domenica 12 dicembre 2010

Boss mafiosi killer pentiti CRONISTORIA CRIMINALE

Salvatore Lo Piccolo detto «il barone»

Salvatore, 65 anni, detto «il barone», ritenuto il capo di cosa nostra a Palermo

I Lo Piccolo, la carriera criminale
Catturato insieme al figlio Sandro, latitante da 9 anni. Aveva iniziato come guardaspalle del padrino Riccobono

PALERMO - Salvatore Lo Piccolo, 65 anni, indicato come il capo di Cosa Nostra a Palermo dopo la cattura di Bernardo Provenzano avvenuta l'11 aprile 2006, è soprannominato «il Barone» negli ambienti mafiosi. Era ricercato dal 1983 ed è stato catturarto insieme al figlio Sandro, 32 anni, latitante da nove. A carico di Salvatore Lo Piccolo pendevano otto ordinanze di custodia cautelare.


INIZIÒ COME GUARDASPALLE DI UN PADRINO - Sotto la copertura di imprenditore edile, Salvatore Lo Piccolo, a Palermo il 20 luglio 1942, aveva cominciato la sua carriera di mafioso come guardaspalle e autista del padrino di San Lorenzo, Rosario Riccobono, poi soppresso con il metodo della lupara bianca durante la guerra di mafia degli anni Ottanta. Lo Piccolo aveva fiutato l'aria e aveva cambiato schieramento, accreditandosi come fiduciario dei nuovi capi corleonesi di Cosa Nostra, Totò Riina prima e Provenzano poi. Il suo potere si era via via esteso, fino ad abbracciare una vasta prte della provincia occidentale di Palermo. Dopo l'arresto di Provenzano, la figura di Lo Piccolo, ricercato dal 1998 per omicidio e dal 2001 per associazione mafiosa, era ulteriormente emersa come il nuovo riferimento dei clan palermitani, anche in virtù delle alleanze negli Usa che il boss latitante aveva coltivato e rilanciato. Sandro Lo Piccolo, nato a Palermo il 16 febbraio 197, braccio destro del padre, era sfuggito alla cattura nel 1998 durante un blitz della polizia, che lo aveva intercettato a Mondello e da allora era ricercato.

TERRITORIO - Il territorio dei Lo Piccolo comprende non solo la parte nordoccidentale della zona metropolitana di Palermo, ma anche le famiglie dei Comuni di Capaci, Isola delle femmine, Carini, Villagrazia di Carini, Sferracavallo e Partanna-Mondello. Dopo la cattura del capomafia trapanese Vincenzo Virga, Lo Piccolo ha esteso la sua influenza anche ad alcune zone della provincia di Trapani. I Lo Piccolo restano però i «padroni» dello Zen, una vasta zona a residenza popolare alla periferia di Palermo. La storia del clan Lo Piccolo è relativamente recente: controllo degli appalti a partire dalla realizzazione degli svincoli autostradali, l'esazione sistematica di una quota per le utenze elettriche: 15 euro per non avere problemi e tenere le lampadine accese nei cubi di cemento con i muri in cartongesso dello Zen2.





Bernardo Provenzano
detto Binnu u tratturi




BOSS DEI BOSS - Boss incontrastato della mafia, uomo senza volto, ricercato da mezzo secolo dai reparti speciali di Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza può considerarsi un vero e proprio acrobata della clandestinità. Dal 17 settembre 1958, giorno in cui fu arrestato per l'ultima volta, non esistevano altre sue foto, ma solo descrizioni fornite dagli uomini d'onore poi diventati collaboratori di giustizia. Proprio nei mesi scorsi era stato presentato il nuovo identikit del boss mafioso, realizzato grazie all'aiuto di nuovi pentiti come Antonino Giuffrè, il suo ex braccio destro, finito in carcere tre anni fa, che ha parlato a lungo di Provenzano ai magistrati. È stato Giuffrè a descriverlo come un uomo «firrignu», cioè forte, «capace di dormire per più notti nel sacco a pelo». Non solo. Era stato proprio il nuovo pentito di mafia a chiarire ai magistrati la strategia numero uno del boss: «Non usa telefoni perchè sa che ogni segnale potrebbe svelare il suo nascondiglio». Così, Provenzano , per dirigere i suoi affari miliardari usava i cosiddetti pizzini, cioè i bigliettini di carta mandati ai destinatari da uomini fidati.



PENTITI - Alcuni, però, forse per paura, decidono di tradirlo. Come aveva fatto, a marzo, Mario Cusimano, finito in carcere nella retata del 25 gennaio scorso, quando vennero arrestati decine di gregari del boss latitante. Fin dal primo momento, Cusimano aveva deciso di saltare il fosso e collaborare con i magistrati che lo hanno ascoltato. Nel gergo mafioso, Cusimano era considerato un pesce piccolo, ma le sue rivelazioni si stanno dimostrando «molto importanti». Sarebbe stato proprio il neo pentito a raccontare ai pm che si occupano della cattura di Provenzano del viaggio compiuto in auto dal latitante nel 2003 dalla Sicilia fino in Francia, a Marsiglia, per sottoposri a un delicato intervento chirurgico alla prostata. Un'operazione andata bene e che potrebbe essere persino stata rimborsata in pieno dalla Asl 6 di Palermo. Ed è quello che stanno accertando i magistrati che tra maggio e giugno hanno sequestrato montagne di carte per scoprire se effettivamente Provenzano , che si fece ricoverare sotto il falso nome di Gaspare Troia, avesse fatto domanda alla regione per ottenere il rimborso dell'operazione.


ULTIMO CONTATTO - L'ultimo contatto tra le forze dell'ordine e Provenzano risale al 9 maggio del 1963, quando il boss venne convocato nella caserma dei carabinieri di Corleone per accertamenti: fu l'ultima volta che i militari videro il volto del boss dei boss. Di lui si perdono definitivamente le tracce il 18 settembre del '63, quando i Carabinieri lo denunciarono per la strage in cui persero la vita Francesco Streva, Biagio Pomilla e Antonio Piraino. Inizia quel giorno la lunga, interminabile latitanza di Bernardo Provenzano , che dura sino ad oggi. A dire il vero, le forze dell'ordine, diverse volte, sono state vicinissime all'arresto della primula rossa, ma come sempre, è riuscito a farla franca. Come quel 31 gennaio del 2001, quando la Polizia bloccò Benedetto Spera, il suo braccio destro di allora, in una masseria di Mezzojuso, nel palermitano. Provenzano era lì, a pochi passi, in attesa di essere visitato da un medico a causa delle sue cattive condizioni di salute. Ma riuscì a sfuggire, per l'ennesima volta.


LA CARRIERA CRIMINALE - La carriera criminale di Bernardo Provenzano comincia negli anni Cinquanta, quando insieme con Salvatore Riina, altro boss finito in carcere nel '93, diventa il più fidato luogotenente di Luciano Liggio, allora capo incontrastato di Cosa nostra nel corleonese. Di lui Liggio diceva «spara come un Dio, ma ha il cervello di una gallina», una definizione che Provenzano smentirá con il passare degli anni. Il boss approda ai vertici di Cosa nostra all'inizio degli anni Ottanta, solo dopo avere fatto uccidere tutti i boss rivali. Sono state diverse le strategia usate dal capo di Cosa nostra per gestire gli affari della mafia. L'ultima, quella indicata dal collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè, è quella della moderazione con l'infiltrazione costante nelle istituzioni, piuttosto che l'attacco frontale, come accadeva in passato. Lo scorso aprile la Cassazione aveva annullato, con rinvio per nuovo giudizio, l'ergastolo a Provenzano in relazione al processo per 127 omicidi di mafia avvenuti, a Palermo e provincia, tra gli anni '70 e i primi anni '90. Fino all'ottobre scorso di Bernardo Provenzano non si avevano foto recenti, ma solo identikit. Oggi il colpo di scena.

MICROSPIE - Gli investigatori dello Sco monitoravano il boss Provenzano da dieci giorni, ascoltandolo tramite intercettazioni ambientali. Gli agenti avevano individuato il covo attraverso indagini coordinate dai pm Marzia Sabella e Michele Prestipino e nel covo in cui è stato arrestato avevano nei giorni scorsi piazzato delle microspie. La procura e la polizia sono entrati in azione dopo che hanno avuto la conferma che si trattava proprio di Provenzano.



VOLANTINI ELETTORALI - In un locale attiguo alla masseria dove si nascondeva Provenzano, sono stati trovati dei volantini propagandistici per le elezioni politiche dello scorso 9 e 10 aprile. I volantini fanno riferimento al presidente della Regione siciliana, Salvatore Cuffaro, candidato al Senato per l'Udc, e a Nicolò Nicolosi, sindaco di Corleone, e anche lui candidato alle politiche per il Patto della Sicilia. I volantini sono stati immortalati da alcuni fotografi e operatori tv entrati nel covo. Il materiale propagandistico si trovava in un locale utilizzato da un pastore e non dal superboss.

25 aprile 2006




Salvatore Riina detto "Totò u curtu"
Salvatore Riina detto "Totò u curtu", nacque a Corleone il 16 novembre 1930. A soli diciannove anni uccise un coetaneo in una rissa. Dopo aver scontato sei anni, ritornò al paese, diventando il luogotenente della banda di Liggio, impegnata ad eliminare il predominio di Michele Navarra sulla cosca della zona. Fu arrestato nel dicembre del 1963 e, dopo alcuni anni di reclusione trascorsi all'Ucciardone di Palermo, fu assolto prima a Catanzaro, nel processo dei 114 e poi nel giugno 1969, al processo di Bari. Inviato al soggiorno obbligato, si diede alla latitanza e diresse le operazioni nella strage di viale Lazio. Preso il posto di Liggio finito in carcere, condusse i corleonesi negli anni Ottanta e Novanta alla realizzazione d'immensi profitti, prima con il contrabbando e poi con la droga e gli appalti pubblici.


