Cosca - Famiglia (mafia) "Cosca dei Pidocchi"



Capire la mafia dal significato delle parole: “cosca”


Cerchiamo di capire la mafia capendone la terminologia.
Si parla sempre di cosca mafiosa per indicare una famiglia mafiosa, una banda di mafiosi che controlla un certo territorio. Ma da dove viene la parola “cosca” e perchè viene usata?
Ebbene in siciliano una cosca è una foglia di carciofo. L’uso del termine in ambito mafioso non è casuale.


Le “cosche”, le foglie del carciofo, formano varie cerchie, le cerchie più esterne proteggono dalla vista quelle più interne, in modo da mantenere la segretezza, e Cosa Nostra è appunto una società segreta. Questo è il punto fondamentale.


L’osservatore esterno vede solo le foglie (cosche) esterne, cioè i delinquenti di strada, carne da macello che vanno a riscuotere il pizzo ed eseguono a loro volta i lavori di bassa macelleria e passano la maggior parte della loro vita in galera o fuggendo dai killer rivali. Questo è quello che normalmente appare nella cronaca dei giornali e che non spiega la vera natura dell’organizzazione.
Le foglie esterne a loro volta, hanno una visione limitata dell’organizzazione interna, perché il sistema di cerchie ne impedisce la vista. Via via che che ci si inoltra verso l’interno, le cerchie sono costituite da sempre meno foglie, fino a quando non si arriva al “cuore” del carciofo Cosa Nostra, segretissimo e la cui conoscenza e visibilità è ristretta a pochissime persone.
Questa struttura finalizzata al mantenimento della segretezza serve non solo a proteggere i propri membri dalla legge, ma anche a nascondere ciò che ha sempre garantito la crescita ed il prosperare dell’organizzazione, cioè i legami con il potere politico, economico e uomini delle istituzioni.
Dunque il carciofo Cosa nostra è una società segreta, come per esempio la carboneria e la massoneria. Anzi, sicuramente cosa nostra alla sua nascita 10-20 anni prima dell’unità d’Italia ha tratto i suoi riti dalla massoneria dell’epoca (si legga ad esempio il libro di Jon Dickie, “Cosa Nostra, storia della mafia siciliana”), addirittura potrebbe esserne essa stessa una ramificazione. Quest’ipotesi spiegherebbe benissimo il perdurare dei rapporti dei vertici dell’organizzazione con politica, economia e istituzioni ed è supportata per esempio dalle dichiarazioni del collaboratore Maurizio Avola che sostiene che quasi tutti i capi mafia sono massoni, e dai memoriali del pentito Vincenzo Calcara, che addirittura disegna uno scenario più ampio, in cui Cosa Nostra e la massoneria deviata sono due entità di un sistema segreto del male, formato da cinque entità e governato da una super commissione che coordina le operazioni delle varie entità.

Cosca - Famiglia (mafia)

 
Una Famiglia, detta anche "cosca"[1], è un'associazione mafiosa composta da elementi criminali che hanno tra loro vincoli o rapporti di affinità, i quali si riconoscono in un capo e si danno una struttura gercarchica per riuscire a controllare tutti gli affari leciti e illeciti della zona dove operano[2]. Questo tipo di aggregazioni criminali sono tipiche di Cosa Nostra e delle sue ramificazioni negli Stati UnitiCosa Nostra americana»), dove mafiosi siciliani emigrati alla fine del XIX secolo si aggregarono pure in Famiglie e si diedero la stessa scala gerarchica che avevano in Sicilia[3]. Questo tipo di organizzazione è pure tipica della 'Ndrangheta in Calabria, dove però le Famiglie sono chiamate 'Ndrine, le quali sono composte da famiglie di sangue e dai relativi parenti, associatisi per controllare ogni affare illecito[4].

Struttura di una "Famiglia" siciliana ed americana 

 
 
 

Capofamiglia 

La struttura della famiglia è così composta: al vertice dell'intera "famiglia" si trova il "capo famiglia", detto anche "boss" o "rappresentante", il quale decide la linea di condotta degli affari, e senza il suo ordine o consenso nessun membro può attuare azioni delittuose. Nella provincia di Palermo il capo famiglia non risponde a nessuno se non alla "Commissione", ovvero al "tribunale" amministrativo dei mafiosi, mentre se si trova in un'altra provincia siciliana risponde al rappresentante della provincia dove opera la sua Famiglia.

Vicecapo 

Sotto il capo famiglia, si trova il "vicecapo", o detto anche "sottocapo", ovvero in ordine gerarchico il numero due dell'intera "cosca". Il ruolo del vice può somigliare a quello di un intermediario, ma è molto spesso associato anche al comando di un'operazione che non richiede l'intervento diretto del boss. Il vice in assenza del Boss diviene automaticamente il reggente dell'intera cosca. Il vice può anche impartire ordini ai capidecina.

