sabato 28 settembre 2013

Sequestrate in tutto il Sud 280 tonnellate di cibo

Nel Reggino alimenti conservati tra muffa e ruggine

 
 
Un mese di controlli a tappeto su alimentari, depositi, imprese di lavorazione alimentare di tutto il meridione. Coinvolti 15 nuclei anti sofisticazione. E in un caso su tre sono state rilevate irregolarità che hanno portato alla chiusura di 48 strutture e alla denuncia di 400 persone 


In un  mese nel Sud Italia i carabinieri del Nas hanno sequestrato 280 tonnellate di alimenti e vino nell’ambito dei controlli sulla sicurezza alimentare e la lotta alla contraffazione agroalimentare. I dati sono forniti dai carabinieri del gruppo di Napoli, competente sui 15 nuclei anti sofisticazione del meridione. E rivelano che sono state 1.300 le ispezioni ad attività produttive, commerciali ed esercizi pubblici (stabilimenti di produzione, depositi all’ingrosso, ristoranti, panifici, supermercati) nelle regioni del Mezzogiorno. 

Tra le irregolarità più eclatanti, quella rilevata dal Nas di Reggio Calabria, che, coadiuvato dalla stazione carabinieri, nell’ambito di un’ispezione presso un supermercato della provincia, ha sottoposto a sequestro due celle frigo in pessime condizioni igieniche, completamente invase da ruggine e muffe, anche sulle scaffalature, e circa 1 tonnellata di alimenti scaduti da 3-5 anni, tra cui insaccati, formaggi, panna, pasta fresca, conserve, visibilmente alterati per la presenza di muffe e liquidi maleodoranti. In particolare, sono stati rinvenuti salumi e formaggi privi di etichetta o con etichetta abrasa, contraffatta o cancellata. I carabinieri dei Nas, insieme a personale del Sian della Asp di Reggio Calabria, hanno accertato anche le gravi carenze igienico sanitarie e strutturali di tutti i locali, scrostature dell’intonaco, umidità persistente e sporco, e pertanto hanno proceduto all’immediata chiusura dell’attività. Il titolare del supermercato è stato denunciato.

Ma nel corso del servizio in tutto il Sud, sono state riscontrate irregolarità in 390 casi (31% circa) e accertate 634 violazioni alle leggi di settore (di cui 80 penali) con sanzioni amministrative pari a 630.000 euro. In totale sono state sottratte al consumo circa 280 tonnellate di alimenti vari perché detenuti in cattivo stato di conservazione, insudiciati, in strutture sprovviste dei requisiti igienico-sanitari e privi della documentazione utile per la loro rintracciabilità, sequestrate o chiuse 48 strutture, e segnalate alle autorità giudiziarie, sanitarie e amministrative 400 persone.

l Nas di Bari, invece, presso un’azienda vitivinicola della provincia, in un deposito non autorizzato e privo dei requisiti previsti dalla normativa, ha sottoposto a sequestro amministrativo 28.000 bottiglie di vino a denominazione di origine controllata privi di capsule di imbottigliamento e della documentazione certificante `Doc´ e `Igt´, immagazzinati tra l’altro in pessime condizioni igieniche con accumulo di sporcizia su pavimenti e pareti. Il Nas di Palermo, presso un’industria di produzione di gelati e di pasticceria surgelata, ha sequestrato una tonnellata circa di materie di lavorazione (pan di spagna, rolle’ cacao, glasse, cioccolato) scadute da diversi mesi. Inoltre, i militari del Nucleo in collaborazione con i Carabinieri del Comando Provinciale di Palermo, hanno arrestato un pregiudicato 43enne ed un 24enne che vendevano abusivamente alimenti utilizzando come deposito un locale, già sottoposto a sequestro dalla Polizia Municipale di Palermo, all’interno del quale venivano rinvenuti e sequestrati oltre 6 quintali di interiora di bovino congelate abusivamente all’interno di alcuni frigocongelatori allacciati alla rete elettrica pubblica. Ai locali di deposito sono stati posti nuovamente i sigilli.

I Carabinieri del Nas di Taranto, Lecce e Bari, in collaborazione con i militari del Comando Provinciale di Taranto e di personale medico delle Asl di Taranto e Brindisi, hanno proceduto alla chiusura, per gravi carenze igieniche e/o inadeguatezze strutturali, di 6 attività (depositi prodotti ittici e alimenti, azienda agricola con stabilimento di produzione conserve vegetali, caseificio, ristorante) ed al sequestro di uno stabilimento vinicolo risultato privo di autorizzazione allo scarico dei reflui. Inoltre, i militari dei Nuclei hanno sottoposto a sequestro: circa 600 Kg tra prodotti ittici (cozze, calamari, seppie, polpi), in parte privi di documentazione attestante la rintracciabilità, altri detenuti in cattivo stato di conservazione e sottoposti ad arbitrario procedimento di congelazione, e prodotti caseari (cacio ricotta, formaggi, ricotta) privi di etichettatura; oltre 1.600 confezioni tra pasta, pomodori pelati, biscotti, bibite, acque minerali, liquori, detenute in locali non autorizzati ed interessati da carenze igienico sanitarie e strutturali (ragnatele, scaffali metallici con ruggine, pavimento disconnesso, finestre sprovviste di mezzi idonei ad impedire l’accesso di insetti ed animali).

Picchia la moglie e abusa della figlia: arrestato un auomo a Catania




CATANIA. Un uomo di 39 anni, C.C., è stato arrestato dai carabinieri a Catania per maltrattamenti in famiglia. Avrebbe ripetutamente malmenato moglie e figlia 17enne e per circa un anno avrebbe inoltre costretto quest'ultima a subire atti sessuali senza che la moglie se ne accorgesse. I militari gli hanno notificato una ordinanza di custodia cautelare in carcere per violenza sessuale e maltrattamenti in famiglia. Le vittime sono state costrette a fuggire di casa.    
La moglie nell'aprile scorso aveva presentato una denuncia ai carabinieri, che durante le indagini, dirette dalla Procura della Repubblica, hanno accertato che l'uomo per molti anni, con frequenti comportamenti fortemente aggressivi e violenti, aveva creato un clima di costante paura all'interno del nucleo familiare, malmenando, minacciando e denigrando ripetutamente, per futili motivi, le vittime, minacciandole e denigrandole.
In una occasione la moglie era stata costretta a farsi medicare in ospedale per lividi e traumi alla testa. L'uomo avrebbe inoltre costretto la moglie a licenziarsi e cambiare più volte lavoro se gli orari o i colleghi non erano da lui accettati.    
L'uomo avrebbe inoltre trovato momenti per agire inosservato in casa per avvicinarsi alla figlia e l'avrebbe toccata  contro la sua volontà. La ragazza, dapprima per paura e vergogna non aveva voluto parlarne con nessuno, finché, dopo molti mesi, allo scopo di reagire a queste ripetute orribili violenze ha deciso finalmente di dire tutto alla madre. Così mamma e figlia hanno subito lasciato la casa.

Mafia, Provenzano chiede i danni all'Italia: "trattamento disumano in carcere"

I legali del boss sostengono che l'Italia abbia violato ripetutamente le norme europee sul trattamento carcerario e chiedono una "equa riparazione, comprensiva dei danni patrimoniali e morali subiti".



Hanno provato in ogni modo a chiedere la revoca del 41 bis, ma ogni tentativo è andato a vuoto. Così i legali del superboss Bernardo Provenzano hanno deciso di rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo e di chiedere la condanna del governo Italiano per il trattamento carcerario inumano subito dal boss di Cosa Nostra.
Le condizioni di salute di Provenzano sono gravi - è da tempo afflitto da un tumore alla prostata e soffre di Parkinson e di un’encefalite in stato avanzato - ma nonostante le ripetute richiesta la misura del carcere duro non è stata revocata. Solo poche settimane fa il tribunale di Sorveglianza di Bologna aveva respinto la richiesta della difesa dell’uomo perchè, nonostante le sue condizioni di salute, esiste ancora un concreto pericolo di commissione di delitti.
Da qui la decisione di scavalcare lo Stato Italiano e rivolgersi a Strasburgo, presentando il ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo. I legali del boss, Rosalba Di Gregorio e Franco Marasà, sostengono che l’Italia abbia violato ripetutamente le norme europee sul trattamento carcerario e per questo chiedono una “equa riparazione, comprensiva dei danni patrimoniali e morali subiti“.
In sintesi, la difesa del capo dei capi di Cosa Nostra vuole che l’Italia paghi per i danni morali e patrimoniali che ha causato al superboss, condannato a più riprese per il suo ruolo, tra gli altri, nella strage di Capaci, per l’omicidio del colonnello Giuseppe Russo, per gli attentati dinamitardi del 1993 a Firenze, Milano e Roma e per l’omicidio del giudice Rocco Chinnici.
Ricordiamo che per i giudici del tribunale di sorveglianza di Bologna:
In caso di allentamento del regime attuale, il condannato ben potrebbe veicolare e ricevere messaggi all’esterno e dall’esterno, con potenziale gravissimo pregiudizio per la collettività, considerati il ruolo apicale del soggetto nell’ambito dell’associazione mafiosa di riferimento e la ferocia già dimostrata, e tanto più considerato che egli è detenuto dall’11-4-2006 dopo una lunga latitanza, e che sono tuttora latitanti esponenti di Cosa nostra come Matteo Messina Denaro, già in strettissimi rapporti con Provenzano, e che si assume tuttora tenere le fila e gestire per suo conto gli interessi ed affari illeciti del clan.
La battaglia della difesa di Provenzano prosegue.