Oltre a conquistare il predominio all'interno di Cosa Nostra, sterminando il superboss di Cosa Nostra Stefano Bontade e i suoi fedelissimi, Riina lanciò una pesante sfida allo Stato, eliminando numerosi rappresentanti delle istituzioni e della magistratura e valenti uomini delle forze dell'ordine. Trascorse ventitre anni di latitanza, in assoluta libertà e per lo più a Palermo, nonostante le tracce lasciate dal matrimonio nell'aprile del 1974 con Antonietta Bagarella e dai battesimi dei suoi quattro figli. Fu arrestato dagli uomini del ROS dei Carabinieri il 15 gennaio 1993. Già condannato con sentenza passata in giudicato dalla Corte di cassazione a due ergastoli, a lui vengono anche attribuiti tutti gli omicidi eccellenti decisi da Cosa Nostra negli ultimi decenni. Attualmente è imputato in tutti i più importanti processi per mafia in corso nel nostro paese, a partire da quelli per le stragi in cui persero la vita i magistrati Falcone e Borsellino.

Fino al luglio del 1997 Riina è stato rinchiuso nel supercarcere dell'Asinara, in Sardegna: in seguito è stato trasferito al carcere di Marino del Tronto ad Ascoli dove, fino alla decisione di ieri della Corte d'Assise d'Appello, era sottoposto al carcere duro previsto per chi commette reati di mafia (art. 41 bis).

E’ a partire dal 1979 che si afferma in Sicilia il potere dei "viddani", cioè dei villici, le cosche di Corleone, capeggiate da Totò Riina.

La propulsione che i corleonesi ricevono per la loro potente ascesa all’interno di Cosa nostra deriva principalmente da una clamorosa svolta nel traffico della droga fino a quel momento nelle mani della mafia d’oltreoceano ed in Europa concentrata nell’attività dei clan dei marsigliesi.

I rapporti sempre più stretti tra le famiglie palermitane e quelle americane detronizza di fatto i marsigliesi e sposta l’asse dei traffici sulle cosche siciliane nelle mani dei Bontade, dei Badalamenti, degli Spatola e degli Inzerillo. E’ questa la cosiddetta "mafia perdente" perché presto – a seguito della seconda grande guerra di mafia che si scatena nell’isola – perderà il controllo degli affari più lucrosi di Cosa nostra proprio a vantaggio dei corleonesi di Totò Riina.

L’avvento al potere mafioso degli uomini di Corleone coincide con il viaggio in Sicilia del finanziere e bancarottiere Michele Sindona. Per taluni una mera coincidenza, per altri, invece, lo spunto efficace – quel viaggio - per contestare e contrastare un’incapacità gestionale delle famiglie palermitane al potere, ree di investimenti sbagliati negli affari dello stesso Sindona.

Il potere dei corleonesi sulla mafia siciliana – secondo gli esperti – dura ancora oggi, anche se con la cattura di Totò Riina (1993) – una cattura ancora oggi dai contorni quanto mai inquietanti e soprattutto misteriosi – Cosa nostra subisce un drastico mutamento di strategia (fine dello stragismo) e torna ad assumere un basso profilo, più legato ai movimenti di denaro suggeriti dagli appalti che a quelli indotti dal traffico delle sostanze stupefacenti. Totò Riina, detto "u'curtu", è stato arrestato il 15 gennaio del 1993 dopo quasi 25 anni di latitanza. E'stato a capo della "Cupola" dai tempi dell'ultima guerra di mafia, nei primi anni '80. A lui si deve la svolta stragista di Cosa Nostra, che portò agli eccidi di Capaci (23 maggio '92) e di via D'Amelio (19 luglio '92). Dietro la sua cattura, ad opera del Ros dei carabinieri, ci sono ancora punti oscuri. La villa di Palermo in cui abitava il capo dei Corleonesi non è stata perquisita né controllata per quindici giorni dopo l'arresto. Un tempo che è bastato a far scappare la moglie, Ninetta Bagarella, e i figli. E anche a far ripulire l'appartamento da una squadra di corleonesi. Si è parlato anche di un "patto" con l'ultimo grande latitante della mafia, Bernardo Provenzano: la cattura di Riina contro l'impunità della famiglia del boss e la rinuncia a setacciare l'abitazione. Da qui gran parte dei contrasti degli ultimi tempi fra la Procura di Palermo e il Ros. Fino al Luglio del '97 è stato rinchiuso nel carcere dell'Asinara.

Cosa nostra, o almeno parte di essa, penserebbe ad una "dissociazione". Non solo, ma lo stesso capo dei capi della mafia, Totò Riina, potrebbe "aprirsi" nei confronti dello Stato. Queste le analisi e le ipotesi contenute nella relazione semestrale della Dia, la Direzione investigativa antimafia, diretta da Tuccio Pappalardo, consegnata al Parlamento.

Ipotesi ed analisi che confermano i retroscena anticipati da "Repubblica" il 6 febbraio scorso, dove si rivelava che Stato e Mafia erano tornati a "trattare". Una ipotesi di resa in cambio di sconti di pena e di un carcere meno duro per i corleonesi, una "dissociazione" dei boss per firmare una sorta di armistizio a quasi dieci anni dalle stragi del '92 e del '93 che fecero tremare l'Italia.

Una trattativa che è stata affidata proprio al braccio destro di Totò Riina, Salvatore Biondino, che s'incontrò con il procuratore nazionale antimafia, Pierluigi Vigna. Quest'ultimo smentì, disse che non si doveva parlare di "trattativa" ma di "colloqui investigativi".
A tre mesi di distanza l'indiretta conferma della Dia che, nell'analizzare la nuova realtà mafiosa, scrive "che tra gli obiettivi che Cosa nostra perseguirà in futuro" "ci sarà quello di individuare alcune favorevoli soluzioni come, ad esempio, la possibilità di ricorrere alla "dissociazione" che, quantomeno, consentirebbe di sottrarsi ai rigori del regime detentivo speciale".

Ed in questo contesto si potrebbe registrare, secondo la Dia "una qualche apertura al dialogo con lo Stato" anche da parte di Totò Riina "che ormai da tempo ha rinunciato, senza alcun motivo apparente, a lanciare messaggi di sfida e ad indicare obiettivi da colpire".

Ma il legale di Totò Riina, l'avvocato Salvatore Fileccia, ha escluso un'eventuale "apertura" del suo assistito. Nella relazione della Dia viene anche descritto il nuovo organigramma di Cosa nostra dove Bernardo Provenzano avrebbe ancora un ruolo di primo piano anche se affiancato da altri tre latitanti, Matteo Messina Denaro, Antonino Giuffrè e Salvatore Lo Piccolo.

La vera storia dell’arresto di Riina

Alla Procura della Repubblica di Palermo c.a. dott. Pietro Grasso Al Comando del Raggruppamento Operativo Speciale dei carabinieri c.a. gen.Sabato Palazzo A tutti gli organi di stampa La vera storia dell'arresto di Riina e della mancata perquisizione del suo covo di Giorgio Bongiovanni La cattura del capo di Cosa Nostra Totò Riina e la mancata perquisizione del covo dove trascorreva la sua latitanza fanno certamente parte dei tanti misteri d'Italia. Come si arrivò a catturarlo? Perché la villa di via Bernini non è stata sorvegliata in modo da impedire che venisse ripulita dai vari gregari del boss? Tutti hanno dato la loro versione lasciando spazio ad ogni tipo di teorema: il complotto, la collusione, la copertura e il semplice malinteso. Abbiamo indagato e condotto molte interviste che oltre ad aggiungere preziosi elementi, vanno a confermare quanto il Capitano Ultimo ha dichiarato nel libro di Maurizio Torrealta Ultimo. Il capitano dei carabinieri Ultimo, allora parte dei ROS (Raggruppamento operativo speciale), oggi maggiore in servizio al NOE (Nucleo operativo ecologico) e suoi uomini si sono insediati per mesi all'interno del centralissimo mandamento della Noce e per ventiquattro ore su ventiquattro hanno spiato e ascoltato, con l'ausilio dei pochi mezzi tecnici a disposizione, i movimenti degli uomini d'onore legati al boss. E' stata però la giusta intuizione di seguire da vicino i Ganci a portarli dritti al covo di Riina in via Bernini, nel cuore di Palermo.

Era proprio in una di quelle ville che si nascondeva "u' zu Totò", lo aveva confermato il tanto discusso collaboratore di giustizia Balduccio Di Maggio che aveva riconosciuto in un filmato di sorveglianza Ninetta Bagarella, fedele moglie del boss, il giardiniere di fiducia e uno dei figli. Sarà lui ad identificare il volto di Riina. Pronti per entrare in azione, hanno atteso che il capo di Cosa Nostra uscisse di casa con il suo braccio destro e uomo d'onore tra i più fidati, Salvatore Biondino. I due hanno percorso qualche centinaia di metri quando, al primo stop, si sono ritrovati assediati dagli uomini di Ultimo. Li hanno immobilizzati e trascinati alla centrale dei carabinieri di Palermo mettendo così fine ad una latitanza di 25 anni e assestando un duro colpo a Cosa Nostra. Una ricostruzione lineare, un'operazione da manuale. Perfetta. E di routine, per i servizi speciali se non si fosse trattato del boss dei boss.

