giovedì 28 febbraio 2013

Blitz contro i casalesi in Campania e Toscana: decine di persone in manette

Operazione in diverse città. I reati contestati riguardano l'associazione mafiosa, le estorsioni ed il possesso di armi


NAPOLI - Blitz della Polizia contro il clan dei Casalesi: dalle prime ore del giorno centinaia di agenti stanno eseguendo in Campania e Toscana diversi arresti nell'ambito di un'inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Napoli.

I provvedimenti sono eseguiti dagli uomini della squadra mobile di Caserta e di Firenze, coordinati dal Servizio centrale operativo e riguardano presunti affiliati al clan facenti capo alle famiglie Schiavone, Iovine e Russo. I reati contestati ai destinatari dei provvedimenti restrittivi - alcuni dei quali emessi disposti dall'autorità giudiziaria di Firenze - sono, a vario titolo, associazione mafiosa, estorsioni, armi ed altro.

ECCO DOVE IL CLAN NASCONDEVA LE ARMI - VIDEO

Al blitz, in diverse città della Campania e della Toscana, partecipano anche i reparti di prevenzione crimine e unità specializzate della polizia scientifica per la ricerca di armi ed esplosivo.

Sono 13 le persone arrestate in Toscana nell'ambito del blitz della polizia nei riguardi di presunti affiliati al clan dei casalesi scattato dalle prime ore del mattino. Nove provvedimenti restrittivi sono stati disposti dalla direzione distrettuale antimafia di Napoli, quattro dall'autorità giudiziaria di Firenze. Sono in corso anche nel territorio toscano sequestri patrimoniali eseguiti dagli uomini della direzione investigativa antimafia. Tra i reati ipotizzati a vario titolo nei confronti degli arrestati, associazione per delinquere di tipo mafioso, estorsione, danneggiamento seguito da incendio, detenzione di sostanze stupefacenti ai fini di spaccio, detenzione e porto di armi (comuni, da guerra e clandestine), ricettazione.

La Dia sta eseguendo provvedimenti di sequestro di decine fra immobili, aziende e attività commerciali, in città della per un ammontare di oltre 20 milioni di euro.

Fotografo dei vip ucciso con un colpo alla testa


Il vibonese Daniele Lo Presti freddato a Roma

Il professionista aveva 42 anni ed era originario del centro calabrese. Nella Capitale era diventato uno dei fotoreporter più noti: suoi molti scatti vip e di inchieste e proprio questa è una delle ipotesi vagliate dagli inquirenti. L'uomo è stato ucciso mentre faceva jogging. Un amico: «Daniele era una persona che infastidiva per il lavoro che faceva»

VIBO VALENTIA - E' stato ucciso ieri pomeriggio con un colpo alla testa il fotografo dei vip. Daniele Lo Presti, paparazzo di professione, aveva 42 anni ed era originario di Vibo Valentia ma da una ventina di anni viveva a Roma e viaggiava continuamente anche all’estero per il suo lavoro. Il fotografo in passato aveva anche ricevuto minacce intimidatorie: la sua auto fu incendiata. Durante l’autopsia è stato rilevato, da un foro alla testa, che un proiettile era conficcato nel cranio. Ieri, intorno alle 17, Lo Presti era andato a correre sulla pista ciclabile di ponte Testaccio. A dare l’allarme è stato un passante mezz'ora dopo, che ha trovato il corpo in terra nel sangue sotto il ponte. Poco distante c'era un gruppo di amici che lo stava aspettando per fare jogging. È autore di scatti fotografici di personaggi famosi e collaborava con l’agenzia La Presse.
«E' chiaro che Daniele era una persona che infastidiva per il lavoro che faceva, fatto di tanti scoop e foto clamorose. L’ultimo erano le foto della cantante Rihanna a Capri. Ma lui era stato parecchio anche all’estero, dove aveva per esempio scattato delle foto a Brad Pitt con una presunta amante». A parlare è un amico di Daniele Lo Presti, il paparazzo ucciso ieri pomeriggio a Roma. «Daniele era amico di tutti – prosegue – anche di alcuni vip come Fiorello, con cui aveva un bel rapporto. A Roma viveva da solo e tra i fotografi veniva chiamato 'Johnny'».

In autostrada con 5 chili di eroina


Corriere reggino preso nel cosentino

E' stata la guardia di finanza a bloccare l'uomo nei pressi di Morano Calabro. Solo l'ausilio di un cane antidroga ha permesso di scoprire lo stupefacente. I panetti erano stati occultati e sono stati trovati dopo avere rimosso i tergicristalli e la griglia di protezione delle prese d’aria trovando una cavità precostituita ad arte

MORANO CALABRO (Cosenza) - Un uomo di cui non sono state rese note le generalità è stato arrestato dai militari della Guardia di finanza, in servizio lungo l’autostrada A/3 Salerno-Reggio Calabria, nei pressi dello svincolo di Campotenese. nel comune di Morano Calabro (Cosenza). I finanzieri hanno fermato l’uomo, residente nella provincia di Reggio Calabria, alla guida di una Renault New Clio, proveniente da nord e diretto nella provincia reggina, a bordo della quale è stata trovata droga, per un totale di oltre 5 chilogrammi di eroina.
Il veicolo, a seguito di un preliminare e sommario controllo, era sembrato integro in ogni sua parte; ma, dopo una attenta, minuziosa e ispezione svolta con l’ausilio di un cane antidroga, rimuovendo i tergicristalli e la griglia di protezione delle prese d’aria, i militari hanno notato la presenza di una cavità, precostituita ad arte, rinvenendovi 10 involucri abilmente occultati, del peso di circa 500 grammi ciascuno, contenente sostanza stupefacente del tipo «eroina», per un totale di 5,175 di eroina. Il magistrato di turno della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Castrovillari, ha disposto il sequestro della sostanza stupefacente rinvenuta, di un telefono cellulare, di 4 schede sim non ancora utilizzate e dell’autovettura. Il corriere è stato, pertanto, tratto in arresto ed associato alla casa circondariale di Castrovillari. La droga, risultata essere del massimo grado di purezza, una volta lavorata avrebbe consentito di ottenere circa 50.000 dosi che immesse sul mercato illecito calabrese avrebbero fruttato circa 1 milione di euro.

Cinque assoluzioni e pene ridotte per la cosca Pesce


L'appello ridimensiona l'inchiesta sul clan di Rosarno

CInque assolti e riduzioni per sei imputati. Questo il bilancio del giudizio di secondo grado del processo scaturito dall'operazione All Inside che nel settempre 2011 aveva registrato le condanne di primo grado al processo celebrato in abbreviato. Tra le pene ridotte anche quelle a carico di Vincenzo e Francesco Pesce considerati al verdite della cosca

REGGIO CALABRIA – Si è concluso con cinque assoluzioni e la riduzione delle condanne per sei imputati il processo d’appello nei confronti di esponenti della cosca Pesce coinvolti nell’inchiesta 'All inside' e condannati nel settembre del 2011 con rito abbreviato dal gup distrettuale di Reggio Calabria, Roberto Carrelli Palombi. La sentenza di secondo grado è stata emessa dai giudici della Corte d’appello di Reggio Calabria. Tra le pene ridotte ci sono anche quelle a carico di Vincenzo e Francesco Pesce, di 54 e 35 anni, zio e nipote, ritenuti a capo dell’omonima cosca della 'ndrangheta, condannati in primo grado a 20 anni di reclusione. I giudici della Corte d’appello hanno ridotto a 16 anni la condanna per Vincenzo Pesce ed a 13 anni per Francesco Pesce, detto 'Ciccio testuni'. Nei loro confronti ci sono le accuse della collaboratrice di giustizia Giuseppina Pesce, cugina di Francesco e nipote di Vincenzo. È stata ridotta a 2 anni e 4 mesi la pena anche per l’agente della polizia penitenziaria Eligio Audino, che in primo grado avevano avuto 3 anni e 4 mesi. Sono stati assolti il carabiniere Lucio Aliberti (3 anni in primo grado), Salvatore Consiglio (10 anni), Francesca Zungri e Lidia Arena (2 anni) e Elvira Mubaraksina (6 anni).

Le lobby del parlamento italiano




«Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione». Così recita l’articolo 67 della Costituzione. Troppo spesso finora è invece accaduto che deputati e senatori abbiano disatteso questo principio, trasformandosi in paladini di interessi di specifiche categorie, di lobby pubbliche e private, di corporazioni e caste, a detrimento dell’interesse generale, dell’interesse di tutti i cittadini e in violazione di quel principio di eguaglianza che esclude privilegi e leggi ad hoc e costituisce l’ossatura di un sistema democratico saldo.

La cartina al tornasole di questa deriva sono le 63mila norme di deroga del nostro ordinamento. Leggine di favore, come le definisce il costituzionalista Michele Ainis nel suo ultimo saggio intitolato appunto “Privilegium”, una selva intricata, difficile per i profani da decifrare, dentro la quale si nasconde un bottino di opportunità e vantaggi, costruito su misura per i vari potentati del Belpaese.

Dagli ordini professionali alle banche, dai tassisti agli agricoltori, dai petrolieri ai notai, agli avvocati, ai giornalisti, agli editori, ciascuno fa il suo gioco, troppo spesso a svantaggio della collettività, che paga alti costi per questo sistema dilagante, che si traduce quasi sempre in più tasse, meno benefici e approfondimento del divario tra ricchi e poveri.

