlie di questa città hanno trascorso gran parte della loro vita a cercare il proprio spazio, a realizzare le proprie aspirazioni, tentando di conciliare lavoro, famiglia, studio. Le donne di Solofra sono sempre dalla parte delle giovani sfruttate e sono l’asse portante dell’economia di questa città e vi piaccia o no, fanno politica e cultura anche quando girano il risotto e non meritano di essere rappresentate da questo sindaco. Si tratta di rimodulare un modello culturale che abbiamo perduto: comportarci da persone perbene. L’ultimo pensiero è proprio donne della mia città: coraggio, anche questa volta tocca a voi e bisogna reagire. Professore Guarino e signori della maggioranza è il caso di rassegnare definitivamente le dimissioni dall’incarico».

Sulle gravi accuse replica il primo cittadino: «La questione è talmente ridicola - afferma Guarino - che non meriterebbe risposta. Secondo queste accuse inaudite le vicende si sarebbero verificate nel mio ufficio al secondo piano del Comune, costantemente aperto ed affollato di cittadini e consiglieri. E da dove sarebbero state scattate le foto in questione? Da qualche colonnina? Alle spalle di qualche divano o dietro l’ombra che costui proietta? Le foto raccontate non possono esistere; siamo alla reazione inconsulta di un soggetto in preda a manifestazioni patologiche».

Il sindaco ricostruisce le fasi che hanno preceduto la conferenza stampa indetta ieri mattina dal consigliere Clemente, ai margini della riunione di consiglio comunale.

«Il segretario comunale - afferma il sindaco - aveva rilevato in un passaggio del verbale relativo alla precedente seduta la dichiarazione di dimissioni di questo personaggio da consigliere. La dichiarazione c’è. Costui ha avuto una reazione inconsulta, spropositata, è sembrato impazzito. Finora ha collezionato quattordici querele per diffamazione e dodici citazioni per danni. Non sa più che fare. Le foto osè? Esistono solo nella sua mente malata».

Clemente aveva contestato il verbale relativo alle proprie presunte dimissioni, chiedendo la registrazione audio del precedente consiglio comunale, risultato non chiaro all’ascolto. «Ho affermato che mi dimettevo da capogruppo - ha precisato ieri - ma non da consigliere».

Il sindaco era intervenuto chiedendo di sospendere il consiglio in corso. «Prima di prendere atto delle dimissioni - l’affermazione di Guarino - e per una verifica in merito meglio sospendere il consiglio». Ma Clemente non ci sta, annuncia improvvisamente la conferenza nell’aula consiliare e denuncia la vicenda delle foto.

Antonella Palma

martedì 25 ottobre 2011

'Ndrangheta: Siderno, sequestrati beni al clan Commisso per 150mln di euro

L'operazione della polizia scattata questa mattina ha consentito di sequestrare un ingente patrimonio immobiliare riconducibile alla cosca di Siderno

Beni per 150 milioni di euro sono stati sequestrati dalla Polizia al clan Commisso di Siderno. In particolare si tratta di due aziende operanti nel settore edile attive in tutta Italia, 21 società e un centinaio tra terreni, immobili e ville. I personaggi di maggior rilievo tra coloro ai quali è stato notificato il provvedimento, secondo gli investigatori, sono Riccardo Rumbo e Antonio Galea, entrambi di 49 anni. I due, secondo l’accusa, sarebbero a capo di una cosca satellite di quella dei Commisso, la Rumbo-Galea-Figliomeni, alla quale la 'ndrina madre concede una certa autonomia, pur rimanendo uno stretto legame. Galea, in particolare, è stato arrestato dalla polizia nel marzo scorso dopo alcuni mesi di latitanza essendo sfuggito all’operazione Crimine, coordinata dalla Dda di Reggio Calabria e da quella di Milano nel luglio 2010 con l’arresto di oltre 300 persone, e successivamente all’operazione Bene comune, portata a termine nel dicembre scorso contro i presunti affiliati alla cosca Commisso.


Proprio ieri, il procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, nella sua requisitoria nel processo abbreviato per l'inchiesta Crimine, ha chiesto la condanna di Galea a 16 anni di reclusione. Le due aziende edili sequestrate da personale del Commissariato della polizia di Siderno e della Divisione anticrimine della Questura di Reggio Calabria, la Kollmax e la Meridionale Intonaci, pur non avendo cambiato proprietà, secondo gli investigatori avrebbero fatto capo alla cosca Commisso. Già nel novembre scorso, i Commisso erano stati colpiti da un sequestro da 200 milioni di euro. In quella occasione fu sequestrato il centro commerciale «I Portici» all’interno del quale c'è una lavanderia, di proprietà di Giuseppe Commisso, soprannominato «u mastro», indicato come il capo della cosca, dove si svolgevano le riunioni in cui si decidevano le strategie del gruppo criminale.

Il Questore Casabona: "Il clan Rumbo-Galea, costola dei Commisso"
«I Rumbo-Galea sono una costola autonoma dei Commisso, e godono di larga autonomia, tant'è che in pochissimi anni sono riusciti a costruire attività economiche, molte delle quali commercialmente valide per svariate decine di milioni di euro». Così il questore di Reggio Calabria, Carmelo Casabona, nel corso della conferenza stampa per illustrare i contenuti del provvedimento di sequestro beni emesso dal Tribunale delle Misure di Prevenzione di Reggio Calabria, presieduto dal Vincenzo Giglio, a seguito di una richiesta sottoscritta dalla Procura distrettuale antimafia, guidata da Giuseppe Pignatone.

«Attività immobiliari, esercizi commerciali, trasporti e forniture di inerti – ha detto Casabona – per un valore prossimo ai centocinquanta milioni di euro. Un cospicuo patrimonio che i boss di contrada 'Donisi' di Siderno avevano accumulato in regime di quasi monopolio».

Riccardo Rumbo, Riccardo Gattuso, Massimo Pellegrino, Antonio Galea, Giuseppe Napoli, Domenico Prochilo, Vincenzo Commisso e Cosimo De Leo, destinatari del provvedimento di sequestro, erano stati arrestati il 14 dicembre dello scorso anno nel corso dell’operazione denominata 'Bene comune -Recupero', eseguita dalla squadra mobile e coordinata da Pignatone, perchè ritenuti responsabile di fare parte della 'ndrangheta di Siderno, con propaggini a Toronto, in Canada. Messa in opera di intonaci, tinteggiatura, lavori edili pubblici e privati, acquisti di moltissimi terreni, sono il nucleo centrale dei beni sequestrati che saranno affidati ai periti nominati dalla Procura della Repubblica.