La pentita svela i retroscena criminali vibonesi

 Nei verbali la lotta tra i clan e gli omicidi

Gli assetti criminali dei centri della provincia di Vibo Valentia sono stati ricostruiti nei fascicoli depositati a Catanzaro per il processo "Uova del drago" a carico della cosca Bonavota. Documenti inediti dai quali emergono moventi di omicidi, mandanti ed esecutori, lotte nei centri per cambiare gli equilibri della 'ndrangheta

VIBO VALENTIA - Moventi di omicidi, vendette con l’arruolamento di killer, indicazione di mandanti ed esecutori di fatti di sangue eclatanti compiuti nel Vibonese, più i nuovi assetti mafiosi a Stefanaconi, Sant'Onofrio e Maierato, in provincia di Vibo Valentia. E’ quanto svelano i nuovi, e sinora inediti, verbali di interrogatorio della collaboratrice di giustizia, Loredana Patania, 31 anni, nipote dei vertici del clan Patania di Stefanaconi. Verbali non più secretati poichè depositati stamane dalla Procura generale di Catanzaro nel processo "Uova del drago" a carico del clan Bonavota di Sant'Onofrio. 

Dagli stessi, datati 14 dicembre 2012 e 5 febbraio 2013, emerge la designazione di Emilio Bartolotta (condannato per l’omicidio Penna) a nuovo capoclan di Stefanaconi, l’intenzione del clan Bonavota di scalzare la cosca Cracolici di Maierato, l’intervento del clan Fiumara per far ottenere alla stessa Patania un posto al mercato settimanale di Pizzo Calabro per vendere i fiori. 
Quindi, nei verbali, la collaboratrice di giustizia offre indicazioni precise in ordine agli omicidi di Antonino Lopreiato, avvenuto l'8 aprile 2008 a Stefanaconi, al ruolo del marito Giuseppe Matina nell’occultamento del cadavere del segretario cittadino dell’Udc di Stefanaconi, Michele Penna, all’omicidio di Domenico Di Leo, detto "Micu i Cataluni", avvenuto a Sant'Onofrio il 12 luglio 2004, al tentato omicidio di Francesco Calafati avvenuto a Stefanaconi il 21 marzo 2012. L'esame di Loredana Patania in aula è stato intanto fissato per il 9 gennaio 2014.

L'omicidio di Lino Romano. Il pm in aula

 «Niente ergastolo, sono pentiti»

di Leandro Del Gaudio
Come spiegare ai parenti o agli amici di un ragazzo ucciso per errore la mancata richiesta di ergastolo per i suoi killer? Come raccontare all’opinione pubblica che, nonostante tutto, quei killer possono ottenere sconti e benefici? Eppure funziona così, per legge.

Parliamo di loro: dei filatori e degli specchiettisti, quelli che meno di un anno fa hanno provocato la morte di Pasquale Romano, l’operaio ucciso lo scorso 15 ottobre a Marianella. È il cuore della requisitoria contro imputati che con la loro confessione hanno offerto una ricostruzione «granitica» di una pagina nera della cronaca degli ultimi anni. Aula 115, parla il pm anticamorra Enrica Parascandolo, donna e madre, prima ancora che magistrato.

Malattie false

La «banda» degli armatori e dei medici per mungere Inps e Inail

di Petronilla Carillo
Di farsesco, forse, hanno ben poco gli indagati della procura di Vallo della Lucania nell’ambito dell’ operazione Molière, ma il cinismo e la disillusione sembrano davvero quelle ritratte nel «Malato immaginario» del commediografo francese. È di circa due milioni di euro la truffa scoperta dagli uomini della Capitaneria di porto di Salerno, diretti dal capitano di vascello Maurizio Trogu, con il coordinamento della procura vallese, diretta dal procuratore capo Giancarlo Grippo.

Una truffa perpetrata, secondo i risultati investigativi raccolti e fatti propri dal sostituto procuratore Renato Martuscelli, ai danni di Inail, Inps e Sasn (Servizio di assistenza sanitaria ai naviganti). Attraverso la collusione di medici compiacenti del Sasn, venivano attestate false malattie dei marittimi che consentivano di incassare corpose indennità. E per lucrare su queste indennità, tre armatori cilentani (due di Sapri e uno di Casal Velino), costruivano false denunce di retribuzione.

Ovvero venivano gonfiate le retribuzioni dei marittimi così da ottenere indennità superiori: la legge prevede che le indennità siano del 75% delle retribuzioni. Su richiesta della procura il gip del tribunale di Vallo, Elisabetta Garzo, ha disposto cinque ordinanze di custodia cautelare in carcere, quattro ai domiciliari, otto misure interdittive dai pubblici uffici e trentatre obblighi di firma.

mercoledì 25 settembre 2013

Cava, delitto Simonetta Lamberti

Il pentito Pignataro davanti al gup

Aveva 11 anni, era figlia del procuratore Lamberti. La confessione del collaboratore sarà valutata dal giudice per l'udienza preliminare: «Un peso sulla coscienza»
 
 
di Petronilla Carillo
Sarà il gup Sergio De Luca, il prossimo 9 ottobre, a valutare la posizione di Antonio Pignataro, il pentito che si è auto accusato di aver partecipato all’agguato nel quale morì la piccola Simonetta Lamberti di Cava de’ Tirreni. Per il sostituto procuratore dell’Antimafia, Vincenzo Montemurro, al momento è lui l’unico indagato per il quale ha chiesto il rinvio a giudizio, 31 anni dopo l’efferato omicidio della figlia undicenne del procuratore Alfonso Lamberti. Originario di Nocera, 55 anni, Pignataro faceva parte allora del gruppo cutoliano della camorra nell’agro nocerino-sarnese. Detenuto da diverso tempo, in un anno è stato sentito tre volte dal pm Vincenzo Montemurro della Dda salernitana.

Nell’inchiesta, a riscontro e come elementi d’accusa, compaiono anche le dichiarazioni del pentito Giovanni Gaudio e di Angelo Moccia, esponente del clan omonimo di Afragola, per molto tempo detenuto nella stessa cella di Pignataro.

Fu proprio Moccia a raccogliere le prime confidenze sull’omicidio di Simonetta Lamberti. Fu anche lui a spingere e consigliare Pignataro di parlarne con gli inquirenti. Già nei primi verbali, Pignataro ha dichiarato al pm Montemurro di «non poter più vivere con quel peso sulla coscienza».

A convincerlo definitivamente a parlare fu la visione di un film con una bambina che faceva una fine tragica. Il rimorso lo assalì. E raccontò come l’agguato al procuratore capo di Sala Consilina fu preparato su decisione di Francesco Apicella, altro cutoliano di spicco in quegli anni nell’agro. Le inchieste di Lamberti lo avevano infastidito e voleva vendicarsi. L’agguato venne organizzato e preparato in sei mesi. Due furono quelli che occorsero per gli appostamenti. Il commando era formato da Antonio Pignataro e da altri tre cutoliani: Gerardo Della Mura, Claudio Masturzo e Gaetano De Cesare. Le auto erano due, nella 127 bianca d’appoggio c’era Pignataro. L’auto venne fornita da Giovanni Gaudio, che ha confermato. Di quel commando Pignataro è l’unico ad essere rimasto in vita.

Reggio, infiltrazioni nella municipalizzata

 A giudizio boss e dirigenti della Leonia

Il gup di Reggio Calabria ha rinviato a giudizio 17 persone tra cui il boss Giovanni Fondana e l'ex direttore operativo Bruno De Caria con l'accusa di aver gestito la municipalizzata Leonia che si occupava della raccolta dei rifiuti a Reggio in modo da agevolare e favorire gli affari della cosca Fontana

REGGIO CALABRIA - Diciassette persone rinviate a giudizio tra cui il boss Giovanni Fontana e l'ex direttore operativo della società mista Leonia Bruno De Caria. Questa la decisione del gup di Reggio Calabria nell’ambito del procedimento ''Athena 49%” che ha portato alla scoperta delle infiltrazioni della 'ndrangheta nella società che si occupa della raccolta di rifiuti a Reggio Calabria. Il processo è stato fissato per il 13 novembre prossimo. Altri quattro imputati hanno chiesto il giudizio abbreviato, la posizione di altri due è stata stralciata ed un altro ha chiesto il patteggiamento. Secondo l’accusa della Dda di Reggio Calabria, De Caria avrebbe agevolato Antonio Fontana ed i suoi quattro figli consentendogli di occuparsi della manutenzione dei mezzi della società. Lavori che avrebbero consentito alla cosca, attraverso un sistema di fatture gonfiate, di creare un “fondo cassa” a disposizione degli affiliati. L’attuale società Leonia si è costituita parte civile nel processo «per aver subito un grave danno patrimoniale ed un palese danno alla propria immagine aziendale». Oggi l'amministratore delegato Raphael Rossi è stato in aula per lanciare, è scritto in una nota, «un forte segnale alla cittadinanza, una chiara presa di posizione nei confronti delle condotte criminali che hanno leso la società, seppur operando dei distinguo. Difatti, la stessa Leonia, già nel proprio atto di costituzione, affidando alle autorità competenti la giusta lettura della vicenda processuale, aveva però contestualizzato le condotte dei propri lavoratori dipendenti». 