La storia passata ma anche recente delle ultime legislature è ricca di episodi che confermano il potere di influenza che continuano a esercitare in Parlamento i gruppi di interesse, attraverso deputati e senatori “amici”, tanto più che in Italia, diversamente da quanto accade in altri Paesi del mondo, non esiste nessun regolamento sull’attività dei lobbisti. Così a Montecitorio e a Palazzo Madama hanno libertà di presenza e movimento non solo i volti noti delle relazioni esterne di grandi aziende pubbliche o private, dall’Enel all’Eni a Finmeccanica, a Telecom, ma anche personaggi meno conosciuti, che operano dietro le quinte e che, a discrezione del collegio dei Questori, o dietro invito dei singoli parlamentari, riescono a ottenere il pass di ingresso permanente.
E se ai big basta una telefonata per cambiare le sorti di una legge, gli altri, la fauna minore, i cosiddetti sottobraccisti, devono essere sempre presenti e fino al decreto sulle liberalizzazioni del gennaio 2012 erano soliti piazzarsi davanti alle porte delle commissioni pronti a dare l’assalto a parlamentari e assistenti parlamentari. Poi i presidenti di Camera e Senato hanno deciso di confinarli in una sorta di recinto, una stanza a loro riservata. Ed è cominciata una nuova era.

Ma quali sono le lobby più potenti, quelle che in questi anni sono riuscite a portare a casa i risultati migliori?
In testa alla lista ci sono sicuramente i farmacisti, casta emergente della XVI legislatura – iniziata il 29 aprile 2008 e conclusasi il 22 dicembre scorso – che aveva già tirato fuori le unghie nel 2006 contro il decreto Bersani, e che, prevedendo nuove incursioni, a quest’ultimo giro ha tentato di giocare d’anticipo, facendo quadrato intorno ai propri parlamentari: Rocco Crimi (Pdl), Chiara Moroni (Pdl e poi Futuro e Libertà, ora Lista Monti), eletti alla Camera; Valerio Carrara (Pdl), Fabrizio Di Stefano (Pdl) e Luigi D’Ambrosio Lettieri (Pdl e Presidente dell’Ordine dei Farmacisti della provincia di Bari nonché componente del Comitato centrale della federazione) eletti al Senato. Una squadra di punta, che ha difeso gli interessi della categoria con tutte le sue forze contro l’onda d’urto delle liberalizzazioni, sia in occasione del decreto “Salva Italia” (4 dicembre 2011) che in occasione del decreto “Cresci Italia” di inizio 2012. Il risultato: “danni limitati” per la lobby e sistema sotto controllo, con alcuni inevitabili compromessi: nuove farmacie certo, ma “contingentate”, e nuove regole di vendita dei prodotti.

Anche i tassisti in quest’ultima legislatura hanno confermato di essere una lobby potente. Il governo Monti, che voleva toccare le licenze, è stato subito stoppato: così è rimasto ai sindaci il potere di decidere il numero di auto pubbliche, sia pure con il preventivo parere dell’Autorità per i trasporti, di cui comunque si sono perse le tracce. Contano sulla loro capacità di fare fronte compatto quando è necessario e paralizzare le città, ma hanno avuto anche una buona sponda in Parlamento, dove, se non sono riusciti nel 2008 a eleggere un loro rappresentante, hanno potuto contare su ex An, vicini al loro paladino, il sindaco di Roma Gianni Alemanno, e sulla Lega Nord.

Ma a pari merito in graduatoria con farmacisti e tassisti c’è senz’altro la lobby degli avvocati, categoria che nell’ultima tornata parlamentare aveva ben 133 rappresentanti, che hanno dichiarato guerra senza quartiere al progetto del governo di cancellazione degli ordini professionali, ottenendo di affidare la riforma agli ordini stessi, ma sono anche riusciti a varare una nuova disciplina dell’ordinamento forense, cucita su misura dalla commissione giustizia della Camera.

Non sono da meno le banche, che hanno saputo ben custodire e potenziare i loro privilegi. E che sono state protagoniste in Parlamento, nel marzo 2012, di un’ennesima battaglia dalla quale sono uscite trionfanti. È sparito dal maxiemendamento al Decreto sulle liberalizzazioni l’articolo che prevedeva la cancellazione delle commissioni.

Anche i petrolieri sono una imbattibile aristocrazia. Nel 2006 l’Autorità per l’energia e il gas aveva provato a tagliare gli incentivi pubblici per le centrali private a petrolio. Ma il Tar della Lombardia, al quale avevano presentato ricorso le grandi famiglie italiane dell’oro nero, riuscì a rimettere subito tutto a posto. Un altro tentativo senza esiti lo fece il governo Prodi con la Finanziaria del 2007. Poi nel 2008 ci fu la Robin Tax, riveduta, corretta ed estesa nel 2011. In compenso, però, i petrolieri nel 2012 sono riusciti a mantenere il vincolo di fornitura esclusiva sui carburanti, che il Decreto Cresci Italia voleva abbattere. La fine dell’esclusiva è rimasta infatti solo per gli impianti a marchio di una compagnia ma già di proprietà del gestore. Quanti sono? Appena il 2% del totale. E non solo. Sono rimasti intatti i privilegi sulle trivellazioni. Da questo punto di vista, secondo il Wwf, l’Italia sarebbe «un vero e proprio paradiso fiscale»: le royalties, compensazioni ambientali, sono infatti le più basse del mondo.

Le caste, insomma, sanno sempre come muoversi. Nella grande arena dell’ultima legislatura in tante sono state protagoniste più o meno sotto i riflettori: le lobby del gioco d’azzardo, delle multinazionali del fumo, che sono riuscite persino a far passare l’idea che la sigaretta a vapore sia quasi più nociva della classica bionda, le lobby delle patatine fritte, delle merendine, dei softdrink, delle api, delle autostrade e dei trasporti. Per non parlare della folta e potente lobby di Dio, che conta tra le sue fila non solo clero cattolico, ma anche ebrei, protestanti, valdesi, islamici, sempre pronti a battersi per la propria causa divina. Ma tra tutte sicuramente quella che ha centrato il suo obiettivo è la Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni, meglio nota come chiesa dei mormoni, la cui immagine è sicuramente cresciuta negli ultimi tempi grazie all’ascesa negli Stati Uniti di un loro celebre adepto, Mitt Romney, sfidante di Barack Obama alle presidenziali, e al successo planetario della saga dei vampiri Twilight, firmata da un’altra loro consorella, Stephenie Meyer. Lo scorso luglio infatti è diventata legge l’intesa che regola i rapporti con lo Stato italiano e dalla quale discendono una serie di privilegi, dall’Imu (per loro vale lo stesso trattamento che spetta al Vaticano e ad altri culti riconosciuti) all’8 per mille, al quale però i mormoni hanno rinunciato. A curare i loro interessi in Parlamento sarebbe stata una società di pubbliche relazioni americana. Ma poi, l’ultima parola, quella decisiva, sarebbe arrivata dall’alto… dei cieli.

Pollina, si liquida parcelle gonfiate: condannato ex dirigente comunale

Giuseppe Chiofalo dovrà risarcire 22 mila euro per il danno erariale causato al Comune. Risultava responsabile unico del procedimento per otto lavori pubblici

PALERMO. La sezione giurisdizionale d'appello della Corte dei conti ha condannato l'ex dirigente dell'ufficio tecnico comunale di Pollina, Giuseppe Chiofalo, a risarcire quasi 22 mila euro. I giudici hanno confermato la sentenza di primo grado che nel 2011 lo aveva riconosciuto responsabile del danno erariale causato al Comune di Pollina per essersi liquidato parcelle gonfiate come responsabile unico del procedimento per otto lavori pubblici (sentenza 51/A/2013).

mercoledì 27 febbraio 2013

Confiscati 5 milioni beni a coppia vibonese


Lui è stato condannato per usura ed estorsione

 
Il provvedimento è stato notificato a Giovanni Battista Tassone, di 58 anni, e alla moglie Teresa Mancuso, 45 anni, residenti a Soriano. L'uomo è stato arrestato nell’operazione chiamata 'Business Cars'. Sigilli ad appartamenti, magazzini, terreni, un supermercato

SORIANO (Vibo Valentia) - Beni per 5 milioni di euro sono stati confiscati a Soriano dai militari della guardia di finanza e dai carabinieri ai coniugi Giovanni Battista Tassone, di 58 anni, e la moglie Teresa Mancuso, 45 anni. Tassone è stato arrestato nell’operazione chiamata 'Business Cars' per i reati di usura ed estorsione. Tra i beni confiscati ci sono un locale commerciale sito nella centrale via Roma del comune di Soriano Calabro, proprio in prossimità del palazzo comunale, dove era in atto la realizzazione di un pub, ove i Carabinieri e la Guardia di Finanza nel luglio del 2012 in occasione del sequestro avevano rinvenuto un “rifugio bunker“ sotterraneo, costituito da un corridoio e da una stanza, il cui accesso era abilmente occultato da una parete in cartongesso, finemente tinteggiata, all’occorrenza agevolmente rimovibile. La confisca è stata disposta dalla sezione misure di sorveglianza del tribunale di Vibo Valentia. Contestualmente i militari hanno notificato a Tassone la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno per 4 anni disposta dallo stesso tribunale.

