venerdì 22 giugno 2012

Omicidio di Lea Garofalo Il falso alibi di Giuseppe Cosco

Dalle motivazioni della sentenza sulla morte di Lea Garofalo emerge la vita «triste e crudele» della testimone di giustizia, fra gli elementi valutati dai giudici anche gli alibi degli imputati, quello di Giuseppe Cosco, cognato della vittima, appare "un falso alibi"

PETILIA POLICASTRO - «Un falso alibi». E' quello di Giuseppe Cosco, detto Smith, dalla marca di una fabbrica di armi. E' il fratello di Carlo, presunto mandante dell'uccisione di Lea Garofalo, e secondo l'accusa ha un ruolo da esecutore materiale. Secondo la Corte presieduta da Anna Introiti non c'è «alcun dubbio» che la versione proposta dalla moglie, Renata Plado, da Carlo Toscano e Francesco Ceraudo sia un falso alibi. Renata in fase d'indagine si avvalse della facoltà di non rispondere «rifiutando così di fornire al marito in carcere un aiuto che avrebbe potuto, almeno in astratto, contrastare il quadro a suo carico». Inoltre, «a fronte della precisa indicazione fornita da Denise circa l'assenza dello zio Giuseppe allorché era rientrata a casa con il padre la sera del 24 novembre dopo le ricerche della madre», la Plado rende «dichiarazioni del tutto difformi». Ricorda che il marito era al bar Barbara e con lui c'erano gli altri due testi. E, a distanza di due anni, indica persino i giochi ai quali giocavano: la Gallina e lo Sceriffo. L'«inattendibilità» di una simile versione per i giudici della prima Corte d’Assise di Milano è «palese» in quanto si tratta della «convivente di uno degli imputati che non si crea scrupoli a violare la legge». I giudici ricordano anche il suo coinvolgimento in vicende di stupefacenti costategli l'arresto nel settembre scorso. «Del tutto inattendibili», sempre secondo i giudici, sono anche le testimonianze fornite da Ceraudo e Toscano.

ANTONIO ANASTASI

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