La madre era morta da 8 anni ma la figlia

Percepiva la pensione intascando 45mila euro

 
 
La truffa è stata scoperta dalla Guardia di finanza di Scalea che hanno sequestrato la donna che aveva la delega al ritiro della pensione e non aveva comunicato il decesso della congiunta. Chiesto alla Procura il provvedimento di sequestro per equivalente per le somme percepite illecitamente

SCALEA (CS) - Nonostante la madre fosse morta dal 2005, ha continuato a percepire l’indennità di invalidità civile, di cui era titolare la defunta. La truffa ai danni dello Stato è stata scoperta dai finanzieri della tenenza di Scalea (Cs) che hanno avviato le indagini effettuando una serie di controlli incrociando i dati Inps e focalizzando l'attenzione su alcune posizioni sospette relative proprio alla categoria degli invalidi civili. Tra queste hanno individuato l'esistenza di una posizione pensionistica ancora attiva sebbene la titolare del rapporto risultasse defunta dal luglio 2005. 
A beneficiare del trattamento, la figlia, residente nel comune di Praia a Mare, che sarebbe così riuscita a intascare illegittimamente circa 45.000 euro. La donna, che era riuscita a tenere all’oscuro l’istituto erogatore avendo ricevuto, a suo tempo, la delega da parte della madre a riscuotere la pensione, dovrà ora rispondere del reato di truffa continuata nei confronti dello stato. Smascherata dai finanzieri, è stata segnalata alla Procura della repubblica di Paola (Cs) a cui i finanzieri hanno anche inoltrato una proposta di sequestro per equivalente pari all’importo delle somme indebitamente riscosse.

Avvocato e postino del boss in carcere con le lettere nelle mutande



Napoli. L'avvocato Giuseppe Stabile, arrestato questa mattina nell'ambito del blitz contro il clan Aversano, per due volte, in occasione di un colloquio in carcere con un suo cliente oggi collaboratore di giustizia, nascose nelle mutande delle lettere da recapitare al capoclan Vincenzo Aversano. Lo afferma il pentito Giannantonio Masella, le cui dichiarazioni sono contenute nell'ordinanza di custodia cautelare del gip Raffaele Piccirillo. «Nella prima di queste lettere - racconta Masella - mi lamentavo con Aversano che le quote che mi arrivavano per le estorsioni erano più basse di quanto mi spettava, mentre le quote per la droga non mi arrivavano proprio. Nella seconda lettera insistevo per ammazzare uno dei fratelli Sorgente, e in particolare Crescenzo: i fratelli Sorgente sono gli imprenditori che mi avevano accusato dell'estorsione per cui sono stato arrestato». Il penalista, inoltre, a detta di Masella, nel 2006 fece da tramite tra Aversano e altri pregiudicati suoi clienti per la compravendita di una partita di armi da 30mila euro.

martedì 24 settembre 2013

Le mani della mafia sulla Lombardia Arrestati figlia e genero di Mangano



Denaro della criminalità usato per mantenere i latitanti e infiltrare l’economia milanese.
In un’altra operazione a Palermo confiscati beni per 700 milioni


Il genero e la figlia di Vittorio Mangano, e uno dei suoi principali uomini di fiducia, sono stati arrestati con altre cinque persone stamani dalla Squadra mobile di Milano, nell’ambito di un’indagine sulla criminalità organizzata di stampo mafioso,. Le indagini hanno evidenziato un cospicuo flusso di denaro che serviva per mantenere latitanti ma che veniva anche investito in nuove attività imprenditoriali, infiltrando ulteriormente, quindi, l’economia lombarda.

A essere coinvolti nell’operazione antimafia eseguita stamani a Milano Cinzia Mangano, figlia di Vittorio, e il genero di lui, Enrico Di Grusa. Tra gli arresti, otto, c’è anche Giuseppe Porto, ritenuto il suo uomo di fiducia a Milano. Vittorio Mangano, l’ex stalliere della villa di Silvio Berlusconi ad Arcore, era uno degli uomini di spicco di Cosa Nostra a Milano e Paolo Borsellino, che indagava su di lui, pensava fosse una sorta di `chiave´ del riciclaggio di denaro sporco in Lombardia. La presunta organizzazione mafiosa attiva in Lombardia su cui indaga oggi la Dia è ritenuta emanazione diretta di «cosa nostra» siciliana. Decine di donne e uomini della Polizia di Stato stanno eseguendo numerose perquisizioni eseguite in più aree della Lombardia.

Al centro delle indagini della Polizia di Stato, coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia, una rete di società cooperative attive nella logistica e nei servizi, che, mediante false fatturazioni e sfruttamento di manodopera, hanno realizzato profitti «in nero» almeno dal 2007. Parte di questi profitti è stata poi utilizzata per sostenere, dal punto di vista logistico ed economico, importanti esponenti di «cosa nostra» detenuti o latitanti; altro denaro è stato invece investito in nuove attività imprenditoriali, infiltrando ulteriormente l’economia lombarda. Tra i capi dell’organizzazione una figlia e un genero di Vittorio Mangano, deceduto nel 2000 e ritenuto al vertice del mandamento mafioso di «Porta Nuova». Le accuse vanno da associazione mafiosa, estorsione, false fatturazioni, favoreggiamento,impiego di manodopera clandestina. Ulteriori dettagli verranno forniti nel corso della conferenza stampa che si terrà alle ore 11, presso la Questura di Milano.

In un’altra distinta maxi operazione della Dia di Palermo è stata, sempre oggi, disposta la confisca di un patrimonio mobiliare ed immobiliare di oltre 700 milioni di euro ad un noto imprenditore castelvetranese, uomo di fiducia del super boss latitante Matteo Messina Denaro. Colpite dal provvedimento emesso dal Tribunale di Trapani sono state 12 società, 220 fabbricati fra palazzine e ville, 133 appezzamenti di terreno per 60 ettari circa, tutti riconducibili a Giuseppe Grigoli. L’operazione della Dia si inquadra nella più ampia strategia tesa alla disarticolazione della cosca trapanese ed a stroncare i flussi finanziari ed economici dell’associazione mafiosa, che fa riferimento a Messina Denaro. Secondo gli investigatori, con la maxi confisca operata, “si indebolisce notevolmente il potere economico di ’Cosa nostra’, minando l’egemonia del suo capo”.
L’imprenditore Giuseppe Grigoli, 64enne di Castelvetrano (TP), considerato il “re dei supermercati”, è idetenuto, in quanto condannato dalla Corte d’Appello del Tribunale di Palermo a 12 anni di reclusione per associazione per delinquere di stampo mafioso.

Prima di morire ha chiesto aiuto con il cellulare

 Telefonata drammatica dell'operaio ucciso a Caraffa

 
Maurizio Riga, 44 anni, è stato freddato a colpi di pallettoni davanti il suo podere nel catanzarese. Ferito, l'uomo è riuscito a fuggire per qualche metro, quindi ha telefonato ad un amico per chiedere aiuto. Indagini serrate dei carabinieri sul contenuto della chiamata. La figlia della vittima è consigliere comunale
 
di SAVERIO PUCCIO
CARAFFA (CZ) – Prima di morire ha chiamato con il cellulare ad un amico. “Corri, aiuto, mi hanno sparato, manda una ambulanza”. La telefonata di Maurizio Riga, 44 anni, non è bastata, però, a salvargli la vita. L’operaio di Caraffa era già morto all’arrivo dei soccorsi. Ma il retroscena dell’agguato compiuto ieri sera in contrada Difesa, nella zona di campagna tra Caraffa e Marcellinara, aggiunge un elemento in più nelle indagini dei carabinieri. L’agguato è stato portato a termine poco prima delle otto di sera. Il killer ha atteso Riga all’uscita dal suo podere, mentre l’uomo stava per chiudere il cancello. Quindi, gli ha esploso contro alcuni colpi di fucile caricato a pallettoni. 

L’operaio, però, non è morto sul colpo. E’ riuscito a fuggire. Ha compiuto alcuni metri. Quindi è caduto a terra. A quel punto, è riuscito a prendere il telefono cellulare che aveva in tasca e a chiedere aiuto. Ha premuto il tasto di invio della telefonata, rivolgendosi all’ultima persona che aveva sentito in giornata. Un amico, che si è affrettato a chiedere l’intervento di un’ambulanza. Ma per Maurizio Riga, però, non c’è stato nulla da fare. I carabinieri hanno subito concentrato la loro attenzione su quell’ultima telefonata. 
 
Riga ha solo chiesto aiuto o ha fornito qualche elemento utile? Ha pronunciato qualche nome o ha dato qualche elemento utile alle indagini? La vittima ha visto in faccia il suo aguzzino? Su questi interrogativi i carabinieri hanno cercato subito conferme. Dopo l’agguato sono state sentite diverse persone, compreso l’amico che ha ricevuto la richiesta di aiuto. Per i carabinieri della Compagnia di Girifalco e del Comando provinciale di Catanzaro quella trascorsa è stata una notte di indagini e di riscontri. Riga era solito andare nel suo podere per accudire alcuni cani e gli altri animali. Ieri sera c’era andato con una motoape, adibita alla raccolta dei rifiuti ed in uso allo stesso Riga che lavorava per conto della società che si occupa della gestione dei rifiuti a Caraffa. Il killer sapeva di questi spostamenti, e lo ha atteso all’imbrunire, per poterlo colpire senza essere notato, in una zona di aperta campagna. Il quarantaquattrenne era molto noto nel paese arbereshe alle porte di Catanzaro. 
La figlia, Maria Cristina, 25 anni, è consigliere comunale di maggioranza, eletta nella primavera del 2012 con la lista “Impegno popolare”. Gli inquirenti non escludono al momento alcuna ipotesi, anche se appare lontana la pista di un omicidio legato alla criminalità organizzata. L’operaio era incensurato, salvo piccoli fatti che risalgono comunque alla sua giovane età. Più probabile, dunque, una pista privata, legata a contrasti o a questioni sentimentali. Nulla, comunque, viene tralasciato, a conferma di un omicidio per certi versi anomalo, su cui ora si concentra l’attenzione degli inquirenti coordinati dal sostituto procuratore di turno, Domenico Guarascio.