La famiglia si dissocia dal pentito Venturino


Che ha fatto ritrovare i resti di Lea Garofalo

 
Da Petilia Policastro arriva la dura presa di posizione dei congiunti di Carmine, ex fidanzato di Denise, che ha deciso di collaborare con la giustizia fornendo una svolta alle indagini. «Si tiene a precisare che tutta la famiglia di origine dell'imputato prende le distanze da ogni eventuale dichiarazione che coinvolga l'onesto nome di tutta la parentela»
 
di ANTONIO ANASTASI

PETILIA POLICASTRO (Crotone) - Il copione si ripete. I familiari del collaboratore di giustizia si dissociano dall”infame”. Le distanze vanno prese anche se il pentito si chiama Carmine Venturino e ha fatto ritrovare i resti carbonizzati del corpo di Lea Garofalo, la testimone di giustizia sparita nel nulla nel novembre 2009, uccisa e sepolta in un campo vicino a Monza. Per quell'omicidio, nel marzo scorso, la Corte d'Assise di Milano ha condannato all'ergastolo sei persone, tra cui Venturino, peraltro ex fidanzato di Denise Cosco, la figlia di Lea, tradita due volte e costituitasi parte civile contro il giovane e contro il padre, Carlo Cosco, considerato il mandante del delitto perché voleva costringere la vittima a rivelarle cosa avesse dichiarato agli inquirenti su un omicidio commesso nel '95, quello di Antonio Comberiati. La dissociazione arriva, però, non dopo il coinvolgimento nell'inchiesta che portò a sei arresti, tra i quali quello di Venturino, nell'ottobre 2010, ma dopo il pentimento. In un documento sottoscritto da quattro firme autografe e giunto ieri in redazione, infatti, «si tiene a precisare che tutta la famiglia di origine dell'imputato (genitori, zii e cugini), nel disconoscere l'operato delittuoso dello stesso, prende le distanze da ogni eventuale dichiarazione che coinvolga l'onesto nome di tutta la parentela». A firmare sono il padre del pentito, Giuseppe, e gli zii Marcello, Vito e Mario ma parlano a nome di tutta la famiglia. E ancora: «esprimendo ferma condanna davanti alle ammissioni di colpa del nostro congiunto, si evidenzia che la famiglia Venturino è nota alla comunità locale per la sua integrità morale e il rispetto dei valori fondanti della società civile». Per questo la gente della frazione Pagliarelle, dove i Cosco vivono, e dove si svolsero i funerali senza bara di Lea, deve sapere.

Falso cieco ha percepito la pensione per 7 anni


Aveva la patente e guidava l'auto, denunciato

E' stata la guardia di finanza a ricostruire la storia di un uomo di Martone (Reggio Calabria) che risultava invalido al 100%, ma che svolgeva regolarmente la sua vita di tutti i giorni. I militari hanno scoperto che l'uomo si recava alle urne senza accompagnatore per votare, aveva una ditta con 280 dipendenti e usciva regolarmente solo, anche in auto. L'indennità è stata sospesa

La guardia di finanza di Roccella Jonica, nel reggino, ha scoperto un "falso cieco" che percepiva la pensione da 7 anni truffando all’Inps circa 50.000 euro. Il protagonista è un anziano di Martone (Reggio Calabria) che dal 2004 al 2011 è riuscito a godere indebitamente dell’indennità speciale dell’accompagnamento fingendosi nion vedente. L’uomo, con sentenza emessa nell’anno 2007 dal Tribunale Civile di Locri, era stato riconosciuto invalido al 100%, con diritto all’indennità di accompagnamento a decorrere dall’anno 2004.
Nonostante la grave patologia, certificata dalla consulenza tecnica d’ufficio e dalla divisione oculistica dell’Ospedale di Locri, i finanzieri hanno accertato che l’uomo era in grado di badare alle attività quotidiane in completa autonomia e senza alcun tipo di ausilio. L’uomo non è mai stato affetto da cecità assoluta, anzi, ha sempre svolto le normali mansioni di vita quotidiana autonomamente anche nel periodo in cui ha beneficiato dell’indennità dell’accompagnamento. L’anziano è risultato titolare di patente di guida tanto da essere stato fermato quattro volte dalle forze dell’ordine durante i normali turni di controllo del territorio alla guida di veicoli a lui intestati; ha presentato tre denuncie in vari Uffici delle forze dell’ordine senza alcun accompagnatore. Inoltre, è risultato titolare di partita Iva con 280 operai alle sue dipendenze. Peraltro ha subito un controllo da parte dell’Inps per la sua attività ed è stato segnalato per truffa alla Procura di Locri. L’uomo vive da solo dall’anno 2008 ed ha votato regolarmente, in tutte le tornate elettoral,i senza mai essere accompagnato. La patente di guida gliera stata ritirata perchè scaduta.
Denunciato per truffa aggravata e continuata ai danni dello Stato, ha percepito indebitamente dal 2004 al 2011 un importo di circa 50.000 euro. Rischia la condanna alla reclusione da 1 a 5 anni ed una multa; inoltre dovrà restituire allo Stato la somma perceputa indebitamente . Nel febbraio 2012, al denunciato, sottoposto a visita di revisione domiciliare da parte dell’Inps, è stata annullata l'indennità, in quanto riconosciuto come persona in grado di badare a se stessa. Le indagini di polizia giudiziaria, coordinate dalla Procura della Repubblica di Locri, sono tuttora in corso e sono mirate, tra l’altro, ad accertare eventuali responsabilità di altre persone

Ucciso parroco a Ummari, il corpo trovato in chiesa

Il cadavere di Michele Di Stefano è stato rinvenuto nella canonica, con la testa rotta: sarebbe stato ucciso con un corpo contundente. Segni di effrazione su una finestra. Per gli investigatori non si è trattato di rapina finita male

TRAPANI. Il cadavere del parroco della chiesa «Gesù, Maria e Giuseppe» a Ummari, Michele Di Stefano, 80 anni, è stato trovato nel letto della canonica con la testa rotta. Il sacerdote, originario di Calatafimi (Tp), sarebbe stato ucciso con un colpo alla testa, inferto con un corpo contundente, secondo i carabinieri. I militari sono stati allertati dai familiari che attendevano la vittima a Calatafimi. In base a quanto si apprende da fonti investigative, l'abitazione del parroco non è stata messa a soqquadro da chi l'ha colpito. Qualcuno si sarebbe introdotto dalla finestra. Le indagini sono in corso e al momento non si esclude alcuna pista. Il sacerdote è stato per 42 anni parroco a Fulgatore, altra frazione trapanese, ed è fratello di un ex sindaco di Calatafimi.

GLI INVESTIGATORI: “NON E’ STATA UNA RAPINA FINITA MALE”. Il parroco di Ummari, Michele Di Stefano, sarebbe stato ucciso nel sonno. E secondo i carabinieri che indagano non si tratterebbe di una rapina finita male perchè non sarebbe stato toccato nulla. Il cadavere è nel letto sotto le coperte che coprono tutto il corpo lasciando intravedere una parte della testa. Alcuni segni di effrazione sarebbero stati scoperti su una finestra nel retro dell'edificio. Il cadavere sarebbè stato scoperto da un vicino di casa cui si erano rivolti i familiari del sacerdote atteso a pranzo a Calatafimi. Non trovando risposta al telefono, i familiari hanno chiesto all'uomo di recarsi in parrocchia per rintracciare don Michele. La porta della canonica è stata trovata aperta.

4 estorsori arrestati a Palermo

Le indagini sono state avviate dopo la denuncia di un noto imprenditore titolare di una società di ristorazione e catering. La vittima ha raccontato di essere stato contattato dagli esattori del racket i quali gli avrebbero contestato di aver intrapreso l'attività senza l’autorizzazione di cosa nostra
PALERMO. I carabinieri del reparto operativo del comando provinciale di Palermo stanno eseguendo quattro ordinanze di custodia cautelare in carcere per estorsione emesse dal Gip su richiesta della Dda, nei confronti di presunti esponenti di Cosa Nostra.

Le indagini sono state avviate dopo la denuncia di un noto imprenditore palermitano, titolare di una società di ristorazione e catering. La vittima ha raccontato di essere stato contattato nel marzo scorso dagli esattori del racket i quali gli avrebbero contestato di aver intrapreso l'attività commerciale senza aver chiesto l'autorizzazione a cosa nostra, ovvero di non essersi "messo a posto".

I quattro, ai quali viene contestato il reato di tentata estorsione aggravata dalle finalità mafiose, avrebbero preteso il versamento di 2 mila euro, da pagare sia a Pasqua che a Natale, per il sostentamento delle famiglie dei detenuti.

Sono del quartiere di Borgo Vecchio, i quattro presunti estorsori che avrebbero chiesto il pizzo al ristoratore Natale Giunta, diventato famoso per la partecipazione alla Prova del cuoco, programma di Rai 1, e che sono stati arrestati dai carabinieri. Si tratta di Antonino Ciresi, 70 anni, di Monreale; dei palermitani Maurizio Lucchese, 50; Alfredo Calogero Attilio Perricone, 42; Giuseppe Battaglia, 41.

Le indagini, coordinate dal procuratore aggiunto Leonardo Agueci, assieme ai sostituti della Dda di Palermo, Francesc Mazzocco e Caterina Malagoli, sono scattate dopo la denuncia di
Giunta. Quest'ultimo, nel marzo 2012, è stato avvicinato dagli arrestati che gli hanno intimato di "mettersi a posto": sarebbe bastato pagare 2 mila euro, a Pasqua e a Natale, la somma che serviva per 'sostenere' le famiglie dei detenuti. I quattro con il ristoratore avevano usato il classico linguaggio degli estorsori. "A posto", infatti, significa che, fin quando non avrebbe pagato, nel suo locale non si sarebbe più recato nessun cliente, "perché praticamente siamo d'accordo tutti. Due a Pasqua, più due a Natale". Che non fosse uno scherzo, i quattro lo hanno fatto capire in tutti i modi al ristoratore impegnato anche nel settore del catering.

