lunedì 15 luglio 2013

Delitto Fragalà, il pizzino di Nicchi


 I pm: «Ucciso per il suo lavoro» Si fa strada il possibile movente dello «sgarbo» per le indicazioni ai suoi assistiti. Per la Procura il legale sconsigliava strategie omertose: i boss non avrebbero gradito

 

di SANDRA FIGLIUOLO
PALERMO. «Poi non c’è bisogno che mi dici che dell’indegno non ne parli e scontato uno come lui ne puo parlare ancora e poi schifo lo fa lui non quello che a scritto nel giornale». Con qualche errore di ortografia, questo è il contenuto di un pizzino, che secondo gli investigatori, il «re del pizzo» Gianni Nicchi, «delfino» allora latitante del boss di Pagliarelli, Nino Rotolo, scrisse il 19 aprile del 2009 - ovvero poco meno di dieci mesi prima della brutale aggressione all’avvocato Enzo Fragalà, avvenuta il 23 febbraio del 2010 - a Raffaele Sasso, coinvolto in diverse inchieste di mafia e ritenuto un prestanome di Rotolo e coimputato proprio per quest’ultimo reato anche con Salvatore Fiumefreddo e Vincenzo Marchese. Entrambi difesi all’epoca da Fragalà.
L’indegno agli occhi di Nicchi sarebbe proprio Fiumefreddo. E certamente - sostiene la Procura - la considerazione per il penalista che l’aveva spinto a fare «dichiarazioni, pubblicate anche dai quotidiani locali, che erano assolutamente deleterie per la posizione giudiziaria degli altri imputati» non sarà stata migliore. Specie se si pensa che nell’udienza del 19 febbraio del 2010 - cioè a quattro giorni dall’aggressione di via Turrisi - Fragalà aveva sostenuto una durissima arringa, attaccando proprio il boss di Pagliarelli: «È di tutta evidenza, pertanto - aveva rimarcato il penalista sotto gli occhi del boss in videocollegamento - che Antonino Rotolo, approfittando del risalente rapporto di amicizia intercorrente con Vincenzo Marchese, ha, di fatto, strumentalizzato, subdolamente, il mio patrocinato per il perseguimento delle proprie oscure finalità».

Per il procuratore aggiunto Maurizio Scalia che, con i sostituti Nino Di Matteo e Carlo Lenzi, ha coordinato l’inchiesta per l’omicidio di Fragalà, proprio in questo processo - che ruotava tutto sulla presunta intestazione fittizia di beni di Rotolo e dunque su importanti interessi economici della cosca di Pagliarelli - si potrebbe rintracciare un movente per l’omicidio di Fragalà.
«L’attività professionale di Fragalà - scrivono i pm nella richiesta di misura cautelare che ha portato ai tre arresti di mercoledì - non era scevra di spunti e motivi per l’astio della consorteria mafiosa, e ciò con profili certamente di più stringente contemporaneità rispetto all’aggressione. Da qualche tempo, infatti, l’avvocato Fragalà aveva intrapreso con convinzione una linea professionale in ossequio alla quale i suoi assistiti, soprattutto quelli coinvolti in procedimenti di mafia, erano consigliati dal legale ad assumere un atteggiamento di sostanziale apertura. In tal senso - proseguono i pm - la strategia difensiva mirava all’assunzione delle responsabilità, laddove sussistessero e fossero palesi, e nella resa di dichiarazioni che fossero utili alla ricostruzione del contesto. Questo atteggiamento difensivo, quindi, appariva in netto contrasto con la tipicità dei processi di mafia nel corso dei quali gli imputati generalmente si arroccavano sulle proprie posizioni assumendo atteggiamenti di sostanziale chiusura». Una strategia, quella descritta dalla Procura, che era emersa molto chiaramente nel processo a Rotolo, Fiumefreddo, Sasso e Marchese. E il modus operandi del penalista non poteva lasciare indifferente il «delfino» di Rotolo, Gianni Nicchi che, infatti, nel pizzino del 19 aprile del 2009, parla di «indegni» e aggiunge «poi ne parleremo di presenza».
Un ulteriore segno, per i pm, che «faceva ritenere verosimile una probabile futura ritorsione nei confronti della persona menzionata (Fiumefreddo, ndr)». La stessa linea difensiva venne adottata da Fragalà successivamente anche per Marchese e, seguendo questa pista, il movente del terribile delitto, potrebbe essere proprio quello di un “danno” provocato dal modo in cui l’avvocato svolgeva la propria attività forense. Nulla a che vedere, dunque, con la presunta pista passionale, ritenuta però più attendibile dal Gip Fernando Sestito.
C’è poi un altro particolare che fa pensare che Fragalà con le sue strategie potesse seriamente infastidire la tradizionale (e necessaria) omertà di Cosa nostra: sono le dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia, tra i quali Onofrio Prestigiacomo, che parlò del penalista palermitano come di uno sbirro.

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