Vibo, minacce, estorsioni e attentati

Ricostruita l'attività del clan Soriano

 
 
Testimonianze e prove a supporto. Nel corso dell'udienza svoltasi nell'aula bunker del tribunale di Vibo Valentia sono stati ricostruiti gli anni di soggezione e violenza che il clan dei Soriano di Filandari ha fatto vivere al territorio del Poro vibonese e concretizzatisi in attentati e minacce a commercianti e semplici cittadini

VIBO VALENTIA - Invettive ed "avvertimenti" contro magistrati ed investigatori sono state lanciate stamane in aula da Leone Soriano, presunto boss dell’omonimo clan di Filandari, centro del Vibonese, nel corso del processo "Ragno" che si sta celebrando dinanzi al Tribunale di Vibo Valentia. Collegato in videoconferenza dal carcere di Viterbo dove è sottoposto al regime del carcere duro, Leone Soriano nel corso di dichiarazioni spontanee, ha inveito contro gli artefici dell’operazione antimafia "Ragno".
Nel mirino del boss l’allora pm della Dda di Catanzaro Giampaolo Boninsegna ed il comandante della Stazione dei carabinieri di Vibo, Nazzareno Lopreiato, accusandoli di una sorta di accanimento nei suoi confronti e dell’intera "famiglia" Soriano. Il presunto boss ha poi accusato i Mancuso di Limbadi di aver tramato con un avvocato per consegnare l’intero clan Soriano agli investigatori. Leone Soriano, dopo aver ironizzato su una sua presunta collaborazione con la giustizia, ha poi "invitato" il pm di udienza, Simona Rossi, a "lasciare in pace i propri figli" che agli occhi del presunto boss sarebbero perseguitati dagli investigatori. Il pm ha quindi chiesto al Tribunale di disporre la trasmissione delle dichiarazioni rese in aula da Leone Soriano all’ufficio di procura della Dda di Catanzaro per valutarne tutti i possibili profili di reato.
 
I "METODI" DEL CLAN. Rivendite di automobili saltate in aria a suon di bombe, colpi d’arma da fuoco contro abitazioni ed auto di appartenenti alle Forze dell’ordine, intimidazioni ai danni di esercizi commerciali e colpi di pistola contro le auto di alcuni testimoni "scomodi". Questo lo scenario emerso in Tribunale a Vibo Valentia nel processo "Ragno" contro il clan Soriano di Filandari. A deporre sono stati sei carabinieri delle Stazioni di Filandari e San Costantino Calabro i quali, rispondendo alle domande del pm della Dda di Catanzaro Simona Rossi, hanno descritto anni di violenze, intimidazioni e soprusi che il clan Soriano avrebbe esercitato per imporre il "controllo" del territorio. Fra le vittime del clan, anche un carabiniere che dopo aver ricevuto in caserma una telefonata intimidatoria ritrovò l’autovettura crivellata da colpi di pistola. Il titolare di una pasticceria di Ionadi, nel Vibonese, sarebbe stato invece costretto a regalare costosi cestini natalizi ad appartenenti al clan Soriano. Associazione mafiosa, estorsioni, danneggiamenti, detenzione di armi ed esplosivo i reati, a vario titolo, contestati.

domenica 22 settembre 2013

Il superpentito della mafia:“Belsito lavorava per i clan”

Tirato in ballo l’ex tesoriere della Lega: era il referente per la Liguria



alessandra pieracci
genova
Un superpentito di mafia tira in ballo, riferendo confidenze di un compare, l’ex tesoriere della Lega, Francesco Belsito, come contatto in Liguria del clan De Stefano di Reggio Calabria.
Lo fa a Genova, davanti al pm Giovanni Arena, della Direzione Distrettuale Antimafia, titolare dell’inchiesta «La Svolta», che riguarda il Ponente Ligure (il 30 settembre c’è l’udienza preliminare) ma dichiara anche di aver parlato dei rapporti tra il partito di Bossi e la ’ndrangheta già «durante i 180 giorni», il periodo in cui il pentito deve rivelare tutto quello che sa per ottenere lo status di collaboratore di giustizia. Dichiarazioni che probabilmente non sono state ignorate nell’inchiesta sui fondi del Carroccio che vede Belsito accusato di associazione a delinquere e truffa aggravata.

«Sono distrutto, prostrato, non so più di che cosa vogliono accusarmi - dice Belsito - ma alla fine si dimostrerà che sono tutte menzogne». «Sono perplesso di fronte al peso e all’attendibilità che si dà a questi personaggi», aggiunge il suo avvocato Paolo Scovazzi.
Francesco Oliverio, 43 anni, condannato per associazione di stampo mafioso e fino al 2011 capo di una locale in provincia di Crotone, imprenditore edile del movimento terra, socio occulto di parecchie ditte di costruzioni, a gennaio del 2012 ha deciso di collaborare per una crisi di coscienza e «per il bene dei miei quattro figli». Ora è affidato al servizio di protezione. E’ arrivato a Genova alle fine di luglio e poi ad agosto. Il 21 agosto dichiara: «Parlando con il compare di Reggio venni a sapere che i De Stefano operavano tranquillamente in Liguria riciclando soldi e facendo investimenti». I soldi provengono da «narcotraffico, usure, estorsioni» e vengono riciclati «tramite un professionista legato all’ambiente ligure e lombardo». «Nel discorso - dichiara Oliverio -, quale contatto, il compare aveva accennato all’ex tesoriere della Lega Belsito nonché al precedente tesoriere dello stesso partito da tempo deceduto il quale, oltre a favorirli nel riciclaggio, gli custodiva anche le armi». Si riferisce a Maurizio Balocchi, con cui Belsito aveva cominciato a collaborare, sostituendolo progressivamente con l’avanzare della malattia.

Ma Oliverio fa di più che rispondere alle domande. La sera del 30 luglio, quando l’audizione viene sospesa perché è tardi, il superpentito avverte il magistrato: «Prima di chiudere vorrei precisare che lei, dottor Arena, è a rischio. La ’ndrangheta quando vi saranno delle sentenze o delle confische di beni gliela farà pagare. Non aspettate che succeda perché poi sarà tardi. Non necessariamente agiscono con criminali ma il più delle volte tramite persone insospettabili che vengono definite “corpo riservato” e di cui parlerò in seguito. Da non sottovalutare poi i collegamenti con i servizi segreti e la massoneria. Di tali collegamenti ho avuto notizie da mio cugino attivo nel locale di Belvedere Spinello con la carica di “Santa’’ appartenente a una loggia massonica di Vibo Valentia. Non ho avuto notizie concrete nei suoi confronti, parlo per esperienza. Ho fatto quel mestiere per 30 anni, so come ragionano». 

Piazza Armerina, un centro femminile d’arte nel bene confiscato alla criminalità




di ROBERTO PALERMO 
PIAZZA ARMERINA. Da immobili della criminalità organizzata a centro per donne imprenditrici nel settore dell'arte musiva. I beni confiscati alla mafia e affidati al patrimonio comunale presto daranno lavoro per favorire l'inclusione femminile. Gli edifici di Piano Cannata sono stati assegnati per 10 anni all'associazione Don Bosco Family, quale capofila della partnership che vede anche la partecipazione di Diocesi, Comune, associazione Donne Insieme, gruppo "Mosaicisti Ravenna", Confcooperative, "Fuori dal Coro" e cooperativa Das.
 
L'accordo operativo per far partire l'attività lavorativa ha ricevuto il benestare della giunta con una delibera messa a punto dal settore Politiche sociali. Il progetto al centro dell'accordo prende il nome di «Mediterranean Woman Center of mosaic art», un centro femminile di arte musiva per contrastare il disagio sociale, la disoccupazione e l'emarginazione di donne svantaggiate e discriminate.
Le istituzioni e il mondo dell'associazionismo e volontariato incrociano le proprie strade, quindi, per far diventare realtà un percorso di riscatto collettivo e sociale nel quale un provento di attività illecita si trasforma in occasione di sviluppo culturale e occupazionale. Sono passati cinque anni da quando la Prefettura, nel corso di una conferenza di servizi, aveva espresso parere favorevole all'acquisizione degli immobili da parte del Comune armerino, destinandoli a finalità sociali rivolte a soggetti disagiati. L'approvazione del progetto potrebbe anche portare alla ristrutturazione e miglioramento della struttura. Rimane aperta la possibilità del Comune di partecipare ad altre forme di finanziamento e contribuzione legate a nuovi bandi pubblici.
 
Un altro edificio confiscato alla mafia in contrada Cicciona Polleri, invece, attende di essere trasformato in centro di accoglienza per le donne che hanno subito violenza. Il progetto di ristrutturazione da 367 mila euro è stato già approvato nell'ambito del Pist, il piano integrato di sviluppo territoriale per il "Centro Sicilia". Il fabbricato, una villa con alcuni edifici rurali ed un giardino di pertinenza, dopo essere stato confiscato alla mafia, era stato consegnato al Comune nell'agosto del 2009.
Superficie complessiva dell'immobile 540 metri quadri. Ma prima di poter essere utilizzato a pieno per le finalità sociali programmate, occorre rimetterlo del tutto a posto. Il piano terra ed il primo piano sono da completare solo per quanto riguarda gli infissi interni e la riparazione di alcuni interni, il piano mansarda, invece, si presenta allo stato rustico.