Dopo le parole sono passati ai fatti, utilizzando anche i ben noti messaggi per convincere i commercianti: colla nei lucchetti o danneggiamento dei locali. Più volte l'imprenditore ha ribadito che non era in grado di pagare, perché in difficoltà economiche. Dopo qualche settimana dalla richiesta, a Giunta è arrivato un biglietto anonimo con delle minacce ("mettiti a
puostu, un fare ù sbirru, picchì ti finisci mali").

Poi, tre intimidazioni: due danneggiamenti all'interno del locale, infine il ritrovamento di una tanica di benzina all'esterno del ristorante. Un'escalation di minacce che ha portato alla denuncia e agli arresti dei carabinieri.

giovedì 21 febbraio 2013

Camorra in Campania, presi 9 esponenti

Camorra in Campania, presi 9 esponenti del clan Mallardo: due carabinieri indagati
L'accusa è di voto di scambio, rapine, estorsioni, spaccio. I militari di Giugliano sotto tiro per corruzione. Operazione condotta dal "capitano Ultimo"
 
Napoli - Voto di scambio, rapine, estorsioni e anche spaccio di droga. Tutto deciso in una agenzia immobiliare, quartier generale dei camorristi del clan Mallardo, a Giugliano, nel Napoletano.

È «una piovra dai mille tentacoli» quella emersa dalle indagini dei carabinieri del Noe di Roma, coordinati dal colonnello Sergio De Caprio, il capitano Ultimo. Sono nove le persone arrestate, mentre due carabinieri del Nucleo radiomobile di Giugliano sono indagati per corruzione.

A finire sotto sequestro è stata l'agenzia immobiliare Sab, la società Gruppo Citri. I fatti contestati riguardano il 2009. Il capo del gruppo è ritenuto Domenico Pirozzi, detto 'Mimì 'o pesante. Lo dimostrerebbero le intercettazioni tra i vari complici e lo confermerebbero anche diversi pentiti che hanno descritto agli investigatori il ruolo di Pirozzi.

Secondo l'ordinanza firmata dal gip del tribunale di Napoli, Anita Polito, richiesta dai pm Giovanni Conzo e Maria Cristina Ribera della Dna partenopea, era Pirozzi il punto di riferimento per pianificare gli assalti in banca e alle poste, progettare lo scavo dei tunnel sotterranei per l'irruzione nei caveau, gestire i conti della cellula criminale col cassiere-contabile che li custodiva nella cassaforte di casa sua. E anche per cercare di infiltrare la politica, assicurando voti in cambio di favori.

Messico, violentata turista italiana


Gli aggressori sono 2 poliziotti: fermati

La donna era stata fermata insieme a un altro connazionale mentre urinavano per strada: gli agenti avrebbero prima preteso soldi per non multarli, poi hanno aggredito la donna
 
 
CANCUN - Due poliziotti sono stati arrestati in Messico e un terzo è ricercato per lo stupro di una ragazza straniera che, secondo quanto riferisce la stampa locale, risulterebbe essere di nazionalità italiana.
L'episodio è avvenuto a Playa del Carmen, vicino a Cancun. La notizia è stata confermata all'Adnkronos da fonti dell'ambasciata italiana a Città del Messico. La nostra rappresentanza diplomatica sta cercando di «avere più informazioni possibili su questa situazione» ed è in contatto sia con la Farnesina che con le autorità messicane. Inoltre, il console onorario italiano a Playa del Carmen è stato incaricato di seguire il caso e raccogliere tutte le informazioni possibili.

«C'è un'indagine in corso da parte delle autorità locali», spiegano ancora dall'ambasciata. Secondo l'agenzia di stampa Dpa, che cita i media locali, i poliziotti sono accusati di stupro ed abuso di autorità ai danni della donna, la cui età ancora non è stata precisata, assalita all'alba del 12 febbraio, mentre si trovava con un connazionale. I due italiani, secondo la ricostruzione, sarebbero stati sorpresi dai poliziotti a urinare in un vicolo.

Gli agenti avrebbero chiesto loro una somma di denaro per evitare l'arresto. I due italiani, sempre secondo la ricostruzione dei media, non avevano con sè la somma richiesta e per questo gli agenti avrebbero abusato della ragazza.

Assaltano una banca poi donna in ostaggio 5 arresti a Fasano




FASANO (BRINDISI) – Due uomini, armati con taglierino, hanno assaltato una banca nel centro di Fasano (Brindisi) e poi, vedendosi braccati dai carabinieri, si sono rifugiati in un palazzo vicino dove avevano la propria base operativa.

Una volta nell’immobile sono entrati in un appartamento e hanno preso in ostaggio una donna. La giovane, subito liberata, è stata portata al pronto soccorso in stato di choc. I due rapinatori e altri tre presunti fiancheggiatori sono stati arrestati dai militari.

Teatro della rapina, il centro storico di Fasano, a pochi passi da via Egnazia dove si trova la filiale del Monte dei Paschi di Siena. Dalla banca i rapinatori hanno portato via circa 60mila euro prima di rifugiarsi nello stabile i cui residenti sono stati costretti a scendere per strada. Gli arrestati sono due fasanesi e tre uomini della provincia di Foggia.

Blitz antigroga: 11 arresti


Medico di guardia lasciava posto di lavoro per rifornirsi


LECCE - Durante il turno di guardia medica in un paesino vicino Maglie un dottore si riforniva di droga dall’organizzazione sgominata all’alba di oggi dai carabinieri del Comando provinciale di Lecce. E’ quanto ha accertato l’inchiesta che ha portato stamane all’esecuzione di 11 ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse dal giudice per le indagini preliminari del tribunale della città salentina Cinzia Vergine.

L'accusa è di associazione a delinquere finalizzata a una pluralità di delitti tra i quali furti, cessione, trasporto e detenzione di sostanza stupefacente del tipo cocaina e marijuana, con l’aggravante di utilizzare armi. Uno degli arrestati si trovava già detenuto, 6 sono stati condotti in carcere e 4 sottoposti ai domiciliari.

Nel corso delle indagini e in particolare dell’attività d’intercettazione si è accertato come Andrea Santese, 36 anni, di Maglie, gestore del Bar Gemelli e già conosciuto alle forze di Polizia rifornisse, soprattutto di cocaina, molti giovani, agiati e insospettabili professionisti magliesi. Tra questi spiccano, un avvocato, alcuni commercianti e negozianti. E il medico che per rifornirsi dello stupefacente avrebbe lasciato scoperto il suo posto di lavoro.

Particolare rilevante: lo spaccio avveniva molto spesso all’interno di locali di Maglie, i cui gestori erano evidentemente consenzienti, per i quali verrà chiesta la chiusura. Questa modalità è risultata così sicura e proficua da convincere il capo dell’organizzazione a rilevare un bar in centro, del quale è divenuto gestore di fatto, dove ha assunto come baristi, per vari periodi, alcuni dei suoi 'collaboratorì, oggi colpiti da una ordinanza ed altri indagati o segnalati. Nel corso dell’attività d’intercettazione è stato accertato come Santese cedesse, in alcuni casi, cocaina in cambio di prestazioni sessuali.

Inchiesta sul gruppo Riela, sequestrati beni per 40 milioni


Secondo la Dda, la società sarebbe stata "svuotata" prima di un sequestro antimafia. Sequestri anche in altre aziende del settore dei trasporti

CATANIA. Un sequestro beni per circa 40 milioni di euro riguardante il nuovo assetto societario del gruppo Riela è stato eseguito dalla guardia di finanza in esecuzione di un provvedimento emesso dal Gip di Catania. Secondo la Direzione distrettuale antimafia della Procura etnea, che ha indagato 18 persone per intestazione fittizia di beni, l'azienda di trasporti sarebbe stata “svuotata” prima di un sequestro antimafia.

SEQUESTRI ANCHE IN ALTRE REGIONI. I sequestri, che sono stati eseguiti anche in altre regioni dove le società hanno la sede legale, riguardano complessivamente undici aziende del settore dei trasporti. Sono la Du monde logistic di Torino, la Medi Food di Cropani (Catanzaro), la Customer service, la Movi-mag, la Palma distribuzioni di Milano, la Route trasp, la Sieli meccanica, la Dismag, la Lrs logi di Milano, la Arg unipersonale, la Ciesse service. L'inchiesta della Procura di Catania, spiegano in una nota dall'ufficio giudiziario, avrebbe svelato il «progetto di un gruppo di imprenditori, per lo più legati a vincoli di parentela e fiduciari dei fratelli Filippo, Rosario e Luigi Riela, che - sostiene l'accusa - ha realizzato un nuovo assetto societario per occultare i reali proprietari delle società, intestandole fittiziamente a prestanome». I fratelli Riela, nel giugno scorso, ricorda la Procura, sono stati destinatari di provvedimenti cautelari nell'ambito

Acireale, arrestati cinque membri del clan Santapaola


Le ordinanze di custodia in carcere per presunti affiliati al clan mafioso : in manette anche il boss Patanè. Arrestati dai carabinieri in seguito ad indagini su rapine ed estorsioni