Mistero nel mistero. Innanzitutto la villa di via Bernini. Ultimo chiese espressamente ai suoi superiori di non procedere alla perquisizione della casa, voleva prendere anche gli altri: capi di Cosa Nostra e fiancheggiatori, come i Sansone, incensurati e insospettabili prestanome per gli affari miliardari degli appalti. Ma Ultimo e i suoi uomini hanno smontato di guardia il pomeriggio stesso, lasciando ad alcuni colleghi l'onere di sorvegliare l'abitazione. Per quel famoso quanto misterioso malinteso tra la procura e i carabinieri però, dopo solo un giorno, la casa viene lasciata incustodita e i soldati di Riina hanno avuto ben 18 giorni a disposizione per svuotare tutto e persino imbiancare i muri. All'interno anche il vano predisposto per una cassaforte, poteva contenere alcuni dei segreti di Cosa Nostra? Secondo quanto dichiarato da Ultimo nel libro, per sua esperienza un capo mafia non tiene documenti importanti nello stesso luogo dove risiede con la sua famiglia, piuttosto, al momento dell'arresto, portava nelle tasche alcuni bigliettini con indizi importanti che sono poi passati al vaglio della magistratura di Palermo. Ma è veramente questo il mistero della cattura di Riina? Sia durante i primi appostamenti che nei giorni precedenti l'operazione, venne suggerito a Ultimo e ai suoi uomini di spostarsi altrove, e se non fosse stato per una precisa e ferma presa di posizione del capitano, sicuro della pista che avevano seguito fino a quel momento, oggi probabilmente Riina sarebbe ancora latitante. Chi non voleva che gli uomini del Crimor prendessero il capo di Cosa Nostra? Chi ha voluto depistarlo? Sono forse le stesse persone che garantiscono a Provenzano la sua incredibile latitanza? Sono coloro che hanno fatto sì che Ultimo lasciasse Palermo e si dedicasse ad altro?

A parte la mancata perquisizione sul cui caso sta indagando la magistratura, forse sarebbe il caso di occuparsi anche di rispondere a queste domande, soprattutto se si pensa che tra i vari riscontri e accertamenti effettuati sul campo Ultimo e i suoi avevano documentazioni filmate e registrate che non fanno altro che infittire il mistero nel mistero. Macchine della polizia entrare nel cantiere di Ganci e fermarsi amichevolmente a parlare in presenza del boss Raffaele e persone scendere da macchine del Ministero di Giustizia di via Arenula e della presidenza della regione Sicilia ed entrare nella macelleria "di famiglia". Una cosa è certa. Se non sono riusciti ad impedire a Ultimo di catturare Riina, hanno fatto sì che non prendesse Provenzano. DESTABILIZZAZIONE INTERNA Secondo le deposizioni dei collaboratori di giustizia Riina aveva uomini infiltrati ovunque ed era in grado di disporre di informazioni molto riservate con un margine di anticipo tale da consentirgli un ampio spazio di manovra. E' per questo che la sua cattura si è rivelata così imprevista da suscitare dubbi e sospetti tanto nelle istituzioni quanto all'interno Cosa Nostra. Era preciso intento di Ultimo creare all'interno dell'organizzazione una sorta di destabilizzazione interna per cui non perquisendo la casa di Riina, nei mafiosi si insinuasse il sospetto che qualcuno potesse aver venduto il capo per prenderne il posto. Salvatore Cancemi, boss mafioso reggente del mandamento di Porta Nuova, oggi collaboratore di giusitzia, non appena si fu consegnato ai carabinieri di Palermo, chiese di vedere Ultimo. Lo voleva avvertire che Provenzano durante una riunione della Commissione aveva dichiarato di aver l'opportunità di prendere il capitano vivo per torturarlo e fargli rivelare come era riuscito a prendere Riina. Secondo la ricostruzione di Brusca come riportata nel libro Ho ucciso Giovanni Falcone(ediz. Mondadori) a cura di Saverio Lodato, effettivamente si creò all'indomani del blitz un clima di diffidenza tra le varie fazioni interne a Cosa Nostra. Dice Brusca "Bagarella pensò subito a Salvatore Cancemi, di cui non si è mai fidato fino in fondo; a me invece, venne in mente Balduccio di Maggio". Una delle ipotesi più quotate è senza dubbio la possibilità che sia stato Bernardo Provenzano, il suo successore a fare in modo che Riina venisse arrestato. Brusca però non ci crede "Io non credo che Provenzano abbia venduto Riina. Che l'arresto gli abbia fatto comodo, questo sì. Ma che abbia avuto contatti diretti con i carabinieri è una tesi che non sta in piedi". Per la maggiore Brusca crede alla versione di Ultimo " è una pista autentica. Ecco la ricostruzione a cui credo sino in fondo". Ma se a indicare la macelleria giusta, secondo Brusca, sarebbe stato il maresciallo Lombardo, Maurizio Torrealta attribuisce al capitano l'intuizione. Quindi Brusca si domanda chi a sua volta potrebbe aver dato il suggerimento a Lombardo. "Una fonte potrebbe essere stata Francesco Lo Jacono di Partinico, amico personale di Provenzano... Non era uno a conoscenza di dove si nascondesse Riina, ma era uno che sapeva che, seguendo i Ganci, lo si poteva individuare." Trame e teorie, collaborazioni e confidenze, tra le solite metodologie d'Italia il parere più autorevole ed affidabile rimane senza dubbio quello del capitano Ultimo e dei suoi uomini. Oggi l'unica vera domanda da porsi realmente su Riina e Provenzano è, per dirla con Masino Buscetta: "qualcuno ha fatto un nuovo patto con la mafia?" L'’opinione del Procuratore Rovello Nelle ultime dichiarazioni prima di lasciare il suo incarico di Procuratore generale a Palermo per andare in pensione, Vincenzo Rovello commenta gli eventi più salienti della sua carriera. La cattura di Riina è sicuramente tra i più incisivi. <>. E sul tema della trattativa tra pezzi dello Stato e corleonesi <>. In fede Giorgio Bongiovanni direttore di Antimafia Duemila . A.V

L’inferno del 41 bis

Con Riina dietro l e sbarre Cosa Nostra si trova di fronte a due problemi: il primo e più grande il 41 bis.
Solo dopo pochi mesi la firma dei primi decreti che sanciscono il carcere duro, le famiglie di mafia sono già allo stremo.
Ci sono clan che di fatto non esistono più: i Madonna di San Lorenzo, i Greco di Ciaciulli, i Milano di Porta Nuova, i Vernengo di Ponte Ammiraglio, hanno gli uomini in prigione, in libertà restano solo le donne e i bambini. Dal cortile di Pianosa l’elicottero si alza in volo sempre più spesso: porta nel continente quelli che non ce la fanno, i mafiosi che chiedono il perdono e si pentono. Da sempre gli uomini d’onore erano abituati a ssere trattati con rispetto in prigione. Pe tutti gli anni Settanta e Ottanta il carcere di Palermo era stato addirittura soprannominato Grand Hotel Ucciardone: banchetti con le aragoste fresche fatte arrivare dagli allevamenti di Sa Vito Lo Capo, champagne, secondini sugli attenti e medici disposti a firmare certificati falsi a ripetizione che aprivano le porte dell’ospedale. Adesso invece la prigione e sofferenza, solitudine e paura. Spiega in quei mesi Tommaso Buscetta: << Quello che disturba veramente la mafia è non poter adempiere alle promesse fatte ai carcerati. L’uomo d’onore va in carcere sicuro che la sua famiglia starà bene, non passerà la fame. E che la mafia si interesserà al massimo per farlo uscirà prima possibile. Non ci sarà mai un uomo d’onore, non c’è mai stato – mi correggo – un uomo d’onore che avesse temuto qualcosa in proposito. Ora non mantenere questo impegno preoccupa di molto la mafia.>>.

Il secondo problema di Cosa Nostra è la successione a Riina: Binu ( Provenzano) è convinto che quel posto spetti a lui, ma non ha la forza per imporsi, Luchino Bagarella, il cognato di Totò, è una potenza: impossibile solo pensare di mettersi contro.
Ma poi si sa come è andata a finire. Zio Binu conquista il potere assoluto, ordinando il silenzio delle armi, non più stragi, attentati, ed altre operazioni militari. Vince l’ala “moderata “ di Cosa Nostra.

Il processo per l’omicidio De Mauro. Riina alla sbarra
Trentacinque anni, e la verità sembra ancora lontana. Trentacinque anni dopo l’omicidio di Mauro De Mauro, giornalista del quotidiano di Palermo L’Ora, si è finalmente aperto il processo per uno degli omicidi di mafia più misteriosi e più politicamente connotati. Unico imputato Totò Riina, che partecipa all’udienza in videocollegamento dal carcere di Milano.

«Finalmente ci siamo, con orgoglio e emozione pronuncio queste parole, ma anche con amarezza e malinconia, perché dopo 35 anni da quella maledetta sera apriamo il dibattimento per l'omicidio di Mauro De Mauro» ha esordito il pubblico ministero Antonio Ingroia in apertura del dibattimento. «Dopo una storia giudiziaria tormentata - afferma Ingroia - ci ritroviamo qui, finalmente, a processare il capo di Cosa nostra. Ma i 35 anni che separano la scomparsa di De Mauro dall'avvio del processo creano amarezza e malinconia. Tanti testi non sono più tra noi. E chiederemo che i verbali di interrogatorio vengano acquisiti». «Questa è un'occasione unica - aggiunge il pm - per dimostrare che la giustizia arriva sempre anche se a distanza di tanti anni».
Mauro De Mauro scomparve la sera del 16 settembre 1970 e il suo corpo non venne mai trovato. L'omicidio De Mauro è ritenuto dall'accusa un «giallo». Nell'aula si rivivrà il film dell'Italia nera, la stagione dei misteri; sfileranno testimoni eccellenti, fra cui molti giornalisti, il prefetto Mario Mori, il regista Francesco Rosi e il senatore Emanuele Macaluso. I consulenti della Procura parlano della scomparsa di De Mauro come di un buco nero, un giallo che si innesta in un periodo storico e politico in cui vi era «la strategia» della tensione, il golpe Borghese, i successivi tentativi di colpi di stato e l'attentato a Enrico Mattei.