"Io torturato e costretto a mentire" Ecco lo scoop censurato su Borsellino

Rispunta l’intervista a Scarantino che nel ’95 svelò i depistaggi. Il falso pentito parlò a Studio Aperto.


Ma il video fu sequestrato e distrutto. Repubblica è entrata in possesso di una copia dell'intervista

UNO scoop soffocato, un’indagine contorta che si rivelerà poi un gigantesco depistaggio, un pentito che si pente di essersi pentito e una sua intervista cancellata per seppellire ogni prova. Anche così hanno deviato l’inchiesta sull’uccisione del procuratore Paolo Borsellino. E per “legge” l’hanno incanalata su una falsa pista.

I misteri sulla strage di via D’Amelio non finiscono mai. E adesso si scopre che diciotto anni fa la magistratura aveva ordinato di far sparire una registrazione televisiva — con un provvedimento di sequestro — sulla prima ritrattazione del famigerato Vincenzo Scarantino, il finto collaboratore di giustizia che si era autoaccusato del massacro offrendo un’ingannatrice ricostruzione del massacro e indicando come suoi complici sette innocenti. Tutto su suggerimento di uomini di apparati dello Stato.

Dopo le sue confessioni, Vincenzo Scarantino aveva subito fatto marcia indietro affidando alle telecamere di Studio Aperto la sua verità. La procura di Caltanissetta ha deciso nel 1995 che quella verità non poteva diventare pubblica e, subito dopo la messa in onda dell’intervista, ne ha imposto la distruzione dagli archivi e perfino dai server. Quel-l’intervista
non doveva più esistere. E così è stato, almeno ufficialmente. Perché qualcuno, probabilmente un tecnico disubbidiente, ne ha conservato una copia — invano cercata dai pm, che oggi indagano sulle indagini e che hanno smascherato il depistaggio della vecchia inchiesta — di cui Repubblica è entrata in possesso.

L'ARTICOLO INTEGRALE SU REPUBBLICA IN EDICOLA E SU REPUBBLICA

Pedofilia, 16mila foto con minori sul pc: arrestato a Torino


Nel computer di un insospettabile professionista di un Comune del torinese c'erano 16 mila immagini pedopornografiche. Le foto erano organizzate e catalogate con cura e precisione. L'uomo è stato arrestato ieri dalla polizia postale di Roma, che ha sequestrato il computer e altri supporti infornatici. L'operazione è scattata in seguito a intercettazioni telematiche disposte dalla Procura romana. Si è accertato che l'uomo condivideva il materiale con altre persone mediante appositi programmi.

Nel computer di un insospettabile professionista di un Comune del torinese c'erano 16 mila immagini pedopornografiche. Le foto erano organizzate e catalogate con cura e precisione. L'uomo è stato arrestato ieri dalla polizia postale di Roma, che ha sequestrato il computer e altri supporti infornatici. L'operazione è scattata in seguito a intercettazioni telematiche disposte dalla Procura romana. Si è accertato che l'uomo condivideva il materiale con altre persone mediante appositi programmi.

Nirta scovato in casa con altre quattro persone


Il superlatitante aveva cocaina e denaro contante


L'esponente del clan di San Luca è stato intercettato dalla polizia in un appartamento in Olanda. La soddisfazione del capo della Mobile di Reggio: «Si tratta di una importante operazione vista la caratura criminale di Nirta»

REGGIO CALABRIA - Francesco Nirta, il 39enne latitante arrestato ieri dalla Polizia di Stato in Olanda, aveva con sè 40 chili di cocaina e 20mila euro in contanti, oltre ad altra valuta estera. Nirta, condannato in primo grado all’ergastolo per l’omicidio di Bruno Pizzata, avvenuto a Casignana (RC) nel 2007 e che si inquadra nella scia di sangue della faida di San Luca, era stato condannato dieci anni fa a 7 anni di galera per traffico di sostanza stupefacente. L’uomo è stato arrestato insieme ad altre 4 persone: 3 di nazionalità marocchina su cui gli inquirenti al momento non hanno voluto fornire alcuna informazione, e Denis Pasqualone, 28enne nato a Cinquefrondi e residente ad Anoia (Rc). E’ seguendo gli spostamenti di quest’ultimo che gli investigatori della Squadra Mobile di Reggio Calabria, diretta dal primo dirigente Gennaro Semeraro, sono riusciti a catturare, grazie alla sinergia con lo Sco e con il Servizio cooperazione internazionale dell’Interpol, il latitante nei Paesi Bassi. Nirta è stato arrestato all’interno del suo covo, in una cittadina olandese distante 50 chilometri da Amsterdam.

LE REAZIONI. Molte le reazioni istituzionali per l'arresto di Nirta. Tra queste, il viceministro dell'Interno, Filippo Bubbico ha affermato: «Ennesimo colpo assestato alla mafia grazie alla brillante operazione delle forze di polizia che ha portato all’arresto in Olanda di uno tra i latitanti più pericolosi ancora in circolazione, Francesco Nirta. Un plauso e un ringraziamento al capo della polizia, Alessandro Pansa, al questore di Reggio Calabria, Guido Longo, al Servizio centrale operativo e a tutte le donne e gli uomini della polizia di Stato che - ha aggiunto - sono impegnati costantemente in indagini molto complesse e delicate, rendendo un grande servizio allo Stato e a tutti noi.  L'operazione è frutto di una preziosa collaborazione internazionale tra le forze di polizia. Si tratta di una cooperazione importante, che nel tempo sta permettendo di raggiungere grandi risultati, sia per le attività di prevenzione che di contrasto, e che deve essere sempre più rafforzata e potenziata - conclude Bubbico - per rendere ancora più efficace la lotta contro il crimine».
Soddisfatto anche il ministro dell'Interno, Angelino Alfano: «Questa è stata una settimana eccellente, costellata di successi nella lotta dello Stato contro il crimine organizzato e l’illegalità». Alfano, prendendo spunto dalla cattura, in Olanda, di Francesco Nirta e congratulandosi con il capo della polizia, Alessandro Pansa e con il comandante generale dei Carabinieri, Leonardo Gallitelli, si è complimentato «per le eccezionali operazioni portate a termine in questi giorni». «L'impegno straordinario della magistratura e delle forze dell’ordine continua senza sosta a incassare risultati, nella logica vincente della collaborazione costruttiva tra gli organismi che lavorano nel contrasto al crimine e della cooperazione, sul piano operativo, tra paesi. Lo Stato, dunque, fa lo Stato - scrive Alfano - e lo dimostrano gli arresti, di pochi giorni fa, a Santo Domingo, del latitante Giovanni Costa, dei due responsabili di associazione terroristica ai Castelli Romani, e la cattura, ieri, in Olanda, di Francesco Nirta, pericoloso latitante, ricercato per la strage di Duisburg».   
Il capo della Polizia Alessandro Pansa si è congratulato con il Questore di Reggio Calabria, Guido Longo e con il Servizio centrale operativo, per la brillante operazione che ha portato alla cattura in Olanda di Francesco Nirta inserito nell’elenco dei trenta latitanti di massima pericolosità. L’operazione, i cui profili internazionali sono stati curati dal Servizio cooperazione internazionale di Polizia, «segna una fase importante di una più ampia azione di contrasto avviata nei confronti dei cartelli criminali della 'ndrangheta calabrese». Il Prefetto Pansa ha voluto, altresì, estendere i complimenti a tutti gli uomini e le donne della Polizia di Stato che, «con grande impegno e determinazione, hanno permesso, di porre fine alla sua latitanza».

Latitante catanzarese preso in spiaggia a Palinuro

Nel 1991 uccise un carabiniere ad un posto di blocco

 
L'uomo aveva fatto perdere le sue tracce lo scorso mese di agosto, approfittando del fatto che gli era stata concessa la semilibertà. La squadra Mobile di Roma lo ha rintracciato nella città campana. E' ritenuto un esponente di spicco del clan Iozzo-Chiefari-Procopio. Per l'omicidio del carabiniere era stato condannato a 30 anni


SOVERATO (CZ) - La squadra mobile di Roma ha rintracciato ed arrestato sulla spiaggia di Palinuro, in Campania, Massimiliano Sestito, 42 anni, latitante dall’agosto scorso dopo essersi sottratto al regime di semilibertà. L’uomo, pluripregiudicato per omicidio, associazione a delinquere e traffico di sostanze stupefacenti, è uno degli appartenenti alla cosca Iozzo-Chiefari-Procopio, attiva nella provincia di Soverato, in Calabria. 
Il 20 agosto 1991, Sestito, allora poco più che ventenne, uccise a colpi di pistola un appuntato dei carabinieri, Renato Lio, nel tentativo di forzare un posto di blocco a Satriano, in provincia di Catanzaro. Per quell'episodio fu condannato all’ergastolo, pena poi ridotta in appello a 30 anni di reclusione.

Jihad sessuale, donne tunisine in Siria

Per "risollevare" l'animo dei ribelli


Un gruppo di donne tunisine avrebbe raggiunto la Siria per avere rapporti sessuali con i ribelli. Il fenomeno viene definito come la jihad sessuale, un supporto alla battaglia anche sena divisa e armi, la cosiddetta guerra santa sessuale. A svelare la pratica è stato il ministro dell'Interno Lotfi Bin Jeddo parlando a un gruppo di parlamentari tunisini. A riferire la notizia apparsa su Al Arabiya l'Huffington Post. Sesso con i ribelli, poi le donne tornano in Tunisia incinta.