CATANIA. La notte scorsa i carabinieri di Acireale (Catania) hanno eseguito 5 ordinanze di custodia in carcere nei confronti di altrettanti presunti affiliati a Cosa Nostra, appartenenti al clan Santapaola-Ercolano, ritenuti responsabili, a vario titolo, di associazione mafiosa finalizzata alla commissione di reati contro la persona e il patrimonio, quali rapine ed estorsioni. I provvedimenti restrittivi sono stati emessi dal gip del Tribunale di Catania su richiesta della locale Procura della Repubblica-Direzione distrettuale antimafia.
I NOMI DEGLI ARRESTATI: C'E' IL BOSS PATANE'. L'operazione, eseguita tra Acireale, Acicatena, Messina e Noto, è stata denominata «Squalo». Sono stati arrestati Antonino Patanè, sorvegliato speciale di 47 anni, ritenuto il reggente della cosca Santapaoliana di Acireale-Acicatena, e Salvatore Indelicato, di 43, considerato uno dei reggenti della consorteria. L'ordinanza è stata notificata in carcere, dove erano già detenuti, a Stefano Sciuto, di 31 anni, figlio del capoclan dell'hinterland acese ergastolano Sebastiano Sciuto, a Camillo Brancato, di 37 anni, e Calogero Paolo Polisano, di 45. L'indagine che ha portato ai provvedimenti restrittivi è stata avviata nel 2008 e, secondo l'accusa, avrebbe permesso di accertare il controllo del territorio da parte del sodalizio criminale appartenente al clan Santapaola-Ercolano. I proventi della attività illecite erano finalizzati al sostentamento delle famiglie dei detenuti e al pagamento delle spese legali degli affiliati. Tra le rapine contestate agli indagati quella commessa nel febbraio del 2008 a Nicolosi (Catania) alla gioielleria 'Pierre Bonnet', alla quale avrebbe partecipato Stefano Sciuto. Durante la rapina il titolare dell'esercizio commerciale esplose numerosi colpi di arma da fuoco contro i malviventi causando la morte di Sebastiano Catania, figlio dell'ergastolano Alfio, considerato esponente di spicco del clan, e il ferimento di Fabio Pappalardo. Altra rapina di rilievo è quella commessa nell'aprile del 2008 all'agenzia di Francavilla di Sicilia (Messina) del Credito Siciliano, alla quale avrebbero preso parte Stefano Scuto e Camillo Brancato, per un bottino di 2.343 euro.

martedì 19 febbraio 2013

Napoli | Cocaina: il linguaggio segreto dei pusher.

La Droga spa, azienda da tremila posti I video| Le intercettazioni

di Daniela De Crescenzo
NAPOLI - Un’azienda che non paga contributi e non prevede liquidazioni. Un’impresa che assume i minori e li fa lavorare con il gelo e con il solleone, che non paga la pensione, ma solo i sussidi per i carcerati: e la Droga Spa che tra Napoli e provincia dà lavoro quasi a tremila persone. I calcoli sono presto fatti. Secondo la Squadra Mobile napoletana in città ogni mese arrivano tra i quattrocento e i cinquecento chili di cocaina, se si considerano anche eroina, crack, estasy, hashish, marjuana e anfetamine si arriva quasi a una tonnellata. Un terzo viene mandata fuori Napoli. I settecentocinquanta chili restanti viene diviso in tre milioni di bustine. Ogni spacciatore ne vende circa tremila al mese. Servono, quindi, mille pusher. Ai quali bisogna aggiungere, i pali, i trasportatori, quelli che custodiscono la droga e quelli che la tagliano. In tutto circa tremila persone.
Una volta recuperata la droga viene consegnata al capopiazza che generalmente la fa custodire da insospettabili. Dove? Dovunque: gli uomini della Narcotici la hanno trovata in bombole del gas, solai, pavimenti, tubature del bagno, ascensori, mobili con il doppio fondo. Periodicamente viene recuperata e distribuita nelle diverse zone.

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Gli spacciatori usano codici precisi per comunicare le droghe diventano pizze, magliette, scarpe, auto, euro e le prove della sostanza sui tossicodipendenti si trasformano in.Da effettuare, magari, dentro una scuola in disuso

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Capita anche, come si può ascoltare in un'intercettazione captata dagli investigatori
che il capopiazza e la staffetta non si capiscano.

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La cocaina diventa prima un'auto, poi cento euro, poi mele, banane e preservativi. Alla fine il malavitoso non ce la fa più e conclude .
Mettersi in contatto con i pusher, invece, è facilissimo: basta camminare nella zona giusta e spesso sono loro che ti avvicinano. E poi c’è la distribuzione con il sistema del porta a porta: i numeri di telefono utili vengono scambiati anche su internet.
E in rete si vendono on line soprattutto marjuana e smart drag che vengono recapitati a casa

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Nasce così una nuova generazione di consumatori che si affida al sito o allo spacciatore di fiducia. Ma anche per loro evitare la dipendenza è difficile

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Napoli, droga dalla Spagna, blitz contro le Teste Matte e gli Abbinante: 54 arresti


La droga arrivava dalla Spagna e veniva spacciata a Scampia e nei Quartieri Spagnoli


NAPOLI - I carabinieri del nucleo investigativo di Napoli, nel corso di un blitz in Italia e all'estero, hanno arrestato 54 persone ritenute affiliate ai clan camorristici degli 'Abbinantè e delle 'Teste Matte', destinatarie di un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa per associazione finalizzata al traffico di stupefacenti aggravata da finalità mafiose. L'operazione ha colpito affiliati ai clan che operano Scampia e ai Quartieri Spagnoli.

Nel corso delle indagini coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli i militari dell'Arma hanno documentato l'esistenza di gruppi criminali legati agli 'Abbinante' e alle 'Teste Matte', operanti a Scampia e nei Quartieri Spagnoli, che gestivano l'importazione di droga dalla Spagna e il rifornimento delle piazze di spaccio di Scampia e di altre regioni italiane.

'Ndrangheta duplice omicidio a Vallefiorita

Uccisi marito e moglie a colpi di kalashnikov

Trucidati all'uscita dalla propria abitazione Giuseppe Bruno e la moglie Natasha. Lo scorso anno la 'ndrangheta aveva ucciso anche il fratello di Bruno, Gianni. Sul posto sono giunti i carabinieri di Catanzaro e di Girifalco che hanno avviato le indagini. I due sono stati trucidati a colpi di kalashnikov.
 
di STEFANIA PAPALEO e AMALIA FEROLETO

VALLEFIORITA (CZ) - Sono caduti sotto decine di colpi di kalashnikov, esplosi questa notte, Giuseppe Bruno, 39 anni, e la moglie, Caterina Raimondi, 29. La coppia stava uscendo dalla propria abitazione alla periferia di Vallefiorita, in provincia di Catanzaro, quando i killer hanno aperto il fuoco con l'arma di grosso calibro. Sul duplice omicidio indagano i carabinieri del comando provinciale di Catanzaro, guidati dal colonnello Giorgio Naselli, insieme ai colleghi della compagnia di Girifalco.
Giuseppe era il fratello di Gianni Bruno, ucciso lo scorso anno sotto i colpi della ndrangheta. Giuseppe Bruno, potrebbe avere tentato di allargare il proprio ruolo nell’ambito della criminalità organizzata. È questa l’ipotesi investigativa su cui stanno lavorando i carabinieri del Reparto operativo provinciale di Catanzaro insieme ai colleghi della Compagnia di Girifalco, sotto la cui giurisdizione si trova il comune di Vallefiorita. Bruno sarebbe stato a capo del clan che controllava il centro del catanzarese, avendo preso il posto del fratello Gianni ucciso in un agguato tre anni fa. Ma l’uomo, sempre secondo l'ipotesi che i militari dell’Arma considerano più attendibile, avrebbe tentato di espandere il proprio potere anche fuori dal paese, scontrandosi con altre cosche. Da qui la decisione di ucciderlo, mettendo in piedi un agguato in pieno stile mafioso, compiuto a colpi di kalashnikov e che non ha risparmiato nemmeno la giovane moglie del presunto boss.
Sono oltre trenta i colpi di kalashnikov sparati dai killer che hanno ucciso Giuseppe Bruno e la moglie, Caterina Raimondi. Bruno è stato raggiunto al torace, mentre la moglie è stata colpita al volto ed i proiettili l’hanno completamente sfigurata. Quando i carabinieri sono giunti sul posto, hanno trovato una scena raccapricciante, con macchie di sangue ovunque. Marito e moglie stavano salendo a bordo della loro automobile, una Toyota Rav4, quando almeno una persona si è avvicinata ed ha iniziato a sparare con un kalashnikov, trovato vicino ai corpi. Bruno e la moglie sono morti all’istante. Subito dopo il killer ha abbandonato l’arma vicino ai cadaveri ed è fuggito. Una persona che si trovava casualmente a passare nei pressi dell’abitazione dei coniugi ha notato i fari dell’automobile accesi, ma non si è fermata. Successivamente, facendo ritorno da un distributore di carburante, ha deciso di avvicinarsi alla Toyota ed ha scoperto il duplice omicidio. Successivamente sono intervenuti i carabinieri. Bruno, che era noto alle forze dell’ordine, era proprietario di un’agenzia di viaggi e gestiva un bar. Caterina Raimondi, invece, gestiva un negozio per la vendita di detersivi. La coppia era sposata da diversi anni, ma non aveva figli. Subito dopo l’omicidio i carabinieri hanno sentito numerose persone, tra cui anche amici e familiari delle due vittime. Gli investigatori stanno cercando di ricostruire gli ultimi spostamenti della coppia prima dell’agguato.
E' la Dda di Catanzaro a dirigere le indagini dei carabinieri sul duplice omicidio. Il Procuratore della Repubblica di Catanzaro e capo della Dda, Vincenzo Antonio Lombardo, ha evidenziato che «l'obiettivo del duplice omicidio era Bruno, mentre la moglie è stata uccisa perchè presente sul luogo del delitto nel momento sbagliato. Nella zona di Soverato – ha aggiunto – dopo gli arresti compiuti c'è un vuoto di potere negli ambienti della criminalità organizzata. L’unica cosa che si può dire è che molte vicende nascono sulla volontà di predominio da parte dei gruppi criminali della zona. Il predominio del monopolio delle estorsioni è ritenuto fondamentale. Speriamo di poter dare una risposta in tempi brevissimi anche sul duplice omicidio avvenuto a Vallefiorita».

