lunedì 29 aprile 2013

L’attentatore di Palazzo Chigi: «Volevo colpire i politici»



Preiti interrogato per due ore: «Ho visto una divisa e ho fatto fuoco. I carabinieri rappresentano le istituzioni»



di Valentina Errante e Cristiana Mangani

ROMA - Mischia lucidità e lacrime, disperazione e ansia. Luigi Preiti, è l’unico responsabile dell’attentato davanti a Palazzo Chigi, risponde alle domande dei magistrati e, in un paio d’ore di interrogatorio, racconta la sua verità. «A 50 anni non si può sopportare di tornare a vivere dai genitori», dice al procuratore aggiunto Pierfilippo Laviani e al pm Antonella Nespola che lo ascoltano in ospedale poco dopo l’arresto. È un uomo lucido, questo calabrese di Rosarno, che nella vita faceva il piastrellista ad Alessandria. È separato, ha un figlio di undici anni e, ormai da tempo, non ha più un lavoro. «Per questa ragione non riesco ad avere un rapporto decoroso con mio figlio - si dispera - e loro, i politici, mangiano, bevono, non si preoccupano di noi e di quello che ci stanno facendo». Poi piange, quasi con i singhiozzi, tanto che uno dei carabinieri presenti all’interrogatorio mostra comprensione, gli dà una pacca sulla spalla, quasi per incoraggiarlo. «È per questo - continua Preiti - che ho pensato di commettere un gesto eclatante, qualcosa che potesse lasciare un segno, perché non ne potevo più di questi stronzi. L’idea mi è venuta una ventina di giorni fa, l’ho preparata nel dettaglio. Sono arrivato davanti a Palazzo Chigi, i carabinieri stavano mettendo le transenne, parlavano tra di loro, ho visto una divisa e ho sparato. Per me rappresentavano le istituzioni. Ma io non ce l’ho con loro, ce l’ho con i politici».

L’ARMA
I magistrati incalzano, vogliono particolari, spiegazioni. Come ha avuto l’arma? Dove l’ha comprata? E cosa pensava di ottenere con questo gesto? E lui replica insistendo sui drammi, la solitudine, la precarietà. «Ma avete visto quanta gente si uccide? E quella donna che ha strangolato il figlio a Bergamo? Oddio, ora le televisioni avranno dato il mio nome, penso a quello che mio figlio starà provando in questo momento. La mia famiglia». La pistola, una Beretta 7,65, con la matricola abrasa, di provenienza illecita, dice di averla comprata al mercato nero a Genova, qualche anno fa. Poi ricostruisce: «Sono partito sabato da Gioia Tauro, in treno, mi sono fatto prestare i soldi da mia madre. Avevo in tasca 50 cartucce. Mi ero preparato a questo gesto, avevo anche provato se la pistola funzionasse: avevo sparato in campagna, in Calabria. Sono arrivato intorno alle 16 all’hotel Concorde, vicino alla stazione. La mattina dopo, mi sono preparato e sono uscito. Non c’era nessuno a fermarmi. Ho scelto il giorno del giuramento dei ministri, proprio perché era una data simbolica. Ho sparato sette colpi, nove cartucce le ho tenute nel marsupio, altre nella giacca».
Ai pm appare lucido, non è un folle, dicono, semmai una persona pressata dagli eventi. Il dubbio, però, che possa nascondere qualcosa, rimane. Analizzeranno meglio i tabulati telefonici, la documentazione e, soprattutto, vedranno se la Beretta usata per colpire abbia sparato in altre occasioni. Chi gliel’ha fornita? Resta il sospetto che possa essergli stata ceduta dalla criminalità organizzata calabrese.

LA DINAMICA
Ieri mattina, le telecamere di piazza Colonna lo riprendono mentre arriva sul posto intorno alle 10,30. Un’ora dopo, quando il neo ministro alla Sanità, Beatrice Lorenzin, presta il suo giuramento davanti al presidente della Repubblica, Preiti impugna l’arma e fa scoppiare il finimondo. «Alla fine mi sarei voluto uccidere - sostiene ancora a verbale - Ma non ci sono riuscito, non c’erano più cartucce. Sono disperato, però non odio nessuno». Gli investigatori che lo hanno bloccato subito dopo la sparatoria, dicono che è stata una fortuna che la pistola si sia inceppata, altrimenti l’uomo avrebbe continuato a sparare. E che quando ha visto che l’arma era bloccata, avrebbe tentato di fuggire. La procura e i carabinieri del nucleo investigativo di Roma valuteranno tutti questi aspetti, prima di liquidare il gesto di Preiti come quello di un disperato. Anche se sembrano più che convinti che abbia agito da solo.

LA DIFESA
Oltre al tentato omicidio, al porto e alla detenzione di armi, gli verrà contestata la premeditazione, perché tutto era stato pianificato. L’avvocato Mauro Danielli, che lo assiste, spiega che si è trattato «del gesto di un uomo che non aveva più nulla, una persona vicina alla depressione, che non riusciva ad avere un rapporto decoroso con il figlio. Avrebbe voluto morire - aggiunge il legale - e quando ha saputo di quanto uno dei feriti fosse grave si è straziato dal dolore». Lo psichiatra che lo ha visitato, ha chiesto che venisse mantenuta nei suoi confronti la maggiore attenzione possibile: rischia episodi di autolesionismo. I pm hanno preferito trasferirlo nella struttura riservata ai detenuti dell’ospedale Pertini, la stessa dove era ricoverato Stefano Cucchi. Domani sarà sottoposto a interrogatorio di garanzia.

I DUBBI
Sebbene le indagini siano orientate verso l’episodio isolato, qualche dubbio resta. Nel lungo sfogo davanti ai pm, Preiti ha anche ammesso di fare uso di cocaina. «Sono un consumatore - ha spiegato - Non ho mai avuto problemi di salute, sono sempre stato bene, meno che negli ultimi tempi: prendo gli ansiolitici, il sonno non arriva». Il pm Nespola insiste sulla dinamica e il movente. L’aggressore risponde: «Dottoressa, cosa volete sapere ancora? Dopo che vi ho detto che ho sparato io, che ho fatto tutto da solo, che la mia famiglia, i miei fratelli, non sanno nulla. Vi ho detto ogni cosa. Questa è la verità. Nella desolazione della mia vita, volevo solo lasciare un segno».

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