«Dopo le relazioni sessuali le donne tornano a casa in stato di gravidanza", ha detto Lotfi Bin Jeddo, secondo l'agenzia France-Presse. Jeddo non ha specificato quante donne tunisine abbiano preso parte ai viaggi del sesso. Un dirigente religioso islamico avrebbe emesso la scorsa primavera una fatwa, un "ordine" religioso proprio con la richiesta alle donne di recarsi in Siria per offrire intimità ai combattenti jihadisti. alcuni hanno smentito la veridicità della presunta fatwa, ma il ministro tunisino degli Affari religiosi tunisino ha voluto comunque emanare una sorta di "contro-ordine" spiegando alle donne tunisine che non erano obbligate a partire.

L'ordine di partire per la Sira sarebbe considerato dalle donne come un "dovere", un "atto di devozione". Secondo Islam Raymond Ibrahim, esperto di terrorismo, «le donne musulmane considerano la jihad sessuale legittima, perché si tratta di sacrifici al fine di aiutare i jihadisti e concentrarsi sulla guerra».

Potenza, conclusa l’inchiesta sui rimborsi


Indagate 14 persone



di ANTONELLA INCISO
POTENZA - Un pranzo per 54 persone, tra cui alcuni dipendenti del Dipartimento alle Infrastrutture, costato 1.620 euro alla Regione nel 2011, ma «fruttato» il doppio all’allora assessore regionale Rosa Gentile, che non solo se lo è fatto rimborsare dall’ente, ma ha chiesto anche ai commensali di darle la loro quota (30-35 euro a testa).

C’è anche questo nell’inchiesta sui rimborsi dei gruppi consiliari che ha investito la Regione Basilicata e che, ieri, ha portato all’avviso di conclusione indagini per 14 persone tra consiglieri regionali, commercialisti, collaboratori e ristoratori. Per quel pranzo l’ex assessore ed attuale presidente di Acquedotto lucano è stata accusata di peculato. Ma a vedersi notificare l’avviso sono stati anche i consiglieri regionali Antonio Autilio (Idv), Giuseppe D’alessandro (Pd), Roberto Falotico (Udc), Agatino Mancusi (Udc), Franco Mattia (Pdl), Nicola Pagliuca (Pdl), Mario Venezia (Pdl), Vincenzo Viti (Pd, dimesso) l’ex consigliere regionale Vincenzo Ruggiero, il dipendente regionale Nicola Brenna (a cui viene contestata l'aggravante di aver detto il falso per «assicurare l'impunità» al presidente della giunta, De Filippo), la ristoratrice Carmela Mancino e i commercialisti Angelo Santo Galgano ed Emanuele Ascanio Turco.

Diverse le spese contestate tra cui il cambio di pneumatici, fatture false e mai emesse dalle ditte, conti di ristoranti e hotel con mogli, figli o «persone non identificate», e un documento fiscale relativo all’acquisto per il gruppo consiliare dei dem di un’automobile di proprietà del cugino del capogruppo, e poi rivenduta allo stesso allo stesso consigliere. Spese diverse, quindi, per somme diverse: da poche centinaia di euro ad un totale di 33mila e 300 euro.

Napoli, smantellato il market degli smartphone rubati


di Giuseppe Crimaldi
Blitz della polizia in una delle centrali della ricettazione di piazza Garibaldi. Agenti dell'Ufficio prevenzione generale diretto da Michele Spina hanno bloccato quattro cittadini marocchini che vendevano in un vicoletto compreso tra porta Nolana e la zona della Stazione centrale numerosi telefonini di ultima generazione che si ritiene siano provento di scippi e rapine: quattro Samsung S4, un Ipod e due Iphone, oltre a una decina di altri tipi di cellulari.
I quattro fermati - tutti di età compresa tra i 30 e i 39 anni - non hanno saputo giustificare la provenienza della merce e pertanto sono stati fermati e portati a Poggioreale.

Sono in corso perquisizioni presso le abitazioni degli extracomunitari per verificare se nei rispettivi domicili possano essere nascosti altri telefonini e si cerca ora di risalire da quelli sequestrati in mattinata la provenienza attraverso i codici "Imei".

Ulteriori indagini e approfondimenti sono in corso per verificare eventuali legami dei ricettatori stranieri con ambienti della criminalità organizzata napoletana.

Trapani, scoperta una microspia all'interno del palazzo di giustizia



TRAPANI - Una microspia, non funzionante, è stata scoperta nella porta d'ingresso del Palazzo di giustizia di Trapani, accesso riservato ai magistrati e video-sorvegliato. L'inquietante episodio, l'ultimo di una serie, è stato confermato dal procuratore capo Marcello Viola, che ha preferito non commentare. La tensione in Procura è altissima: in agosto è stata recapita una busta contenente una lettera con minacce di morte e un proiettile; lo scorso ottobre è stata manomessa la vettura blindata del sostituto procuratore Andrea Tarondo, una Bmw parcheggiata nel cortile interno, anch'esso video-sorvegliato, del Palazzo di giustizia. E poi ci sono le lettere di minacce indirizzate al procuratore capo Marcello Viola, a Trapani da due anni e che proprio nei giorni scorsi ha vinto il ricorso amministrativo al Consiglio di Stato e che, pertanto, rimarrà al suo posto. Poche settimane dopo la nomina, in autostrada, Viola fu inseguito e affiancato da un'auto: la vicenda è ancora avvolta dal mistero; sono stati identificati gli occupanti (incensurati) dell'auto inseguitrice, ma la loro versione («avevamo fretta») sembra non convincere gli inquirenti. A destare preoccupazione, comunque sono le intimidazioni avvenute dentro il Palazzo: nessuno apre bocca, ma è evidente che ci sarebbe una mano interna.

venerdì 20 settembre 2013

Fotovoltaico, 12 arresti a Brindisi

Sequestrati 27 impianti e patrimoni


BRINDISI – Militari della guardia di finanza, dei carabinieri del Noe e del corpo forestale dello Stato stanno eseguendo in diverse regioni d’Italia arresti e sequestri per presunti abusi nella realizzazione di 120 ettari di parchi fotovoltaici nella provincia di Brindisi. Gli indagati avrebbero percepito illecitamente contributi pubblici per diversi milioni di euro. I provvedimenti restrittivi sono stati emessi dal gip del Tribunale di Brindisi su richiesta della Procura.

Sono dieci persone colpite da ordinanze di custodia cautelare, delle quali due agli arresti domiciliari, mentre uno è  ricercato. In tutto sarebbero 24 le persone indagate, quattro donne e cinque cittadini spagnoli. Ipotesi di reato principali, associazione per delinquere, per aver realizzato nel territorio della provincia di Brindisi 27 parchi fotovoltaici per una potenza complessiva di 37 megawatt installati, e per una estensione di aree occupate pari a 120 ettari (per un valore di 150 milioni di euro).

Bloccato affare da 300 milioni
BRINDISI – Hanno fruttato 7 milioni di euro e il titolo a beneficiare di altri 300 milioni di euro in incentivi statali i 27 parchi fotovoltaici sottoposti a sequestro e disconnessi nell’ambito di una maxi operazione della guardia di finanza, del nucleo operativo ecologico dei carabinieri e del corpo forestale. Stamane sono state eseguite 11 delle 12 ordinanze di custodia cautelare (dieci in carcere e 2 ai domiciliari) chieste dal procuratore aggiunto di Brindisi Nicolangelo Ghizzardi e disposte dal gip Paola Liaci.

Complessivamente sono 24 le persone sottoposte a indagine. Il settore è quello delle energie alternative nel quale, in un complesso sistema piramidale di società, è risultato che vi era stata la realizzazione con metodi illeciti di 27 parchi fotovoltaici a Brindisi, Tuturano (nel sito di interesse nazionale perchè area inquinata), Francavilla Fontana e Cellino San Marco, tutti comuni del Brindisino, per una estensione totale di 120 ettari. La gran parte di essi è stata realizzata con un illecito frazionamento, metodo consolidato che consente di aggirare la normativa regionale che concedeva la possibilità di impiantare i pannelli in caso di progetti inferiori al megawatt di potenza con la sola dichiarazione di inizio lavori e quindi senza l’autorizzazione unica regionale. Sono contestate numerose ipotesi di falso, oltre ai reati urbanistici come la lottizzazione abusiva, e l’illecita percezione (in alcuni casi portata a termine, in altri solo tentata) di contributi pubblici.

Sono 8 le società coinvolte che hanno subito sequestri preventivi e per equivalente: una di esse ha sede in Lussemburgo, un'altra nelle Isole Vergini. Gli arresti sono stati eseguiti a Brindisi, Roma e Messina. Sequestri anche a Milano.