Preso in Germania il latitante Davide Sestito

Accusato di omicidio nella faida del Soveratese

L'uomo era stato colpito da un provvedimento di fermo nell'operazione "Showdown", portata a termine dai carabinieri lo scorso mese di ottobre. L'inchiesta colpì i presunti componenti della cosca Sia, Procopio, Tripodi, contrapposta a quella dei Gallace-Novella per il controllo del territorio. Le indagini partirono dopo l'assassinio di Giuseppe Todaro
 
di SAVERIO PUCCIO


CATANZARO - I carabinieri del Comando provinciale di Catanzaro hanno tratto in arresto il latitante Davide Sestito. L'uomo è stato rintracciato in Germania ed era sfuggito all'operazione "Showdown", nella quale era stato raggiunto da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere con l'accusa di omicidio. L'operazione era stata portata a termine lo scorso mese di ottobre ed aveva portato all'emissione di 18 provvedimenti di fermo nei confronti di altrettanti presunti affiliati al clan Sia-Procopio-Tripodi. La cosca, secondo l'accusa, avrebbe gestito il comprensorio del soveratese, fino allo scontro che aprì la faida nella zona. che ha la sua base operativa nella zona di Soverato. Dei diciotto provvedimenti emessi dalla Dda di Catanzaro, ne furono eseguiti 14 e le accuse per i destinatari sono l'associazione per delinquere di tipo mafioso, omicidio, sequestro di persona, estorsione, rapina e ricettazione.
Le indagini che hanno portato ai fermi erano partite nel dicembre del 2009 con la scomparsa di Giuseppe Todaro, presunto affiliato alla cosca Gallace-Novella, in contrasto con quella dei Sia-Procopio-Tripodi. Todaro sarebbe stato ucciso per una vendetta mafiosa ed il suo cadavere fatto sparire. L’indagine scaturita dall’omicidio e diretta dal pm della Dda di Catanzaro Vincenzo Capomolla, ha consentito di delineare compiti e ruolo degli indagati nell’ambito del "locale" di 'ndrangheta attivo sin dal 2002 nella fascia jonica catanzarese.
Il latitante era riuscito a fuggire dall’ordinanza di fermo emesso a dicembre del 2011. E da lì era riuscito a raggiungere prima la Spagna e poi la Germania. Dietro, con tutta probabilità, una buona rete di copertura, ma anche l’abilità dell’uomo, accusato di associazione a delinquere di stampo mafioso e indiziato anche del delitto del cognato Giuseppe Todaro, il cui corpo non è stato mai ritrovato. Sestito comunicava con la famiglia, rimasta in provincia di Catanzaro, attraverso un codice numerico, da qui il nome all’operazione: “Number”. I carabinieri del Reparto operativo provinciale, guidati dal colonnello Giorgio Naselli, sono riusciti a codificare i messaggi inviati alla moglie e a scoprire che era stato fissato un appuntamento per il ricongiungimento. A quel punto sono scattati una serie di servizi tra la Spagna, la Francia e la Germania. La donna è stata seguita per diversi giorni, fin quando è partita prima alla volta di Milano, poi per Torino, quindi di nuovo a Milano, dove si è fermata in un albergo. Improvvisamente la partenza per la Germania via Austria, in treno. Destinazione la città di Saarbruken, vicino Stoccarda. E’ qui che gli uomini dell’Arma hanno atteso movimenti, fin quando è arrivata un’autovettura con a bordo il latitante, accompagnato da un uomo di nazionalità italiana sulla cui posizione sono in corso indagini. Sestito non ha opposto resistenza, ma ha avuto un lieve malore. I particolari dell’operazione sono stati resi noti nel corso di una conferenza stampa che si è svolta nella sede del Comando provinciale di Catanzaro, alla presenza del colonnello Salvatore Sgroi, comandante provinciale; del colonnello Naselli; del procuratore Vincenzo Antonio Lombardo e dell’aggiunto Giovanni Bombardieri.
Sgroi ha sottolineato le difficoltà che sono state superate per arrivare sulle tracce dell’uomo, mentre Naselli ha evidenziato «l’alta professionalità della polizia tedesca e la collaborazione di tutte le polizie europee interessate». Il procuratore Lombardo ha sottolineato come «Sestito è stato inseguito in molti stati europei. Si tratta – ha aggiunto – di un personaggio che ha avuto anche ruoli dirigenziali nella cosca Sia-Tripodi-Procopio, considerato vicino al gruppo e in autonomia rispetto alla cosca Gallace di Guardavalle. Lui è sospettato di essere il killer del cognato, Giuseppe Todaro. Analoga parentela c’era con Ferdinando Rombolà, anch’egli rimasto ucciso. I tre, infatti, avevano sposato tre sorelle». L’aggiunto Bombardieri si è soffermato sul lavoro di intelligence compiuto dai carabinieri, mentre Naselli ha poi ricostruito le indagini portate avanti prima dell’arresto. Sestito è stato rinchiuso in carcere in Germania, in attesa dell’estradizione che dovrebbe avvenire presto.

«Agricoltura soffocata dalle mafie»: Crocetta invia gli ispettori al Comune di Pachino

«Forte interesse della criminalità sulle produzioni locali». Malumori sulla giunta, controlli in arrivo


di SEBASTIANO DIAMANTE
PACHINO. “Il pomodoro di Pachino stretto nella morsa tra mafia e camorra”. Il Governatore siciliano, Rosario Crocetta, dal palco del cineteatro “Politeama”, ha lanciato l’allarme: ci sarebbero le ombre dei clan ad aleggiare sul commercio dei prodotti ortofrutticoli. Ed ha anche annunciato l’invio degli ispettori regionali al Comune, per verificare l’attività amministrativa. Nonostante le due ore di ritardo, ad attendere il presidente della Regione domenica pomeriggio c’era un cineteatro stracolmo di gente. “Questo è il segnale – ha spiegato Crocetta -, di una Sicilia che vuole cambiare, che si sta alzando in piedi e che non accetta più di essere governata nel modo in cui lo è stata in passato. Una Sicilia in ginocchio, distrutta nel suo tessuto economico, morale, sociale”. L’attenzione del Governatore non poteva non concentrarsi su una agricoltura “che è stata totalmente colpita dalle politiche comunitarie – ha detto il presidente della Regione - e dal governo nazionale. Pachino è una delle zone più belle per l’agricoltura siciliana, dove ci sono grandi prodotti di qualità. Però questi prodotti sono costretti a convivere con la concorrenza selvaggia delle merci che vengono dall’estero”. Rosario Crocetta ha bocciato l’accordo col Marocco ed ha annunciato che il suo governo sta lavorando per dare risposte concrete agli agricoltori. “Dobbiamo puntare sul prodotto a “chilometro zero” – ha sottolineato Rosario Crocetta - ed intervenire su chi commercializza in Sicilia: i prodotti siciliani all’andata vanno col clan Santapaola e ritornano con i Casalesi. E nel frattempo il pomodoro è aumentato di prezzo e gli agricoltori non ci hanno guadagnato nulla. Bisogna evitare la “manciugghia”, la corruzione, la criminalità”. Non solo agricoltura al “Politeama”. Gli ex dipendenti della catena di market “Despar” hanno manifestato il loro malcontento con uno striscione con su scritto “Crocetta ridacci la dignità col nostro lavoro”. E dalla platea si sono alzate le urla di protesta dei cittadini. “Vogliamo gli stipendi e la legalità a Pachino – hanno gridato -, i soldi quando finiscono al Comune si fermano lì”. E Rosario Crocetta non ha perso tempo ad annunciare un approfondimento di quanto accade al palazzo di via XXV Luglio. “Noi vogliamo città che funzionino – ha dichiarato il presidente della Regione – e se il malcontento arriva ai livelli in cui è arrivato sino in questa sala, significa che qualcosa non funziona. Manderò degli ispettori della Regione e verranno a valutare in che modo governa questa amministrazione comunale”.

Mafia, omicidio Nangano: la verità nelle telecamere?

La polizia scientifica ha acquisito stamattina e sta esaminando le immagini girate dalla videocamera piazzata fuori dall'esercizio commerciale che si trova sul luogo dell'agguato per cercare di risalire all'identità dei due sicari che hanno affiancato la vittima in scooter, dopo averla seguita, e gli hanno sparato sei colpi con una calibro 9

 
PALERMO. Potrebbe essere nelle videocamere a circuito chiuso di un negozio di tabacchi la chiave dell'omicidio di Francesco Nangano, ucciso sabato sera da due killer in via Messina Marine, a Palermo. La polizia scientifica ha acquisito stamattina e sta esaminando le immagini girate dalla telecamera piazzata fuori dall'esercizio commerciale che si trova sul luogo dell'agguato per cercare di risalire all'identità dei due sicari che hanno affiancato la vittima in scooter, dopo averla seguita, e gli hanno sparato sei colpi con una calibro 9. Un proiettile si è conficcato nello sportello dell'auto di Nangano, cinque - uno dei quali è ancora all'interno del cadavere - lo hanno raggiunto. Gli assassini non hanno dato alla vittima il colpo di grazia. Al vaglio degli inquirenti ci sono i nuovi assetti della cosca di Brancaccio per capire a chi dava fastidio Nangano, già oggetto di intimidazioni. Secondo quanto accertato l'uomo processato e assolto dalle accuse di omicidio e associazione mafiosa, faceva estorsioni e stava cercando di assumere un ruolo di leadership nel traffico di droga: una sorta di tentativo di scalata del clan che sarebbe stato fermato. L'ordine di eliminare Nangano potrebbe essere venuto dal carcere. Inoltre agli inquirenti sarebbero venuti degli input importanti dal Servizi segreti che avrebbero indicato nel boss Nino Sacco, esponente di spicco della cosca di Brancaccio, attualmente detenuto, uno dei personaggi che avrebbero avuto interesse a eliminare il boss emergente.

sabato 16 febbraio 2013

Scoperto falso dentista, lo studio degli orrori nella taverna di casa



Da 10 anni esercitava la professione di dentista, operando decine di pazienti, senza aver mai conseguito nessuna laurea. Scoperto dalla Guardia di Finanza a Tortona, in provincia di Alessandria, un falso dentista che per la sua professione di odontotecnico dichiarava al fisco 6mila euro annui ma risulta proprietario di 53 immobili tra terreni (4) e fabbricati (10).