«Il delitto di Mauro De Mauro è un omicidio di mafia e non solo», dice Antonio Ingoia. «La mafia in questo omicidio ha le proprie responsabilità - afferma il PM - ma ve ne sono anche di altri ambienti. De Mauro non dava fastidio solo a Cosa nostra». Secondo il magistrato sin dall'apertura dell'inchiesta vi sono stati «depistaggi» e i punti su cui ricercare sono fissati in quelli che riguardano l'attentato a Enrico Mattei, ma anche alla preparazione del golpe Borghese. «Accetteremo il movente di questo complesso delitto - afferma Ingroia - Cosa nostra si sentiva minacciata dall'attività di De Mauro. Oggi non conosciamo più quel buon giornalismo d'inchiesta sulla mafia che conduceva De Mauro». Antonio Ingroia ha ricordato anche gli altri giornalisti uccisi da Cosa nostra, tra cui Beppe Alfano, Mauro Rostagno e Mario Francese. «Abbiamo l'esigenza di ricostruire in aula la Palermo di quegli anni, gli interessi di Cosa nostra di quegli anni per comprendere quanto l'attività di Mauro De Mauro abbia messo in serio pericolo gli interessi di Cosa nostra al punto di essere sequestrato e ucciso». Tra i pentiti citati dal pm nel corso del processo ci sono: Francesco Di Carlo, Gaspare Mutolo, Leonardo Messina, Antonino Calderone, Salvatore Cucuzza e Francesco Marino Mannoia. Ma c'è anche un collaboratore che non proviene da ambienti della criminalità mafiosa bensì dalla destra eversiva, cioè Paolo Bianchi.


Leoluca Bagarella (1942 - in carcere dal 24/6/1995)

Luchino, fratello di Antonietta, la moglie di Salvatore Riina, nacque il 3 febbraio del 1942 a Palermo. A partire dagli anni Sessanta, fu un esponente di primo piano dei corleonesi e uno tra i killer più spietati. I legami con i clan della camorra napoletana, per l'organizzazione del traffico di tabacchi e stupefacenti, gli costarono le prime incriminazioni. Nel 1969 il fratello Calogero rimase ucciso nella strage di viale Lazio. Sul finire degli anni Settanta il commissario Boris Giuliano lo braccò per tutta Palermo, sequestrando, a Punta Raisi, una valigia con il pagamento in dollari di una partita di droga e infine scoprendo il suo covo. Era troppo per Bagarella che lo uccise a sangue freddo in un bar palermitano, la mattina del 21 luglio 1979.

Nel settembre dello stesso anno venne arrestato e rinchiuso all'Ucciardone, dove rimase per quattro anni. Nel 1986, alla vigilia del maxiprocesso, fu tratto in manette su disposizione del giudice Falcone e rimase in carcere fino al dicembre del 1990. Latitante di nuovo dal 1992, dopo l'arresto di Riina, divenne uno dei più importanti boss di Cosa Nostra, dopo uno scontro con il clan Aglieri, dal quale uscì vincente. La sua latitanza ebbe termine il 24 giugno 1995, quando venne arrestato dalla DIA. Oltre alle contestazioni relative agli omicidi di numerosi rappresentanti delle istituzioni, avvenute nel corso degli ultimi decenni, Bagarella è anche accusato di essere tra i registi occulti delle stragi del 1993.



Pietro Aglieri (1959 - in carcere dal 6/6/1997)

E' nato il 6 giugno del 1959 nel rione della Guadagna, a Palermo. Da sempre è conosciuto con il soprannome di " ' u signurinu ", a motivo della ostentata ricercatezza nell'abbigliamento. Dopo aver studiato presso il seminario arcivescovile di Monreale e aver prestato il servizio militare come paracadutista nella brigata Folgore, si fece strada all'interno dell'organizzazione, guadagnando prestigio e rispetto nel corso della seconda guerra di mafia. Con l'avvento dei corleonesi al potere, divenne il nuovo capomandamento di Santa Maria di Gesù e un influente membro della Cupola.

Nel 1995 il giornale britannico The Guardian lo indicò, provocatoriamente, come l'italiano più conosciuto al mondo. In questi ultimi anni Pietro Aglieri ha occupato i posti di vertice dell'organizzazione e ha stretto un patto di alleanza con Bernardo Provenzano per la ricostruzione di Cosa Nostra, indebolita dall'arresto dei capi storici della fazione corleonese e dal proliferare dei pentiti (collaboranti di giustizia). E' stato arrestato, dopo otto anni di latitanza, alla periferia di Bagheria, a Palermo, il 6/6/1997.

Subito dopo la cattura, suscitò scalpore il ritrovamento nel suo covo di una piccola cappella votiva e di numerosi testi sacri e filosofici: l'atteggiamento remissivo e vagamente mistico alimentarono le voci di un possibile pentimento ma il caso si sgonfiò dopo pochi giorni.

Già condannato allergastolo per l'omicidio del giudice della Corte di cassazione Antonino Scopelliti (9 agosto 1991), è imputato nel processo per l'omicidio del parlamentare europeo democristiano Salvo Lima e in quelli per le stragi di Capaci e via D'Amelio.




Giovanni Brusca (1957 - in carcere dal 20/5/1996)Pentito

Nato a Palermo il 20 maggio del 1957, "u verru", vale a dire il maiale, seguì fin da giovane le orme paterne, intraprendendo la carriera mafiosa e diventando un killer feroce e responsabile di diverse decine di omicidi. Dopo alcuni anni di carcere, nel 1991 riprese in mano le redini della famiglia di San Giuseppe Jato, temporaneamente affidata a Balduccio Di Maggio, in seguito divenuto collaboratore di giustizia. È stato un protagonista indiscusso dell'ultima stagione di sangue inaugurata da Cosa Nostra con l'omicidio di Lima. E' ormai tristemente noto come il boia di "Capaci", vale a dire l'uomo che azionò il telecomando che fece esplodere l'autostrada lungo la quale transitavano in auto il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e la scorta. Dopo l'arresto di Riina e Bagarella prese il comando dell'ala militare dei corleonesi, in accordo con Bernardo Provenzano. Fu arrestato il 20 maggio 1996 a Cannitello, in provincia di Agrigento, in compagnia del fratello Vincenzo.

Dopo una fase iniziale in cui tentò di depistare gli inquirenti, a partire dalla seconda metà del 1997, sembra che abbia iniziato a rilasciare interessanti dichiarazioni. Già condannato all'ergastolo per l'uccisione di Ignazio Salvo, è attualmente imputato nei processi per la strage di Capaci, per gli attentati del 1993 a Milano, Firenze e Roma e per l'omicidio di Giuseppe, il figlio undicenne di Santino Di Matteo, strangolato e sciolto nell'acido dopo una prigionia di due anni al fine di convincere il padre a ritrattare.




Benedetto (Nitto) Santapaola (1938 - in carcere dal 18/5/1993)

Benedetto "Nitto" Santapaola nacque il 4 giugno del 1938 in una famiglia di modeste condizioni sociali, residente nel degradato quartiere San Cristofaro di Catania. Da ragazzo studiò dai salesiani e frequentò l'oratorio, ma abbandonò presto la scuola e, attratto dai facili guadagni, realizzò le prime rapine. Venditore ambulante di scarpe e articoli da cucina prima, titolare di una concessionaria di auto poi, in realtà Santapaola, soprannominato "il cacciatore", fu uno dei capi mafia più potenti e sanguinari della Sicilia orientale.

La sua fedina penale iniziò a riempirsi nel 1962 con una denuncia per furto e associazione per delinquere. Dopo essere stato diffidato dalla questura di Catania nel 1968 e inviato al soggiorno obbligato dopo due anni, nel 1975 fu invece denunciato per contrabbando di sigarette. Nel 1980 fu fermato durante le indagini sull'omicidio del sindaco di Castelvetrano, Vito Lipari, ma l'accusa non fu provata e anche la successiva proposta di soggiorno obbligato non fu accolta. Del tutto indisturbato, Santapaola portò così a termine la scalata ai vertici di Cosa Nostra, eliminando prima Giuseppe Calderone, il capo mafia più influente di Catania (8 settembre 1978) e poi commissionando ai corleonesi la cosiddetta "strage della circonvallazione" a Palermo,
quando il rivale Alfio Ferlito fu ucciso insieme ai carabinieri che lo stavano scortando in carcere (16 giugno1982). Furono questi i due episodi più sanguinosi che contraddistinsero la feroce guerra per il predominio a Catania e nella Sicilia orientale.

L'ascesa del "cacciatore" fu senza dubbio agevolata dal patto di ferro stretto con Totò Riina. Per ricambiare il favore ricevuto con l'omicidio Ferlito, Santapaola organizzò l'uccisione di Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto di Palermo. Condannato all'ergastolo per la strage della circonvallazione, per quella di via Carini, invece, Santapaola fu riconosciuto colpevole in primo grado ma assolto in appello; successivamente la Corte di cassazione decise di far ripetere il processo. Nel 1982 si diede alla latitanza, pur essendo malato di diabete e affetto da strani disturbi riconducibili ad una rara forma di licantropia, tanto da essere chiamato "il licantropo" perfino dai suoi due figli, traditi da una intercettazione telefonica, avvenuta poco prima della sua cattura. Dopo undici anni di latitanza, fu catturato all'alba del 18 maggio 1993 in una masseria di Mazzarone, nelle campagne tra Catania e Ragusa, al termine dell'operazione denominata in codice "Luna Piena".

I collaboratori di giustizia, primo fra tutti Antonino Calderone, fratello di Giuseppe, rivelarono le commistioni tra "il cacciatore" e il "comitato d'affari "composto da politici, imprenditori e anche magistrati corrotti che controllò Catania negli anni Ottanta: Santapaola fu, infatti, in stretti rapporti con i "cavalieri del lavoro" catanesi, messi sotto accusa dal giornalista Giuseppe Fava che pagò con la vita le sue coraggiose denuncie. Ormai in carcere, Santapaola subì un doloroso sfregio: il boss rivale Giuseppe Ferone, divenuto un collaboratore di giustizia, approfittò del regime di semilibertà e gli uccise la moglie Carmela Minniti (1 settembre 1995). Il 26 settembre 1997, la Corte d'assise di Caltanissetta lo ho condannato di nuovo all'ergastolo: questa volta per la strage di Capaci.