Sigilli ai beni di un noto imprenditore reggino

Confiscati 20 milioni tra cui alberghi e ristoranti

L'operazione della Dia ha colpito un uomo già sottoposto in passato alla sorveglianza speciale e considerato vicino al clan Libri. Tra i beni confiscati anche 59 unità immobiliari e produttive tra cui il patrimonio aziendale della ditta "L'Arca di Joli" con annesso l'omonimo ristorante


REGGIO CALABRIA - Beni per un valore di circa 20 milioni di euro sono stati confiscati dalla Dia di Reggio Calabria ad un imprenditore reggino. Si tratta di Francesco Gregorio Quattrone, 56 anni. L’uomo destinatario in passato della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel comune di residenza per la durata di due anni, irrogatagli nel 2000 dalla Corte di Appello di Reggio Calabria e diventata definitiva l’anno successivo, è considerato vicino al clan di 'ndrangheta Libri. 
Il provvedimento di confisca del Tribunale di Reggio Calabria è stato emesso a seguito di una serie di accertamenti patrimoniali svolti dal Centro Operativo DIA di Reggio Calabria che avrebbero consentito di acclarare una manifesta sproporzione tra i modesti redditi dichiarati dall’imprenditore e del suo nucleo familiare in rapporto all’ingente patrimonio aziendale e personale a lui riconducibile, già sottoposto a sequestro nel maggio del 2012 perché ritenuto provento di attività illecite. 
In particolare sono stati sottoposti a confisca 59 unità immobiliari e produttive tra cui il patrimonio aziendale della ditta "L'Arca di Joli" ubicata nella frazione Gallina di Reggio Calabria, ricomprendente il noto ristorante albergo omonimo, la pizzeria "Unicità" e la sala ricevimenti con annessa ampia area giardino esterna "Luxury Ridge"; appezzamenti di terreno agricolo per un’estensione di oltre 360.000 metri quadri; 16 fabbricati. I beni sottoposti a confisca, saranno amministrati - ai sensi delle nuove disposizioni del Codice Antimafia - da personale dell’Agenzia dei beni confiscati che garantirà la prosecuzione delle attività aziendali.

Mafia, altri beni sequestrati al re dell’eolico



PALERMO. La Direzione Investigativa Antimafia di Palermo ha confiscato altri beni per un valore di oltre 3 milioni e 500 mila euro a Vito Nicastri, l'imprenditore trapanese definito il "re" dell'eolico al centro di numerose indagini. Il provvedimento si va a sommare all’altra confisca dell’aprile scorso di 1 miliardo e 300 milioni di euro. Il patrimonio di Nicastri, che opera nel settore delle energia alternative, è stato ritenuto frutto del reinvestimento di capitali di provenienza illecita. Tra i beni sottoposti oggi a confisca numerosi conti correnti e rapporti finanziari, attestati presso  istituti di credito in Sicilia e Lombardia.

Blitz antiracket a Leonforte, otto arresti

 


LEONFORTE. La squadra mobile di Enna nell'ambito di una operazione antimafia denominata "Homo Novus", coordinata dalla Dda di Caltanissetta, ha arrestato otto persone di Leonforte che avrebbero assunto il controllo del territorio e riorganizzato le estorsioni nell'ennese. L'operazione ha visto impegnati un centinaio di poliziotti della questura di Enna e rinforzi del reparto mobile di Palermo.   
Le accuse contestate sono associazione a delinquere di stampo mafioso, tentativi di estorsioni a imprenditori e commercianti, un furto aggravato seguito da tentativo di estorsione, il cosiddetto "cavallo di ritorno". I reati sono aggravati dall'essere stati compiuti con il metodo mafioso e per favorire Cosa nostra". La Dda ha dovuto stringere i tempi perché le attività estorsive erano in corso e le vittime sottoposte a intimidazioni.

Blitz antiracket a Leonforte, i nomi degli arrestati

ENNA. Gli arrestati nel blitz antiracket della squadra mobile sono Giovanni Fiorenza, detto anche "Zio Giovanni" o "Sacchinedda", 54 anni, e i figli Alex, "Lo stilista", 31 anni, e Saimon , "Il bufalo", 29 anni; Mario Armerio, "Mario l'olandese", residente in Olanda, di fatto domiciliato a Leonforte, 57 anni; Giuseppe Viviano, "Pippo u catanisi" o "Il memorato", 53 anni; Nicola Guiso, "Dario" o "Il lupo", 38 anni; Gaetano Cocuzza, 26 anni; e Angelo Monsù, 43 anni.  
Gli inquirenti hanno individuato in Giovanni Fiorenza il rappresentante della nuova famiglia. L'uomo, con precedenti per associazione mafiosa ed estorsione, è cognato di Rosario Mauceri, condannato all'ergastolo per associazione mafiosa e duplice omicidio aggravato, che è stato il referente a Leonforte di Gaetano Leonardo, a capo della storica famiglia di Enna. Proprio Giovanni Fiorenza, lo scorso agosto, si sarebbe recato a un summit dove avrebbe ricevuto da un esponente di vertice di Cosa nostra l'autorizzazione a operare nell'area che va da Nicosia alla zona del Dittaino, ambita anche dalla criminalità organizzata catanese. La legittimazione sarebbe stata accolta con soddisfazione dagli affiliati, i quali hanno commentato che finalmente a Enna avrebbero comandato loro e non i "catanesi" o i "palermitani".    

Uccisa mentre fa jogging, un fermo

L’uomo, intercettato mentre vagava con un coltello e gli abiti sporchi di sangue, avrebbe già confessato.Sembra che conoscesse la vittima
C’è un fermo per il delitto di Udine. È Nicola Garbino, 36 anni, residente a Zugliano, frazione di Pozzuolo del Friuli. E’ stato intercettato dai Carabinieri mentre vagava con un coltello e gli abiti sporchi di sangue. Il 36enne, con problemi psichici, avrebbe già confessato. Il Capo della Procura di Udine Antonio Biancardi non ha voluto confermare il fermo e ha detto «sì ci sono degli sviluppi importanti, e più tardi in serata sarò più preciso».

Secondo alcune indiscrezioni, l’uomo starebbe facendo rivelazioni importanti. Avrebbe sulle braccia graffi e segni compatibili con l’aggressione alla ragazza. Sembra inoltre che conoscesse già la giovane. Intanto l’anatomopatologo Carlo Moreschi sta effettuando l’autopsia sul cadavere di Silvia per accertare la causa del decesso.

Giorgio Ortis, il ragazzo che era con Silvia a fare jogging, per il momento risulta ancora indagato. Il fermo di oggi, però, lo scagionerebbe del tutto. Insieme ai carabinieri del Nucleo investigativo di Udine, affiancati anche dai colleghi del Ris di Parma, Ortis ieri ha ripercorso il tracciato seguito da lui e l’amica il giorno dell’omicidio. Giorgio e Silvia erano arrivati insieme sul posto, con l’auto della ragazza. Ci sono i testimoni che li hanno visti partire insieme.

Poi Giorgio, come ha raccontato fin dal primo momento, l’ha staccata per fare il suo percorso. L’ha re-incrociata sulla via del ritorno. «L’ha salutata - ripete l’avvocato Rosi Toffano, difensore di Giorgio - poi ha fatto l’allungo finale e si è fermato ad aspettarla. Non vedendola arrivare è tornato a cercarla e ha trovato un altro passante che l’ha avvisato di aver rinvenuto un corpo. Era sotto choc, stava per svenire, non riusciva neppure a digitare i numeri sul cellulare. Tanto che poi il passante si è offerto di chiamare. Il mio cliente è del tutto estraneo alla vicenda. Siamo a disposizione degli inquirenti per qualsiasi necessità». 

Condannato l’ex assessore Mario Centorrino


Coinvolti anche altri tre dirigenti regionali


PALERMO. I giudici della sezione d'appello della Corte dei Conti hanno condannato l'ex assessore regionale Mario Centorrino e il dirigente regionale Gesualdo Campo al risarcimento di 360 mila euro e 500 mila euro ciascuno per aver finanziato le integrazioni a tre progetti della formazione professionale dell'Anfe. Condannati al pagamento di 74mila euro a testa anche altri due dirigenti: Maria Josè Verde e Marcello Maisano.   Assolta, invece, Caterina Fiorino, difesa dall'avvocato Massimiliano Mangano, ex dirigente della Ragioneria. In primo grado era stata condannata al pagamento di 74 mila euro.    I giudici hanno accolto parzialmente il ricorso dell'ex assessore, difeso dall'avvocato Gaetano Armao, che in primo grado era stato condannato a risarcire la Regione di 500mila euro.   La vicenda ruota attorno al finanziamento di un milione e 742 mila euro a titolo di integrazioni autorizzato con decreto 4478 del 30 novembre del 2010, a firma dell'ex assessore della giunta Lombardo, per l'esecuzione di tre progetti di formazione professionale denominati Sirio, Mizar e Vega gestiti dall'Anfe.    «Sotto il profilo del nesso di causalità - dicono i giudici nella sentenza - appare incontestabile la riconducibilità del danno erariale da parte dell'assessore Centorrino e del dirigente generale Campo».