Consigliere 

Il braccio destro del capo famiglia è sicuramente il "consigliere", ovvero colui che aiuta il capofamiglia a decidere cosa fare nelle situazioni più delicate, anche se talvolta i consiglieri sono da un minimo di uno ad un massimo di tre, a seconda delle dimensioni della "famiglia". Solitamente il "consigliere" si occupa della contabilità finanziaria dell'organizzazione, e a risolvere le questioni tra il "boss" ed i "capidecina". In linea gerarchica è il numero "3" della "cosca" anche se in alcuni casi le figure del "consigliere" e del "vicecapo" coincidono.

Capodecina 

Il "capodecina" o "caporegime" è il pilastro della "Famiglia", ovvero colui che ha il rapporto primario con i propri "soldati", al quale comanda ogni genere di ordine impartito dal capofamiglia, o come già detto dal vice o dal consigliere. I capidecina variano a seconda delle dimensioni e della grandezza della "famiglia". Possono essere da un minimo di due ad un massimo di quindici. I capidecina conducono le operazioni, ed ordinano agli uomini sotto il loro comando gli ordini da eseguire. Ogni "capodecina" è a capo di un numero di "uomini d'onore" chiamati comunemente "soldati" che variano da un minimo di 5 ad un massimo di 20, sempre a seconda delle dimensioni della cosca. Questi gruppi sono chiamati "decine".

Soldato 

Il "soldato" è un "uomo d'onore" regolarmente affiliato che è sotto il comando di un capodecina e risponde direttamente ai suoi ordini. Il soldato si occupa di svolgere le attività che gli impartisce il suo diretto superiore che possono essere: dall'esecuzione di omicidi, al traffico di droga, alle operazioni di usura, al racket delle estorsioni e la relativa riscossione dei soldi.

Avvicinato 

Ogni "soldato" può anche collaborare con uno o più aspiranti mafiosi non ancora affiliati solitamente chiamati "avvicinati", i quali sono possibili candidati all'affiliazione e quindi vengono messi alla prova per saggiare la loro affidabilità, facendogli compiere numerose "commissioni", come l'estorsione, il contrabbando, e la riscossione dei soldi del racket, il trasporto di armi da un covo all'altro, l'esecuzione di omicidi e il furto di automobili e moto per compiere atti delittuosi.
Accanto all'avvicinato vi può essere anche la figura dell'"associato", ovvero un criminale che collabora alle attività illecite della Famiglia, pagando una percentuale ai capi, ed è vicino a qualche mafioso più alto di carica ma non ha i requisiti per essere affiliato. Nella Cosa Nostra americana l'associato molto spesso è un criminale non-italiano, che per motivi di sangue non sarà mai parte di una Famiglia ma collabora con esse.
 
Cosca
 


La parola è di etimologia incerta, ma, secondo una tradizione piuttosto consolidata, potrebbe derivare dal termine coschin, che nella lingua araba significa luogo oscuro, segreto e nascosto. Quisquina era il luogo dove Santa Rosalia andava a ritirarsi in preghiera, luogo oscuro e protetto, appunto. Vi potrebbe essere una connessione con il fatto che la Santa è patrono di Palermo, ma su questo punto è possibile fare soltanto delle ipotesi (per quanto riguarda la presenza di Santa Rosalia nell’immaginario mafioso, cfr. il capitolo “Il patrono e il padrino” in Santino 1999).

Riprendendo il significato invalso in Sicilia di chiamare così la brattea del carciofo, che con la sua struttura indica qualche cosa di molto coeso e che tiene custodita la parte più intima, con il termine cosca si identificano tradizionalmente i raggruppamenti di base della mafia siciliana. Attualmente l’uso della parola è stato esteso ad identificare i raggruppamenti di base di ogni formazione mafiosa. Diviene, quindi, sinonimo di mandamento, famiglia, clan oppure ’ndrina (la cellula di base della ’Ndrangheta).

Scriveva il giudice Cesare Terranova, assassinato nel 1979 dalla mafia: “mettendo da parte le fantasie del passato, (…) la mafia non è un concetto astratto, non è uno stato d’animo, ma è criminalità organizzata, efficiente e pericolosa, articolata in aggregati o gruppi o <> o meglio ancora <>” (Cit. in Lupo 1996, p. 213). Affermare che la mafia è costituita da cosche significa, quindi, fare emergere come essa abbia una struttura collettiva, e come sia costituita da uomini in carne ed ossa con precisi vincoli di appartenenza. Se oggi ciò può apparire scontato, così non era ai tempi – tra l’altro relativamente recenti – in cui scriveva Terranova. E questo non valeva soltanto per gli inquirenti e le forze dell’ordine. Come mette in evidenza Letizia Paoli, “per gli scienziati sociali che condussero le prime indagini sul campo tra gli anni ’60 e i primi anni ’80 essa [la mafia, nda] era solo un comportamento e una forma di potere” (Paoli 2000, p. 20).