Michele Greco (1924 -  2008)
Era soprannominato Il papa per la sua abilità a mediare tra le varie famiglie mafiose

Nacque a Palermo il 12 maggio del 1924 il potente boss che fu soprannominato il papa, per la sua riconosciuta abilità nel mediare le dispute tra le diverse famiglie. Dopo la morte del padre Giuseppe, detto " Piddu u tinenti", diresse a lungo il mandamento di Croceverde - Giardini. Potente gabellotto fin da giovane, poi divenuto proprietario terriero grazie a minacce ed estorsioni, amava frequentare i salotti della Palermo bene. La Favarella, la sua tenuta di Ciaculli, del resto era visitata da politici, banchieri, professionisti e aristocratici decaduti che vi si recavano per una battuta di caccia o per un banchetto. Nella stessa tenuta erano stati ricavati alcuni rifugi sicuri per i latitanti mafiosi e anche una raffineria di eroina.

Il nome del "papa" venne associato a Cosa Nostra per la prima volta dal cosiddetto rapporto dei 162, elaborato nel 1982 da Ninni Cassarà e poi divenuto atto fondamentale per la costruzione del primo maxiprocesso. Nominato nel 1978 capo della commissione di Cosa Nostra, dopo l'espulsione di Badalamenti, non ostacolò l'avanzata dei corleonesi, dei quali divenne anzi alleato. Mandante, insieme con il fratello Salvatore, dell'omicidio del consigliere istruttore Rocco Chinnici, terminò la sua latitanza il 20 febbraio 1986. Nel marzo del 1991, nella attesa dell'appello del maxiprocesso, Greco ed altri imputati furono scarcerati per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva da un discutibile provvedimento della Corte di cassazione. Un decreto del governo, ispirato da Giovanni Falcone, divenuto nel frattempo direttore degli Affari penali del ministero di grazia e giustizia, ripristinò la detenzione per i boss scarcerati, tra cui anche il vecchio papa.



Luciano Liggio (o Leggio) (1925 - 1993)

Lucianeddu, detto anche la primula rossa, nacque a Corleone il 6 gennaio 1925. Ancora giovane campiere, prese il posto del vecchio capo mafia Michele Navarra e guidò i corleonesi all'assalto della città di Palermo, in aperta sfida al predominio delle altre famiglie di Cosa Nostra. Oltre alla conquista dei mercati illegali, si arricchì con lo sfruttamento delle opere di edilizia urbana, pubblica e privata, facendo leva sul rapporto preferenziale con il politico Vito Ciancimino, assessore e sindaco di Palermo in quegli anni del sacco della città. Non esitò mai ad eliminare i tanti ostacoli che gli si pararono dinanzi, dal sindacalista Placido Rizzotto, scomparso il 10 marzo del 1948, al capo mafia di Corleone Michele Navarra, ucciso il 2 agosto 1958. Fu arrestato la prima volta il 14 maggio del 1964.

Assolto per insufficienza di prove prima a Catanzaro nel 1968 e poi a Bari il 10 giugno del 1969, uccise il procuratore capo di Palermo Pietro Scaglione il 5 maggio

del 1971. Durante un lungo periodo di latitanza al Nord, portò a termine con i suoi uomini numerosi sequestri di persona, tra cui quelli di Luigi Rossi di Montelera, Paul Getty III, Giovanni Bulgari, Egidio Perfetti. Fu infine arrestato a Milano il 16 maggio 1974 e finì in carcere: da quel momento non tornò mai più in libertà. Colpito da infarto, morì il 15 novembre 1993 nel carcere di Badu e Carros, in Sardegna.



Giuseppe (Pippo) Calò (1921 - in carcere dal 30/3/1985)

Soprannominato "la salamandra" per la capacità di uscire indenne dalle situazioni più scottanti, proprio come l'anfibio, il boss mafioso Giuseppe Calò, nacque a Palermo il 30 settembre 1921, figlio di un macellaio e barista. Inizialmente, il giovane si cimentò nelle medesime professioni del genitore, fino a quando, non ancora diciottenne, si distinse per aver inseguito e ferito a colpi di pistola l'assassino dello stesso padre. Dopo un brillante apprendistato come "soldato", nel 1969 coronò la carriera all'interno dell'organizzazione, divenendo il capo del potente mandamento di Porta Nuova. All'inizio degli anni Settanta, si trasferì a Roma dove, sotto la finta identità di Mario Agliarolo, antiquario di professione, fece numerosi investimenti nel settore edilizio e riciclò, per conto delle cosche, una così gran quantità di denaro da guadagnarsi, in poco tempo, l'appellativo di "cassiere di Cosa Nostra".

Passato nello schieramento vincente dei Corleonesi, nel corso degli stessi anni, strinse legami strategici con il mondo dei servizi segreti e della politica. In numerose situazioni, non esitò neppure a servirsi della cosiddetta "Banda della Magliana", una banda di delinquenti comuni con base operativa nella capitale che, una volta entrati in contatto con la mafia e i servizi, seppero diversificare le proprie attività criminali, finendo implicati in alcuni dei più importanti misteri italiani. Diversi collaboratori di giustizia parlarono di un coinvolgimento della "salamandra" nella vicenda Moro: durante una riunione della Commissione, infatti, egli avrebbe bloccato il tentativo di salvare lo statista democristiano che Stefano Bontate voleva compiere, dichiarando che a volerne la morte erano esponenti influenti della stessa Democrazia Cristiana. Calò fu anche tra gli organizzatori dell'attentato al rapido 904, il treno che esplose la notte del 23 dicembre 1984, provocando la morte di quindici passeggeri e il ferimento di altri duecento. Il convoglio saltò in aria nei pressi di San Benedetto Val di Sambro (BO), nella stessa galleria in cui dieci anni prima vi era stato l'attentato al treno "Italicus" (12 morti e 105 feriti).

Il cassiere di Cosa Nostra fu arrestato il 30 marzo 1985, in una villa a Poggio San Lorenzo, in provincia di Rieti: nel suo covo fu ritrovato un vero arsenale da guerra. Il 25 febbraio 1989 fu condannato all'ergastolo unitamente ad altri quattro imputati: nel corso delle indagini emersero i collegamenti tra lo stesso Calò ed ambienti della destra eversiva. La sentenza fu confermata in appello (15 marzo 1990). A questa condanna si aggiunsero poi altri due ergastoli, uno per l'omicidio del commissario Boris Giuliano e l'altro per l'eccidio di via Carini, in cui perse la vita il prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa. Nel settembre del 1993 chiese di essere interrogato dai magistrati che indagavano sugli attentati alle basiliche di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio al Velabro a Roma, ma non fornì contributi rilevanti. Agli inizi del 1997, finirono in manette il costruttore palermitano Luigi Faldetta e Vincenzo e Giuseppe Bellino, uomini della famiglia di Porta Nuova: i tre furono accusati di essere i prestanome del boss palermitano per l'attività di riciclaggio. Il 26 settembre Calò fu condannato nuovamente all'ergastolo per la strage di Capaci. Alla fine dell'ottobre dello stesso anno, il "Corriere della Sera" pubblicò la clamorosa notizia della sua collaborazione con gli inquirenti: tuttavia la circostanza fu subito smentita.




Gaspare Mutolo (1940 - Pentito

Nato a Palermo il 5 febbraio 1940, Gaspare Mutolo, detto "Asparino" crebbe tra i vicoli di Pallavicino e le borgate di Mondello e Partanna. Abbandonata la scuola, iniziò a lavorare come meccanico in un'officina e quasi contemporaneamente si dedicò ai primi furti di macchine. Fin da giovane venne a contatto con la realtà mafiosa, dal momento che alcuni suoi familiari erano membri effettivi dell'organizzazione. Nel 1965 finì in carcere per la prima volta per furto. All'Ucciardone conobbe Salvatore Riina, allora boss emergente della mafia della provincia: dividendo la cella con il futuro "capo dei capi", Mutolo venne a conoscenza dei segreti di Cosa Nostra e, su suo invito, si mise sotto l'ala protettiva di Rosario "Saro" Riccobono, il capo della famiglia di Partanna Mondello. Dopo qualche anno di apprendistato, Mutolo fu "combinato" da Riina nel 1973 a Napoli, durante una riunione nell'abitazione del camorrista Lorenzo Nuvoletta. Ufficialmente affiliato alla famiglia di Partanna Mondello, divenne presto il braccio destro di Riccobono e uomo di fiducia di Riina per incarichi delicati.

Mutolo si fece quindi largo nell'organizzazione mafiosa, prima come killer e poi come trafficante di droga, grazie anche al rapporto di amicizia stretto in carcere con il trafficante Koh Bak Kin, originario di Singapore e attivo lungo le rotte del sud est asiatico. Arrestato ancora nel 1976 e poi nel 1982, finì per alternare periodi più o meno lunghi di detenzione nelle carceri italiane ad altri in cui fu sottoposto a provvedimenti di soggiorno obbligato in Toscana. Durante una delle sue detenzioni, fu compagno di cella di Luciano Liggio; successivamente rivelò agli inquirenti di essere lui l'autore delle tele attribuite all'estro pittorico del vecchio padrino di Corleone. La simpatia istintiva nutrita da Riina nei suoi confronti permise ad "Asparino" di salvare la vita, quando, nel novembre del 1982, Riccobono e altri uomini della cosca di Partanna Mondello furono eliminati perché ritenuti ormai del tutto inutili per i fini egemonici perseguiti dai corleonesi. Per alcuni anni Mutolo ebbe anche l'onore - onere di essere l'autista di fiducia e il guardaspalle personale del nuovo capo di Cosa Nostra. Al termine del primo maxiprocesso istruito dal pool di Falcone e Borsellino, fu condannato a sedici anni di reclusione.