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Il falso dentista riceveva nella taverna di casa, dove aveva attrezzato un ambulatorio privo di strumenti per la sterilizzazione degli attrezzi, con farmaci spesso scaduti da anni. Sicuro del fatto suo, tanto che è andato ad aprire alle Fiamme Gialle con la mascherina sul viso, il falso dentista praticava tariffe assolutamente concorrenziali, spesso abbattute del 50% rispetto ai normali prezzi di mercato.

Le agende sequestrate hanno confermato l'alto numero di pazienti. Le indagini delle Fiamme Gialle di Alessandria sono ora indirizzate ad identificare i veri professionisti che devono aver aiutato l'odontotecnico nell'esercizio della sua abusiva attività odontoiatrica, anche attraverso la consegna di farmaci, alcuni dei quali trovati scaduti da anni. Nel corso dell'operazione è stato sequestrato il locale adibito a studio medico, le attrezzature utilizzate, numerose protesi, siringhe ed attrezzature medicali. Diversi strumenti utilizzati per ispezionare il cavo orale sono stati trovati in un secchio, in ammollo in una soluzione di acqua e di un detergente casalingo per acciaio inox, tipicamente utilizzato per pulire il piano gas.

Nei locali perquisiti è stata poi trovata una copiosa documentazione medico-sanitaria dei pazienti, i quali saranno chiamati a raccontare ai militari le tipologie di terapia ricevute. La Guardia di Finanza ha denunciato l'uomo all'Autorità Giudiziaria per esercizio abusivo di professione medica. Le indagini procederanno ovviamente anche per ricostruire il reale giro d'affari del soggetto, alla luce dei guadagni assolutamente irrisori dichiarati.

Yara, sarà riesumata la salma del padre del presunto assassino


Le tracce di Dna trovato sul corpo della ragazza portano a un autista di Gorno
Svolta a sorpresa negli ultimi giorni di indagini sul sequestro e l’omicidio di Yara Gambirasio. È stato deciso di riesumare la salma di quello che si ritiene essere il padre dell’assassino.

Le indagini sul Dna ritrovato sul corpo della ragazzina hanno infatti portato a ritenere che il padre dell’omicida sia un autista di Gorno, in Val del Riso, morto nel 1999. Un figlio che però l’uomo avrebbe avuto al di fuori del matrimonio, con una donna di cui non si è ancora scoperto l’identità. Su pressione del perito di parte in vista della chiusura delle indagini prevista per il 26 febbraio, la Procura ha deciso di riesumare la salma dell’uomo, per poter prelevare dei campioni di Dna ed essere sicuri della validità della pista. L’operazione dovrebbe essere compiuta in tempi brevi.

Camorra, preso boss latitante da 13 anni

Era tra i ricercati più pericolosi
L'uomo ha tentato inutilmente di fuggire quando era già circondato. Il ministro Cancellieri si congratula con i carabinieri


CASERTA - È finita dopo 13 anni la latitanza di Giovanni Esposito, 48 anni, capo dell'omonimo clan detto dei 'Muzzonì. Esposito è stato arrestato dai carabinieri del Reparto operativo del comando provinciale di Caserta. I militari lo hanno arrestato mentre si trovava a Roncolise, nel casertano, vicino a Sessa Aurunca, zona dove è egemone il clan Muzzoni.

GUARDA IL VIDEO DEL BLITZ

LA FOTOSEQUENZA DELL'ARRESTO

Al momento dell'arrivo dei carabinieri, Esposito si trovava in compagnia di una donna di 51 anni e del figlio di 25. Il boss ha tentato di fuggire ma è stato bloccato dai carabinieri che avevano circondato l'intera zona. Esposito è stato trovato in possesso di una pistola calibro 9, l'arma preferita dai killer della camorra. A Esposito sono state consegnate diverse ordinanze di custodia cautelare, una delle quali per omicidio e altre per associazione mafiosa.

L'arresto di Giovanni Esposito è avvenuto in mattinata: il latitante aveva trovato rifugio in un'abitazione su due livelli con un'uscita verso la campagna, un escamotage studiato - è stato sottolineato dal maggiore Alfonso Pannone, responsabile del Reparto operativo del comando provinciale dei carabinieri di Caserta - per avere più possibilità di fuga. Quando i militari dell'Arma hanno capito, attraverso un'attività di osservazione, controllo e pedinamento, che Esposito era in quella casa, è scattato il blitz.

Passando da strade secondarie, per non essere individuati, una quarantina di carabinieri in borghese ha circondato l'abitazione per precludere al latitante ogni via di fuga. A loro, poi, se ne sono aggiunti una trentina in divisa. Esposito ha tentato di fuggire ma ha capito che, ormai, non c'era più nulla da fare e si è arreso. Subito ha comunicato alle forze dell'ordine che in casa aveva una pistola e numerose munizioni. L'uomo, malgrado i 13 anni di latitanza, è apparso estremamente somigliante alle foto segnaletiche.

A differenza di altri latitanti «di caratura», però, non viveva in condizioni di agiatezza: si accontentava di poco e non usava mezzi tecnologici, come telefoni cellulari e computer. Gli ordini li impartiva a voce, proprio per rendere più difficile la sua cattura. Il clan dei Muzzoni ha una sua zona di influenza nell'Alto Casertano e nel basso Lazio.

Il ministro Cancellieri. Il ministro dell'Interno, Annamaria Cancellieri, ha telefonato al comandante generale dell'Arma dei Carabinieri, Leonardo Gallitelli, per congratularsi dell'operazione, eseguita dal Nucleo Investigativo del comando provinciale di Caserta, che ha portato alla cattura di Giovanni Esposito, pericoloso latitante dal 2000. «L'arresto di Esposito - ha commentato il ministro Cancellieri - è un altro successo dello Stato nella lotta alla criminalità organizzata che testimonia l'efficacia e l'importanza della collaborazione tra magistratura e forze dell'ordine»

Il generale Gualdi. «L'encomiabile impegno dei Carabinieri della Campania e, nel caso specifico, del Reparto Operativo di Caserta che, con grande professionalità e diuturno impegno, continuano a conseguire importantissimi risultati operativi nel contrasto alla criminalità organizzata» è stato sottolineato dal Generale di Corpo d'Armata Maurizio Gualdi, Comandante Interregionale Carabinieri 'Ogaden'. Gualdi ha espresso «il più vivo compiacimento» al Comandante della Legione Carabinieri Campania, Generale di Divisione Carmine Adinolfi, ed al Comandante Provinciale di Caserta, Colonnello Giancarlo Scafuri, per la cattura, da parte dei militari di quel Comando Provinciale, di Giovanni Esposito, capo del clan dei «Muzzoni» operativo nella zona di Sessa Aurunca, ricercato da 13 anni per associazione di tipo mafioso, omicidio, estorsione e altri reati.

Pedofilia, adesca minorenne online: scoperto dalla polizia

E' uno dei primi casi in Italia in cui è applicata la norma, introdotta lo scorso ottobre dalla ratifica della Convenzione di Lanzarote, che ha previsto come reato l'adescamento di minorenni

CATANIA. Un uomo di anni 35, residente in provincia di Siracusa, è stato denunciato alla Procura
Distrettuale della Repubblica di Catania dalla Polizia Postale e delle Comunicazioni perché ritenuto responsabile di adescamento on-line di minorenne. E' uno dei primi casi in Italia in cui è applicata la norma, introdotta lo scorso ottobre dalla ratifica della Convenzione di Lanzarote, che ha previsto come reato l'adescamento di minorenni.

L'indagine era stata avviata dopo una segnalazione dell'associazione Meter di don Fortunato Di Noto che aveva ricevuto il racconto di un genitore il cui figlio di 11 anni era stato contattato da uno sconosciuto sul social network Facebook ed era stato oggetto di alcune proposte di natura sessuale. La Procura Distrettuale ha immediatamente autorizzato la polizia postale ad agire sottocopertura e dopo avere conquistato la fiducia del presunto pedofilo, fingendosi un bambino di anni 11, i poliziotti sono riusciti ad ottenere un appuntamento con il soggetto al quale si sono presentati gli agenti che lo hanno identificato.

Una perquisizione è stata compiuta nell'appartamento dell'indagato con sequestro del materiale informatico rinvenuto. Sono in corso indagini per comprendere se altri minori siano stati adescati dal denunciato.