martedì 17 settembre 2013

Mafia, droga e nuovi affari

Otto arresti tra San Giuseppe Jato e Camporeale


di VINCENZO MARANNANO
PALERMO. È in corso dalle prime luci dell’alba — tra i comuni di San Giuseppe Jato, San Cipirello e Camporeale — una vasta operazione antidroga condotta dai carabinieri del Nucleo Investigativo del Gruppo di Monreale. I militari hanno dato esecuzione a 8 misure di custodia cautelare, emesse dal gip Luigi Petrucci su richiesta della direzione distrettuale antimafia, nei confronti di altrettanti indagati accusati di associazione a delinquere finalizzata alla coltivazione, raffinazione e commercializzazione di droga, prevalentemente «cannabis indica», tutti reati aggravati dal favoreggiamento a Cosa nostra. Oltre agli otto finiti in cella, sono state denunciate a piede libero altre 13 persone, di cui otto già in carcere da aprile per mafia (operazione «Nuovo Mandamento») e nei cui confronti il gip, pur evidenziando la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, non ha ritenuto esistenti le esigenze cautelari.
Quella di questa notte è una «costola» dell’operazione «Nuovo Mandamento», la maxi inchiesta antimafia che documentò la riorganizzazione territoriale di Cosa nostra nella parte occidentale della provincia di Palermo (con un supermandamento che oltre a Camporeale accorpava anche gli storici clan di San Giuseppe Jato e Partinico) e che ad aprile culminò con l’arresto di 38 persone tra capi e gregari.
In particolare le indagini — avviate nel dicembre 2010 e coordinate dai procuratori aggiunti Teresa Principato e Vittorio Teresi, e dai sostituti Francesco Del Bene, Sergio Barbiera, Sergio Demontis e Daniele Paci — hanno fatto luce su un vasto giro di droga e su una serie di piantagioni di canapa indiana, messe in piedi dall’organizzazione per fronteggiare il calo di entrate e il contestuale aumento delle spese per gli avvocati e per il sostentamento delle famiglie dei carcerati. Durante le indagini sono state individuate alcune piantagioni, soprattutto nella valle del fiume Jato, con l’arresto in flagranza di tre persone. Scoperti pure due luoghi di stoccaggio: in questo caso le persone bloccate sono state otto e 40 i chili di droga sequestrati.
“Le coltivazioni di canapa una vera azienda agricola”
 
PALERMO. Durante le indagini, e in particolare nell’estate 2012, è emerso come una delle fonti di reddito dell’organizzazione fosse proprio la coltivazione di canapa indiana. Monitorando gli indagati, i carabinieri sono riusciti ad individuare quattro piantagioni, tutte tra San Giuseppe Jato, Monreale e Camporeale, e a recuperare circa 40 chili di marijuana già essiccata e pronta per essere venduta, per un valore commerciale al dettaglio di circa 200 mila euro. «Abbiamo avuto l’impressione — spiega il colonnello Pierluigi Solazzo — di trovarci di fronte a un’organizzazione perfetta, una sorta di azienda agricola in cui ognuno aveva un ruolo: c’era chi individuava i terreni e chi si occupava della piantumazione, c’era l’agricoltore che innaffiava e quello che procurava i pesticidi per i topi, e infine c’erano gli addetti alla distribuzione...».
All'inizio il clan guidato da Antonino Sciortino era partito con grandi ambizioni: la prima piantagione, in contrada Argivocalotto a Monreale, contava infatti oltre seimila piante e alla sua realizzazione parteciparono i maggiori esponenti delle famiglie mafiose. Poi, per paura che potessero essere scoperti, i picciotti decisero di spostare gli arbusti e di creare delle piantagioni più piccole e quindi più difficili da individuare per le forze dell'ordine e più facili da gestire per l'organizzazione.
Due di queste sono state individuate esattamente un anno fa: una (il 4 agosto 2012) in località Tagliavia (riconducibile direttamente al gruppo Lo Voi-Mule'), e una in contrada Monte Petroso, agro di Camporeale, riconducibile al gruppo capeggiato da Antonino Sciortino).
Poco dopo, tra il 26 settembre e il 10 ottobre, gli uomini del Nucleo Investigativo di Monreale, guidati dal maggiore Mauro Carrozzo, sequestrarono due grossi carichi già stoccati e pronti per l'immissione sul mercato. In questo caso la droga era sta nascosta nella masseria di Giuseppe Lo Voi e Salvatore Mule', indicata dagli indagati quale "sede centrale" del mandamento.
 
Mafia e droga nel Palermitano, i nomi degli arrestati
 
PALERMO. Ecco l’elenco delle persone arrestate nel blitz antidroga di questa notte nel Palermitano: Giovanni Battaglia, 28 anni, nato ad Alcamo ma residente a Camporeale; Baldassarre Di Maggio, 34 anni, di San Giuseppe Jato; Pietro Ficarrotta, 44 anni, nato a Platania (Cz) e residente a San Cipirello; Raimondo Liotta, 47 anni, di Camporeale; Salvatore Lo Voi, 34 anni oggi, di San Giuseppe Jato; Giuseppe Mulè, 31 anni, di San Cipirello; Antonino Parrino, 42 anni, di San Giuseppe Jato e Rosario Parrino, 29 anni, di San Cipirello.

 

Scacco al clan dei Casalesi, undici arresti nella notte




Undici persone ritenute appartenenti alla fazione Schiavone del clan dei Casalesi sono state arrestate dai carabinieri di Aversa, con l'accusa di associazione mafiosa ed estorsione aggravata dal metodo mafioso. Ricostruito l'assetto geo-criminale del gruppo, attivo nell'agro aversano, documentati episodi estorsivi ai danni di imprenditori in occasione delle festività e accertate infiltrazioni della camorra nel mercato ortofrutticolo di Aversa.

Le indagini, coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli, si sono svolte tra l'ottobre del 2012 al maggio del 2013.

In particolare, i militari del nucleo operativo del reparto territoriale di Aversa hanno ricostruito l'assetto geocriminale del gruppo camorristico - determinatosi dopo gli arresti che hanno sgominato i «Venosa-Reccia» - individuato il capo e i suoi referenti locali nel Casertano, tra i comuni di Aversa, Trentola Ducenta, Casaluce, Casal di Principe, Teverola, Marcianise e Lusciano.

Durante le indagini sono stati emessi provvedimenti nei confronti di altri 23 indagati, tutti appartenenti allo stesso gruppo criminale, accusati degli stessi reati.

I corrieri reggini rifornivano la mafia catanese

Ogni mese portavano 2 chili di droga, 8 arresti

I carabinieri etnei hanno scoperto il traffico di droga che dalla Calabria arrivava sino in Sicilia dove veniva rifornita la cosca riconducibile ai familiari di Mario Nicotra, detto 'Mario u Tuppò, ucciso nel 1989 durante una violenta faida. I calabresi portavano lo stupefacente in maniera costante


REGGIO CALABRIA - La droga per la mafia catanese arrivava da Reggio Calabria, grazie ai corrieri spediti in Sicilia con cadenza mensile. E' l'esito dell'operazione che ha portato circa cento carabinieri del Comando provinciale di Catania ad eseguire un provvedimento restrittivo emesso dal gip su richiesta della Direzione distrettuale antimafia della Procura etnea nei confronti di otto presunti appartenenti a un’organizzazione criminale dedita al traffico di cocaina nel territorio di Misterbianco e Belpasso.
Secondo quanto emerso dalle indagini, il gruppo sarebbe riconducibile a familiari di Mario Nicotra, detto 'Mario u Tuppò, ucciso nel 1989 durante una violenta faida con il clan rivale del capomafia poi deceduto Giuseppe Pulvirenti, noto come ''u Malpassotu”. L’inchiesta, coordinata dalla Dda della Procura di Catania, avrebbe permesso di fare luce su una fiorente attività di spaccio tra i comuni di Misterbianco e Belpasso e di documentare l'esistenza di un canale di approvvigionamento della droga nella provincia di Reggio Calabria. In particolare alcuni calabresi, coinvolti nelle indagini, avevano il ruolo di corrieri dei carichi più ingenti, che si aggiravano intorno ai due chili e avevano cadenza di trasporto mensile.

Così spacciavano droga

Davanti al cancello di un : scoperti dalla prof

Gli agenti della Squadra mobile hanno individuato tre giovani tra i 19 e i 21 anni che vendevano droga davanti ad un liceo cosentino. Si tratta di indagini avviate da tempo e portate avanti con il supporto di intercettazioni e servizi di appostamento


COSENZA - A farli scoprire è stata una professoressa del liceo Fermi che ha visto una busta sospetta e ha avvisato la polizia. E così, dopo accurate indagini, tre persone sono state arrestate dagli agenti della Squadra Mobile della Questura di Cosenza per detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti.  I riscontri avrebbero consentito di accertare diversi episodi di cessione di sostanze stupefacente, in particolare marijuana ed hashish, nei pressi del liceo scientifico "Scorza", del Liceo "Fermi" e del'Istituto professionale di via degli Stadi. Tra i clienti c'erano anche dei minorenni. 
GUARDA IL VIDEO DEGLI SPACCIATORI ALL'OPERA
SPACCIATORI UNDER 21 - Gli arrestati sono Pasquale Massarini, di 21 anni; Alessandro Iaconetti di 20, già noto agli inquirenti; Danilo Turboli di 19, anch’egli già noto alla Polizia. L’attività investigativa, supportata da intercettazioni e servizi di appostamento, avrebbe consentito di definire ruoli e responsabilità a carico degli indagati. I tre, rintracciati nelle rispettive abitazioni, dopo le formalità di rito, sono stati associati alla casa circondariale della città. 
MINACCE A CHI NON PAGAVA IN TEMPO - Secondo quanto riferito dagli inquirenti in conferenza stampa, i tre spesso minacciavano i giovani che non pagavano in tempo la marijuana che veniva loro ceduta. Il particolare è stato rivelato da Antonio Miglietta, che guida la squadra mobile della Questura di Cosenza. A far scoprire il traffico è stata una docente, che si era accorta di un busta sospetta che usciva dallo zaino di uno studente. La docente l’ha presa e l’ha fatta analizzare, scoprendo che conteneva proprio marijuana. Dopo aver ricevuto la denuncia, gli agenti hanno piazzato delle telecamere e hanno pedinato i sospetti, raccogliendo le prove dello spaccio.