Nel dicembre del 1991, Mutolo, ormai rinchiuso nel carcere di Spoleto, maturò la decisione di collaborare con la giustizia e, dopo la strage di Capaci, si rafforzò nella convinzione di dover rompere definitivamente con Cosa Nostra. Fu per questo che, a partire dall'estate del 1992, rese le sue dichiarazioni prima al procuratore della repubblica di Firenze Pierluigi Vigna e poi al giudice Paolo Borsellino, a pochi giorni dalla strage di via D'Amelio. L'insieme delle sue deposizioni fu subito giudicato straordinariamente importante, perché frutto delle rivelazioni ricevute direttamente da alcuni dei più influenti boss della Commissione di Cosa Nostra. Mutolo parlò del ruolo di mediatore tra politica e mafia svolto da Salvo Lima e confermò anche le responsabilità di Giulio Andreotti. L'uccisione di Lima, secondo Mutolo, fu un segnale che la mafia volle inviare al senatore a vita, a seguito della conferma dell'impianto accusatorio del primo maxiprocesso. Destarono clamore anche le sue rivelazioni sulle presunte collusioni con le cosche di alcuni magistrati palermitani, tra cui Carmelo Conti, Pasquale Barreca, Domenico Mollica, Francesco D'Antoni e Domenico Signorino, pubblico ministero al primo maxiprocesso e morto suicida il 3 dicembre 1992, proprio a seguito della pubblicazione sulla stampa di alcune indiscrezioni relative ad un suo coinvolgimento nelle confessioni di Mutolo. L'ex mafioso di Partanna Mondello fu inoltre uno dei principali testimoni di accusa a carico del questore Bruno Contrada, distaccato al SISDE, dopo una carriera iniziata nella squadra mobile di Palermo e continuata poi nelle file della Criminalpol.



Francesco Marino Mannoia (1951 - Pentito

Nato a Palermo il 5 marzo 1951, soprannominato Mozzarella o anche il chimico. Suo padre era un mafioso della famiglia di Santa Maria di Gesù. Nonostante fosse tra i picciotti più fidati di Stefano Bontade, alla sua morte passò con i clan vincenti, per i quali raffinò centinaia di partite di eroina. Dopo l'uccisione del fratello Agostino, nell'ottobre 1989, iniziò la sua collaborazione con le autorità giudiziarie. Fu il primo collaboratore di giustizia a provenire dalle fila dei clan vincenti. Nel mese di novembre dello stesso anno la mafia, per intimidirlo, uccise la madre, la sorella e la zia. Al maxiprocesso venne condannato a diciassette anni di reclusione. Attualmente vive con la sua compagna e i figli sotto la protezione dell 'FBI, in seguito alle deposizioni rese nei tribunali americani. E' tra i principali testi d'accusa contro Giulio Andreotti.




Leonardo Messina (1955 - in carcere dall'aprile 1992)

Leonardo Messina, detto "Narduzzo" nacque a San Cataldo, in provincia di Caltanissetta il 22 settembre 1955. Cresciuto in una famiglia di modeste condizioni e di tradizione mafiosa, Messina lasciò la scuola dopo la licenza elementare e, ancora giovane, diede il via alla sua carriera di criminale con alcuni furti.

La prima condanna pesante la subì nel 1978, quando finì in carcere per rapina. Dopo quattro anni di detenzione e un periodo di soggiorno obbligato, Messina fu pronto per diventare uomo d'onore. Il 21 aprile 1982, infatti, fu regolarmente affiliato alla cosca locale. Dopo alcuni anni trascorsi come soldato prima e capo decina poi, divenne sottocapo della famiglia di San Cataldo. In quegli stessi anni Messina divenne amico e uomo di fiducia di Giuseppe Madonia, detto "Piddu chiacchiera", esponente della famiglia più importante della provincia di Caltanissetta, quella di Vallelunga, molto legata ai corleonesi. Per molto tempo, nonostante le incriminazioni per furto, rapina e traffico di stupefacenti e alcuni provvedimenti di soggiorno obbligato a suo carico, fu considerato un esponente di secondo piano della mafia del nisseno. "Narduzzo", infatti, coprì le sue attività criminose, continuando a lavorare come caposquadra nella miniera di sali potassici di Pasquasia. Nel giugno del 1984, però, finì ancora in carcere con l'accusa di essere il mandante dell'omicidio di uno spacciatore e vi rimase fino al 1989; nel 1991 fu poi definitivamente assolto. Tornato in libertà, Messina si legò sempre più a "Piddu" Madonia, nel frattempo diventato il rappresentante provinciale di Cosa Nostra per Caltanissetta; per suo conto organizzò e gestì una rete per il traffico di stupefacenti con ramificazioni in altre regioni italiane.

Nell'aprile del 1992, alla vigilia di Pasqua, mentre stava per tendere un agguato mafioso ad un altro uomo d'onore, suo rivale nella corsa alla guida della famiglia di San Cataldo, fu catturato e finì in carcere. Temendo ritorsioni nei confronti dei suoi familiari e, come sostiene, forse spinto dalle parole di Rosaria, vedova dell'agente Vito Schifani, morto a Capaci, si decise a collaborare con la giustizia. Il 30 giugno dello stesso anno iniziò a deporre davanti al giudice Paolo Borsellino, facendo importanti rivelazioni sulle famiglie mafiose delle province di Caltanissetta, Enna, Palermo, Trapani ed Agrigento. Nacque così uno spettacolare blitz delle forze dell'ordine, la cosiddetta "Operazione Leopardo", che il 17 novembre del 1992 portò all'esecuzione di oltre duecento ordini di cattura in tutta Italia. Messina fu il primo collaboratore a mettere a verbale il nome di Giulio Andreotti, indicato come referente politico principale per le necessità di Cosa Nostra e fu anche l'unico a sostenere che il senatore a vita fosse stato "punciuto", cioè formalmente affiliato a Cosa Nostra. "Narduzzo" parlò poi delle responsabilità di Salvo Lima e del tentativo di aggiustamento in Cassazione del primo maxiprocesso, il cui esito fallimentare scatenò la stagione delle stragi nel 1992. A Messina si devono anche le prime informazioni sulla "Stidda", l'associazione mafiosa rivale di Cosa Nostra, soprattutto nell'agrigentino e nel nisseno e le importanti ed inquietanti rivelazioni sulla massoneria deviata e i suoi rapporti con Cosa Nostra.



Stefano Bontade (1938 - 1981)

Falco, noto anche come il principe di Villagrazia, nacque a Palermo il 23 aprile 1938. Ufficialmente possidente, fu invece il capo mafia della famiglia di Santa Maria di Gesù e anche affiliato alla massoneria. Suo padre, don Paolino, era tra i mafiosi più potenti della Sicilia e trattava gli esponenti politici come suoi sottoposti, non esitando a schiaffeggiarli in pubblico. I rapporti politici furono coltivati anche dal figlio che era in affari con Salvo Lima e i cugini Salvo, gli esattori di Salemi.

Dopo gli studi presso il Liceo Gonzaga dei Gesuiti, Stefano e il fratello Giovanni seguirono le orme del padre all'interno dell'organizzazione. Stefano finì per la prima volta in galera con l'accusa di traffico di stupefacenti, dopo l'omicidio del procuratore capo Pietro Scaglione, ucciso dai corleonesi. Condannato a tre anni nel processo dei centoquattordici, fu assolto in appello. Oltre ai notevoli proventi del traffico di droga, davvero fruttuosa si rivelò la collaborazione con i clan napoletani nel contrabbando di tabacchi. Sul finire degli anni Settanta la sua influenza all'interno della mafia siciliana raggiunse l'apice. Accolse e protesse Michele Sindona nel 1979, in occasione della sua fuga in Sicilia.

All'interno della commissione era uno degli esponenti più autorevoli, tanto che i corleonesi decisero di eliminarlo il giorno del suo compleanno, il 23 aprile del 1981, inaugurando così la seconda sanguinosa guerra di mafia.





Gaetano Badalamenti (1923 - 2004) 
Don Tano nacque a Cinisi il 14 settembre 1923. Nel 1947 emigrò clandestinamente negli Stati Uniti; nel 1950 venne rimandato in Italia e fu presente alla riunione all'Hotel des Palmes a Palermo. Grazie all'esperienza maturata in America, propose la creazione della prima "commissione" della mafia siciliana, che funzionò fino alla strage di Ciaculli. Dal 1971 al 1974 fu rinchiuso nel carcere dell'Ucciardone di Palermo. Già a metà degli anni Settanta era considerato dall'FBI come il vero cervello del traffico di stupefacenti che interessava le due sponde dell'Oceano Atlantico. Fece parte, con Riina e Bontade, del triumvirato che costruì Cosa Nostra e si mise a capo della commissione, per quanto non riconosciuto dai Riva, dal 1974 fino alla sua espulsione da Cosa Nostra avvenuta per motivi tuttora sconosciuti. Nel 1978 fece uccidere il militante di estrema sinistra Giuseppe Impastato che, dai microfoni della radio locale Aut Aut, ne denunciava i traffici di droga, organizzati grazie al controllo sull'aeroporto di Punta Raisi a Palermo. Impastato fu ritrovato sui binari della ferrovia, dilaniato da una bomba: ci vollero diversi anni, prima che fosse riconosciuta l'origine mafiosa del delitto.