Il racket delle case popolari: 14 arresti a Palermo

Blitz della squadra mobile e della Dia. Smantellato un clan che gestiva assegnazioni abusive ed estorsioni allo Zen

 
PALERMO. Avrebbero gestito l'assegnazione abusiva di case popolari nel quartiere Zen, oltre al controllo sistematico del territorio con estorsioni e altre attività criminali. E' questa l'accusa contestata ai componenti di un clan che è stato smantellato a Palermo in seguito a una vasta operazione antimafia che è tuttora in corso. Gli agenti della Squadra Mobile hanno eseguito, in collaborazione con la Dia, 14 provvedimenti di fermo emessi dalla Dda per i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso, tentata estorsione, violenza privata aggravata ed estorsione aggravata.
Le indagini hanno accertato che i componenti del clan, utilizzando la forza di intimidazione tipica di Cosa Nostra, imponevano agli abitanti dei padiglioni ed alle attività commerciali della zona il pagamento di una somma di denaro, gestivano direttamente l'assegnazione delle case popolari attraverso un mercato parallelo ed illegale e interferivano su ogni iniziativa economico-imprenditoriale. L'organizzazione si occupava anche di far presidiare fisicamente da persone di fiducia gli alloggi popolari lasciati liberi dai legittimi assegnatari che avrebbero così perso il diritto alla casa. L'immobile veniva successivamente "riassegnato" dietro un compenso non inferiore ai 15 mila euro.
UN AFFARE DA UN MILIONE D EURO ALL'ANNO. C'è il sensale che si occupa delle compravendite e il capo padiglione che raccoglie i soldi per i carcerati. Allo Zen il racket delle case popolari è un affare da 840 mila euro all'anno. Questa la stima fatta dagli inquirenti che hanno coordinato le indagine dell'operazione che ha portato a 14 arresti delle famiglie mafiose del quartiere Zen di Palermo. Secondo i pentiti, ogni famiglia occupante deve versare 5-10 euro al mese (per acqua e luce con allacci abusivi), in ogni padiglione vivono da 200 a 250 famiglie e ci sono 33 padiglioni per un totale di 70 mila euro al mese. «Là c'è sempre un sensale che è un ragazzo che ha fatto dei nominativi - mette a verbale il collaboratore Manuel Pasta -, che sa tutte le case che vendono, più ci sono a volte questi condomini che sono là, sanno che ci sono case vuote. Sappiamo che c'è una famiglia che si è allontanata, si organizza di scassarla, ci metto uno dentro ed è già casa mia. Poi viene uno e la vendo. Le case che hanno gli assegnatari costano circa 60 mila euro, meno quelle senza nominativo». Allo Zen 1 i prezzi salgono: «Sono 130-140 mila euro per quelle assegnate - dice - quelle senza nominativo vengono 70 mila euro. Lì è come se ci fosse lo Stato rappresentato da Cosa nostra, come se ci fosse l'Istituto delle case popolari, dove la gente si rivolge a qualche soggetto che fa parte della cosca dello Zen e gli dice: a me interessa una casa popolare. Quello, come un vero e proprio ufficio, si interessa di trovare l'alloggio più adeguato, di stabilire il prezzo, decidere a chi assegnarla e a chi no».
IL PENTITO: "LE CASE DELLO ZEN SONO IN MANO ALLA MAFIA." La mafia si sostituisce allo Stato allo Zen di Palermo e assegna le case popolari, con le buone o con le cattive. Il quadro che emerge dall'operazione che questa mattina ha portato a 14 misure di ordinanza cautelare è stato descritto in particolare dal pentito Salvatore Giordano. «Hanno bisogno di prendere le case - racconta ai pm -, che poi vendono. Le fanno occupare da famiglie che hanno tre o quattro figlì, così che le forze dell'ordine non provvedono allo sgombero coatto perchè si trovano di fronte a nuclei familiari con più figli minori». Una tecnica che prevede anche l'uso delle maniere forti. «E poi ti ricinu tu tinn'agghire ri ccà...u ieccano, l'ammazzano a bastonate (e poi ti dicono. tu te ne devi andare da qui, lo buttano a terra, l'ammazzano a bastonate)», dice Giordano. Quando il pm ribatte che gli alloggi sono dell'Istituto autonomo case popolari, Giordano ribatte: «Lasci stare, sunnu i nuostre, un su ri case popolari, su nuostre (sono nostre, non sono delle Case popolari, sono nostre)». Gli edifici, come racconta il collaboratore, se servivano a Cosa nostra, venivano sgomberati con la forza e occupati, poi anche venduti a 15-20 euro ciascuno. Ma c'era anche la raccolta «per i carcerati». Se ne occupava anche Giordano che era il responsabile dei condomini. «Dieci euro a famiglia - spiega - ma le case non sono tutte occupate da persone, alcune unità servono anche per la produzione e deposito di droga».
 
Racket delle case popolari, i nomi degli arrestati

Sono 14 i provvedimenti di fermo emessi nell'ambito dell'inchiesta sul racket che gestiva l'assegnazione di case popolari allo Zen

PALERMO. Sono 14 i provvedimenti di fermo emessi nell'ambito dell'inchiesta sul racket che gestiva l'assegnazione di case popolari allo Zen, coordinata dalla procura di Palermo.

I provvedimenti eseguiti dalla squadra mobile e dalla Dia di Palermo sono scattati per Antonino Pirrotta di 48 anni, Salvatore Vitale di 56; Letterio Maranzano, di 27; Giuseppe Covello, di 51; Giovanni Di Girolamo, di 48; Michele Moceo, di 34; Rosario Sgarlata, di 45; Franco Mazzé, di 44; Giovanni Ferrara, di 37; tutti accusati anche di associazione mafiosa. Fermati anche i componenti di un nucleo familiare coinvolto nell'occupazione di un'abitazione: Antonino Maranzano di 43 anni, Antonino Spina di 22, Salvatore Spina di 31 e Angela Spina di 28.

Parchi eolici e mafia, 5 arresti In manette anche un sindaco


Non si conosce ancora il nome del primo cittadino del Messinese coinvolto, indagato per concorso in concussione. Le indagini hanno permesso di individuare un sistema illecito di affidamento degli appalti e dei lavori per la realizzazione degli impanti Alcantara-Peloritani e Nebrodi
MESSINA. I carabinieri di Barcellona Pozzo di Gotto e di Patti hanno eseguito un provvedimento di custodia cautelare in carcere, emesso dal Gip del Tribunale di Messina, su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia, nei confronti di cinque persone ritenute responsabili, a vario titolo, di concorso esterno in associazione mafiosa, truffa, estorsione aggravata dal metodo mafioso e concussione.Tra gli arrestati anche un sindaco ed un funzionario comunale di uno dei comuni coinvolti indagati per concorso in concussione.Le indagini, avviate nel 2009, hanno permesso di individuare un sistema illecito di affidamento degli appalti e dei lavori per la realizzazione dei Parchi eolici denominati rispettivamente 'Alcantara-Peloritani' e 'Nebrodi'. Dalle indagini è emersa la distrazione di risorse in favore di imprese contigue, il ritardo nel rilascio di alcune autorizzazioni per costringere la società appaltatrice ad affidare i lavori a determinate ditte, e la mancata adozione di provvedimenti, da parte dei tecnici della società appaltatrice, di fronte alla non regolare esecuzione delle opere e nell'impiego di materiali più scadenti rispetto a quelli previsti.



E' FRANCESCO PETTINATO, IL SINDACO DI FONDACHELLI, AD ESSERE STATO ARRESTATO. Fra gli arrestati dai carabinieri, nell'ambito dell'operazione finalizzata a individuare un sistema illecito di affidamento degli appalti e dei lavori per la realizzazione dei Parchi eolici denominati rispettivamente 'Alcantara-Peloritanì e 'Nebrodì, c'è il sindaco di Fondachelli Fantina (Messina), Francesco Pettinato, medico di 57 anni. Il primo cittadino del Comune del Messinese risulta coinvolto nella vicenda, assieme a un funzionario del Comune e ad altre tre persone.


I NOMI DEGLI ALTRI ARRESTATI. Le persone arrestate stamani dai carabinieri nell'ambito dell'indagine sui parchi eolici sono gli imprenditori Michele Rotella 73 anni, Santi Bonanno, 47 anni, Giuseppe Pettinato, 56 anni, il sindaco di Fondachelli Fantina (Messina) Francesco Pettinato, 56 anni, e il funzionario dello stesso Giuseppe Catalano, 59 anni. Sono accusati a vario titolo, a vario titolo, di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, truffa, estorsione aggravata. Le indagini, avviate nel 2009, hanno permesso di individuare un sistema illecito di affidamento degli appalti e dei lavori per la realizzazione dei Parchi eolici e che prevedevano la realizzazione di 63 aerogeneratori per una potenza complessiva di 57.6 MW, distribuiti su due lotti. Il sindaco di Fondachelli Fantina è indagato in concorso con il funzionario del Comune perchè, dopo l'inizio dei lavori, ha sospeso la loro esecuzione ritardando il rilascio delle autorizzazioni relative al loro prosieguo, al fine di costringere la società appaltatrice ad affidare ad una ditta riconducibile ad un parente i lavori per la costruzione di alcune Sottostazioni di raccordo elettrico, e a far assumere persone da lui segnalate. Inoltre, i tecnici della società appaltatrice preposti al controllo hanno permesso delle gravissime anomalie, consistite nella non regolare esecuzione delle opere e nell'impiego di materiali diversi da quelli previsti ed assai più scadenti. Nell'inchiesta risultano indagate altre 11 persone, ritenute responsabili a vario titolo di truffa in concorso, poichè nell'esecuzione dei lavori di realizzazione dell'impianto eolico avrebbero utilizzato materiali e modalità di lavorazione non conformi al capitolato d'appalto.