Spazzata via dagli avversari la maggior parte dei suoi uomini, Badalamenti si rifugiò in Brasile, dove ebbe contatti con altri latitanti, tra cui Buscetta. Fu arrestato a Madrid nell'aprile 1984 ed estradato negli Stati Uniti. Qui è attualmente detenuto per traffico di stupefacenti, dopo la condanna a trent'anni di reclusione, avvenuta nel 1986, nell'ambito dell'inchiesta Pizza Connection. I suoi rapporti con la politica e la sua conoscenza dei molti segreti di Cosa Nostra sono stati al centro delle dichiarazioni di famosi collaboratori di giustizia. Nel marzo 1995, il suo nome è tornato alla ribalta in occasione del suicidio del maresciallo dei carabinieri Antonino Lombardo che, stando alle indiscrezioni, ne stava organizzando il rientro in Italia per deporre in alcuni processi di mafia.





Tommaso Buscetta (1928 - 2000) Pentito

Il più famoso collaboratore di giustizia, l'ex boss dei due mondi, nacque a Palermo il 13 luglio 1928, ultimo di diciassette figli. Dopo aver lavorato nella vetreria del padre, a soli 20 anni entrò nella famiglia mafiosa di Porta Nuova. Nel 1956 il primo arresto con l'accusa di contrabbandare sigarette. Allo scoppiare della prima guerra di mafia, Buscetta fuggì in Messico; nello stesso anno venne spiccato nei suoi confronti un mandato di cattura per associazione a delinquere e omicidio plurimo. La sua carriera criminale si svolse tra l'Europa e il Sud America, soprattutto nel contrabbando di tabacchi e droga. Processato in contumacia a Catanzaro, fu arrestato nel 1970 negli Stati Uniti e nel 1971 si trasferì in Brasile. Nello stesso anno la Commissione antimafia lo inserì nella lista dei dieci mafiosi più pericolosi. Nel 1977 fu estradato dal Brasile e dopo il carcere scontato all'Ucciardone e alle Nuove di Torino, grazie al regime di semilibertà, diventò di nuovo un latitante.

All'inizio degli anni Ottanta fece ritorno in Italia per cercare di trovare una composizione della vertenza tra le vecchie famiglie palermitane e i rampanti corleonesi. Non riuscì nel suo scopo e tornò in Brasile, dove fu arrestato nel 1983 ed estradato in Italia l'anno successivo. Iniziò a

collaborare con Falcone, che emise in base alle sue rivelazioni ben 366 mandati di cattura. Fu Buscetta a svelare per primo e in maniera compiuta al giudice i segreti di Cosa Nostra, offrendo le necessarie chiavi di lettura per interpretare l'organizzazione, gli organigrammi, le attività e gli appoggi dell'associazione mafiosa. Al primo maxiprocesso venne condannato a tre anni e tre mesi.

Dopo la strage di Capaci, a partire dall'aprile 1993, ha rilasciato nuove dichiarazioni sui rapporti tra mafia e politica e sui delitti Moro, Pecorelli e Dalla Chiesa. E' morto il 2 aprile 2000 nella sua casa di New York dopo una malattia durata circa due anni, è rimasto cosciente fino alla fine.


Salvatore (Totuccio) Contorno (1946 - Pentito

Detto anche Coriolano della Floresta, nacque a Palermo il 28 maggio 1946 e fu iniziato a Cosa Nostra nel 1975, entrando a fare parte della famiglia di Santa Maria di Gesù. Di professione macellaio, si occupò di contrabbando di sigarette e poi di droga, con i cugini Grado. Negli anni Settanta fu mandato in soggiorno obbligato in provincia di Verona. Dopo una condanna a ventisei anni in contumacia per il sequestro di un industriale, visse la latitanza a Palermo. Fedelissimo di Stefano Bontate, il 25 luglio 1981 scampò ad uno spettacolare attentato tesogli dai clan rivali a Brancaccio. Divenne un informatore di Ninni Cassarà che lo chiamava, in codice, Prima Luce. Fu arrestato il 23 marzo del 1982 a Roma, mentre studiava il piano per uccidere Pippo Calò e vendicare così i suoi molti parenti uccisi dai corleonesi e dai loro alleati.

Nell'ottobre del 1984 cominciò a collaborare con i giudici, completando le dichiarazioni rese da Buscetta. Nel 1987, alla conclusione del maxiprocesso, fu condannato a sei anni. Dopo la testimonianza al processo per la Pizza Connection,

la giustizia americana gli concesse lo status di collaboratore. Nel 1989 fu arrestato nei pressi di Palermo, mentre si pensava fosse in America. Nell'estate di quell'anno nacque così la vicenda delle lettere anonime, probabilmente scritte da un addetto ai lavori, poi soprannominato il corvo di Palermo. In queste lettere si accusavano i poliziotti e i magistrati più impegnati nella lotta alla mafia di utilizzare l'ex killer per uccidere i capi dei corleonesi. Nel 1997 nuove polemiche sul ruolo svolto in passato da Contorno hanno alimentato le voci di una possibile revoca del programma di protezione.




Antonino Calderone (1935 - Pentito
Nato a Catania il 24 ottobre 1935. Ufficialmente imprenditore, in realtà mafioso di spicco dal 1962, anche se incensurato al momento dell'arresto. La famiglia Calderone fu tra le cosche perdenti dalla seconda guerra di mafia, che nel catanese vide trionfare Nitto Santapaola, alleato dei corleonesi. Il fratello di Antonino, Giuseppe, rappresentante delle famiglie catanesi nella Cupola, fu assassinato l'8 settembre 1978. Arrestato a Nizza nel 1986, durante la permanenza in carcere, Calderone ebbe il sentore che poteva essere ucciso e divenne così collaboratore di giustizia a partire dall'aprile 1987. Le sue dichiarazioni fornirono un positivo riscontro alle confessioni di Buscetta e Contorno e causarono l'emissione di 166 mandati di cattura.

Calderone spiegò ai giudici le origini della mafia a Catania e il funzionamento della commissione interprovinciale di Cosa Nostra, detta in gergo mafioso Regione. Fece inoltre pesanti rivelazioni sul conto di Salvo Lima e dei cugini Salvo e svelò i rapporti tra Santapaola e i cavalieri del lavoro, vale a dire gli imprenditori Mario Rendo, Gaetano Graci, Carmelo Costanzo e Francesco Finocchiaro. Dopo le stragi del 1992 ha fornito nuovi particolari sui rapporti tra mafia e politica.



Leonardo Vitale (1941 - 1984)

Nacque a Palermo il 27 giugno 1941 e nel 1960 entrò a far parte della famiglia di Altarello di Baida, comandata dallo zio. Arrestato il 17 agosto 1972 con l'accusa di aver partecipato al sequestro dell'ingegner Cassina, venne scarcerato per insufficienza di prove il 30 marzo 1973.

Perseguitato da furori mistici e dal rimorso di coscienza, si recò spontaneamente dai giudici ai quali confessò di far parte di una potente associazione criminale: Cosa Nostra. La stessa spontaneità di rivelazioni così scottanti, per certi versi allora incredibili, venne valutata come indice di pazzia e pertanto Vitale, dopo essere stato sottoposto a numerose perizie psichiatriche, fu rinchiuso per dieci anni nel manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina.

Sul merito delle sue rivelazioni non venne mai avviata alcuna indagine. Una conferma indiretta della loro veridicità si ebbe invece il 2 dicembre 1984. Solamente due mesi dopo essere tornato in libertà, all'uscita dalla messa domenicale, il primo pentito della storia della mafia venne ucciso. Il suo omicidio doveva costituire un monito per quei mafiosi che, come Buscetta e Contorno, stavano in quei mesi collaborando con la magistratura palermitana. A molti anni di distanza i collaboratori di giustizia più importanti confermarono le sue accuse.





Giuseppe Di Cristina (1923 - 1978)

Nacque il 22 aprile 1923, a Riesi, in provincia di Caltanissetta, all'interno di una famiglia di consolidata tradizione mafiosa; suo padre e suo nonno, infatti, erano entrambi potenti uomini d'onore. A partire dagli anni Cinquanta, "la tigre di Riesi", così soprannominato per le doti di astuzia e ferocia, seppe rinverdire i fasti della mafia del nisseno, riorganizzandola e orientandone la potenza criminale verso i nuovi traffici della droga e del riciclaggio. Inviato nel 1963 al soggiorno obbligato a Torino, dopo il ritorno in Sicilia, alla ricerca di una copertura per i suoi traffici illeciti, lavorò come impiegato presso gli sportelli palermitani della Sicilcassa e poi, nel 1968, fu assunto come contabile alla Sochimisi, la società chimica mineraria a partecipazione regionale. Esperto tessitore di trame e collusioni, il boss di Riesi insieme al boss catanese Giuseppe Calderone, suo compare e amico, cercò di stabilire un accordo incruento tra la Commissione e Michele Cavataio, giudicato responsabile dello scoppio della prima guerra di mafia; i due non riuscirono però nel loro intento e così si arrivò alla strage di viale Lazio (10 dicembre 1969). La "tigre" seppe imporsi anche come uomo d'azione, guidando i mafiosi, camuffati da medici che, il 28 ottobre 1970, fecero irruzione nell'ospedale civico di Palermo per uccidere l'albergatore Candido Ciuni, già ferito su suo ordine, per una pesante lite avuta in precedenza.

Dopo avere scontato un breve periodo di detenzione, una volta uscito, Di Cristina tornò indisturbato ai suoi traffici. Nel frattempo, a causa della sua accresciuta intesa con i fratelli catanesi Calderone, nacque l'inevitabile ostilità dei Corleonesi e dei loro alleati che individuarono in questa alleanza una possibile sponda per le famiglie palermitane, rivali nello scontro per la supremazia dentro Cosa Nostra.

Sul finire degli anni Settanta due episodi contribuirono a rafforzare ulteriormente l'isolamento di Giuseppe Di Cristina all'interno della mafia siciliana: l'eliminazione del boss di Vallelunga Francesco Madonia, suo rivale nel nisseno ma alleato di Riina e il duro scontro con il "papa" Michele Greco, colpevole di avere tollerato che gli uomini di Corleone uccidessero il tenente colonnello dei Carabinieri Giuseppe Russo (20 agosto 1977), senza il consenso della Cupola. Messo alle strette e sentendo ormai di essere rimasto solo, "la tigre" giocò l'ultima carta a disposizione, in un tentativo disperato di rivalersi sui suoi nemici di sempre, i Corleonesi. Decise così di collaborare con i Carabinieri e, nel corso di alcuni colloqui segreti, promise dichiarazioni scottanti, anche se alla fine rivelò solamente le responsabilità dei clan emergenti, suoi avversari. Mentre gli inquirenti cercavano riscontri alle sue dichiarazioni, un commando di killer lo uccise a Palermo, il 30 maggio del 1978, ad una fermata dell'autobus.



Vincenzo Rimi (1902 - 1975) e Filippo Rimi (1923 - in carcere)

Padre e figlio, entrambi influenti uomini d'onore della famiglia di Alcamo (TP). Vincenzo Rimi era nato ad Alcamo il 6 maggio del 1902 e in gioventù divenne cognato e alleato di Tano Badalamenti. Il figlio Filippo nacque anche lui ad Alcamo il 9 marzo del 1923.

I due mafiosi furono condannati in primo grado e in appello per l'assassinio di Salvatore Lupo Leale, figlio di Serafina Battaglia. Il giovane era stato ucciso il 30 gennaio del 1962 perché aveva progettato di vendicarsi dei Rimi, che riteneva colpevoli dell'omicidio del padre, espulso da Cosa Nostra. Serafina Battaglia fu la prima donna che testimoniò contro la mafia. Giunto il processo in cassazione, il 3 dicembre del 1971, i due mafiosi videro annullare le loro condanne all'ergastolo, grazie alle pressioni di alti magistrati e influenti uomini politici. Il nuovo processo si concluse il 13 febbraio 1979 con l'assoluzione dei Rimi per insufficienza di prove. Il vecchio Rimi scomparve prima di quest'ultima sentenza, il 28 marzo del 1975, mentre Filippo Rimi è tuttora in carcere.



Michele Navarra (1905 - 1958)

Primogenito di otto figli di una famiglia appartenente al ceto medio, Michele Navarra nacque a Corleone (PA) il 5 gennaio 1905; il padre Giuseppe, piccolo proprietario terriero e membro del "Circolo dei nobili" del paese, esercitava le professioni di geometra e maestro nella locale scuola agraria.

Nonostante un carattere ribelle e incline alla spavalderia, riuscì ad applicarsi con profitto negli studi. Terminate le scuole ordinarie, si iscrisse all'Università di Palermo, prima alla facoltà di ingegneria e poi a quella di medicina. Ottenuta nel 1929 la laurea in medicina e chirurgia, prestò servizio militare a Trieste come medico ausiliario. Con il congedo definitivo, nel 1942, arrivò anche la nomina a capitano. Nell'esercitare come medico condotto a Corleone, seppe guadagnarsi la benevolenza degli abitanti della zona. Prestigio professionale, furbizia e apparente bonomia: furono queste le doti in grado di innalzarlo prima al rango di uomo d'onore tra i più rispettati e poi a quello di capo indiscusso della locale famiglia mafiosa, soprannominato per la sua influenza "u patri nostru".

Vissuta senza troppi problemi la parentesi del regime fascista, in seguito allo sbarco in Sicilia, così come avvenne per gli altri capi mafia, Navarra divenne un interlocutore credibile per gli alleati ed egli ne approfittò per costituire con il fratello una società di autolinee, funzionante grazie ai mezzi recuperati nell'isola dal Governo alleato dei territori occupati (A.M.G.O.T.): nel 1947 la società fu rilevata dalla Regione Sicilia e quindi assorbita nell'Azienda Siciliana Trasporti.

Riconoscendone l'importanza strategica, Navarra strumentalizzò sapientemente le evoluzioni della politica regionale e nazionale: dopo avere appoggiato inizialmente le istanze indipendentiste, fece poi confluire i voti controllati dalla mafia locale prima sul Partito liberale e poi sulla Democrazia cristiana. Nel giro di due anni, dal 1946 al 1948, il medico condotto di Corleone divenne anche la massima autorità sanitaria della zona, ricoprendo gli uffici di medico fiduciario dell'INAM e di direttore dell'ospedale di Corleone, poltrona così ambita da spingerlo a commissionare l'uccisione del legittimo titolare. Negli stessi anni si adoperò per controllare le pretese dei contadini e assicurare l'amministrazione dei feudi del corleonese ai suoi uomini. Il 14 marzo del 1948, dopo un'iniezione fattagli da Navarra, morì Giuseppe Letizia, un giovane pastore di soli tredici anni, unico testimone oculare del rapimento e dell'uccisione di Placido Rizzotto, il combattivo sindacalista eliminato da Luciano Liggio e da altri membri della cosca di Corleone. Arrestato nell'ambito dell'inchiesta su questi due efferati omicidi, ma mai condannato, fu inviato al soggiorno obbligato a Gioiosa Ionica (RC). Grazie alle pressioni di alcuni influenti politici, suoi amici, la misura di prevenzione, fissata inizialmente in un periodo di cinque anni, fu dichiarata decaduta dopo pochi mesi e già nella primavera del 1949 Navarra tornò a dirigere le attività della famiglia di Corleone. Navarra raggiunse l'apice del successo, favorendo l'elezione dell'avvocato Alberto Gensardi alla guida del Consorzio per la bonifica dell'alto e medio Belice: con tale nomina - Gensardi era il genero di Vanni Sacco, potente capo mafia di Camporeale - la mafia ribadì la propria contrarietà all'ipotesi di realizzare una diga sul fiume Belice, che avrebbe significato la fine del suo controllo sull'erogazione dell'acqua nell'agro palermitano, trapanese ed agrigentino.

Il primato raggiunto dal medico all'interno della mafia fu però messo in discussione da un suo picciotto, Luciano Liggio, l'astro nascente del panorama criminale corleonese. "Lucianeddu" iniziò giovanissimo a militare nella cosca guidata da Navarra ma l'intraprendenza e la ferocia, unite al forte ascendente che esercitava sui compagni, ne fecero ben presto un rivale temibile. Navarra si accorse di avere dato troppo spazio a quel giovane campiere e tentò di correre ai ripari, ordinandone l'uccisione. Liggio scampò però all'attentato e si prese la rivincita il 2 agosto del 1958. Quel giorno, mentre con un amico rientrava in auto da Lercara Friddi a Corleone, Navarra fu trucidato da Liggio e i suoi, lungo la statale nei pressi di Palazzo Adriano. L'uscita di scena di Michele Navarra segnò anche l'inizio dell'ascesa dei temibili corleonesi, guidati prima da Liggio e poi da Riina e Provenzano.







Antonino "Nino" Giuffrè (1945 - in carcere dal 16/4/2002) Pentito

Detto "Manuzza" per quella mano destra strappata via da una fucilata durante una battuta di caccia, 57 anni, sposato e padre di due figli, boss di Caccamo, nel palermitano.
Al l'inizio degli anni Ottanta, il giovane Nino inizia la gavetta, fa il cameriere: serve pranzo e cena all'allora capo della Cupola di Cosa nostra Michele Greco "il papa", a quel tempo latitante in un casolare di Caccamo. Quando il "papa" viene arrestato nel febbraio dell'86, lascia una buona parola per il giovane cameriere che è già nelle grazie del capomandamento di Caccamo, Francesco Intile. E' il salto, "Manuzza" non è più solo un ragazzo di bottega.

Con l'arresto di Lorenzo Di Gesù, eminenza grigia del mandamento, tramonta la stella di Pino Gaeta, boss di Termini Imerese (altro paese del palermitano). Giuffrè ne approfitta e, forte dell'alleanza con i corleonesi di Totò Riina, riesce a scalzare Gaeta e a imporre il controllo su tutta quella parte di territorio, diventa così il capo del mandamento più esteso di Cosa nostra.

Sono gli anni Novanta, quelli degli affari, che "Manuzza" riesce a passare alla grande nonostante la stagione stragista di attacco diretto allo Stato decisa da Riina. Perché per la giustizia, Giuffrè non è lo spietato e freddo boss di Caccamo: è solo un perito agrario con lievi precedenti penali. Fino a che il pentito Balduccio Di Maggio rivela per la prima volta ai magistrati chi è veramente Nino Giuffrè. Quello stesso pomeriggio gli uomini della Dia piombano a Caccamo, ma il boss riesce a dileguarsi dalla porta posteriore della sua casa iniziando la latitanza.

Negli ultimi anni, dopo l'arresto di Giovanni Brusca, il suo potere cresce a dismisura: allunga le mani sugli appalti miliardari per il raddoppio della linea ferroviaria Palermo-Messina e per il completamento dell'autostrada nella zona a cavallo tra le due province.

Quando, a metà degli anni Novanta, la cupola si spacca sulla strategia da seguire (stragi o trattativa con lo Stato), "Manuzza" non esita ad abbandonare Riina. Capisce che il futuro è ritornare ad immergersi, tenere un profilo basso e continuare a fare affari. E' il momento dell'avvicinamento a Bernardo Provenzano del quale organizzerà la latitanza e sposerà in pieno la tesi della ristrutturazione affaristica di Cosa nostra.

Giuffrè è stato condannato con pena definitiva a 13 anni e due mesi di carcere (pena unificata a seguito di cumulo di diverse sentenze con le quali è stato condannato per associazione mafiosa) e fino al suo arresto avvenuto in una masseria di contrada Massariazza a Vicari, era destinatario di 13 provvedimenti cautelari, fra i quali anche quello per la morte di Falcone e Borsellino. Fu trovato in un casolare con ancora addosso i biglietti e gli appunti delle cose da fare: appalti, racket, favori da concedere, uomini da valutare, messaggi dai sottoposti, messaggi per il grande capo.

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