Le organizzazioni mafiose hanno tratto per molto tempo vantaggio dal fatto che la mafia fosse considerata un modo di pensare o un modo di sanare i conflitti tipico di determinate aree del Paese; una sorta di matrice culturale che potenzialmente poteva essere estesa ad intere popolazioni. Ne sortiva una difficoltà di identificazione del problema, e ciò rafforzava l’immagine della mafia come entità al contempo sfuggente e culturalmente radicata, quindi difficilmente perseguibile sul piano penale.

Per quanto il termine cosca sia stato utilizzato per sottolineare l’esistenza di una dimensione collettiva e di precisa appartenenza del fenomeno mafioso, il significato specifico ad esso attribuito è stato fortemente condizionato dalle caratteristiche associate a questa stessa dimensione. In particolare è stato contemporaneamente utilizzato (1) per identificare l’organizzazione formale, differente dal gruppo primario (la famiglia) o amicale, così come (2) per sottolineare la flessibilità e la fluidità dell’organizzazione sul territorio, priva di una struttura centralizzata e/o che si costituisce quasi spontaneamente, magari per estensione e specializzazione dello stesso gruppo familiare; (3) altre volte per identificare i differenti livelli di appartenenza di una più vasta formazione mafiosa presente sul territorio.


 

(1) La cosca, quindi, può indentificare l’organizzazione mafiosa presente sul territorio e rigidamente strutturata. Non si appartiene ad essa naturalmente, ma vi si entra attraverso degli atti formali che consistono in rituali di affiliazione segreti (battesimi) e che costituiscono ciascuna cosca come luogo di persone selezionate. Nel caso di Cosa Nostra siciliana e in quello della ’Ndrangheta calabrese, i rituali hanno un sapore arcaico, e prevedono, tra le altre cose, di bruciare sul palmo della mano l’immaginetta di un santo, nel caso della mafia siciliana, o di appoggiare la mano sulla punta di un coltello, nel caso di quella calabrese. L’arcaicità di questi rituali è tutta apparente, ed è oggi possibile affermare  che si tratta di elementi funzionalmente legati alla gestione della cosca, rivolti sia all’interno, sia all’esterno di essa. All’interno, infatti, i rituali di affiliazione tendono a rafforzare il vincolo tra gli appartenenti, rendendolo altrettanto se non più forte del vincolo di sangue (cfr. in particolare Arlacchi 1992; Paoli 2000); all’esterno, la naturale osmosi tra contesto locale e associazione segreta fa trapelare pezzetti di questo mondo esoterico rafforzando l’immagine dell’onorata società e predisponendo i nuovi potenziali adepti, che sono richiamati dalla volontà di appartenere ad un circolo esclusivo (Parini 2003).

Il riconoscimento della dimensione organizzativa formale ha portato ad enfatizzare il carattere integrato e gerarchico delle cosche. Per tutti gli anni ’90, e soprattutto in riferimento a Cosa Nostra siciliana, è prevalsa questa prospettiva. Nella relazione di Luciano Violante, quando era presidente della Commissione Parlamentare antimafia, si trova scritto: “Cosa Nostra è un’organizzazione criminale, dotata di precise regole di comportamento, di organi formali di direzione, con aderenti selezionati sulla base di criteri di affidabilità, con un territorio sul quale esercita un controllo tendenzialmente totalitario. Ha una struttura organizzata di tipo verticale, con commissioni provinciali ed una commissione regionale. La commissione provinciale di Palermo è, di fatto, quella più potente” (Violante in Barrese 1993, p. 46). Le cosche mafiose non sono soltanto delle strutture organizzate all’interno, ma sono organizzate anche tra di loro e devono essere rispettate precise linee gerarchiche. Erano gli anni in cui drammaticamente emergeva tutta la potenza della mafia, la sua capacità di insediamento sul territorio, di controllo della politica e di gestione dei mercati illeciti internazionali. E per spiegare tutto ciò era plausibile l’ipotesi di un centro di controllo unitario.

(2) Un’altra prospettiva considera il termine cosca sinonimo di raggruppamento informale, sia spontaneo sia basato sul vincolo familiare o di consanguineità. Il principale riferimento è lo studioso Gaetano Mosca, più noto nell’ambito delle scienze sociali e politologiche per i suoi studi sulla classe politica e le élites. E’ lui che per la prima volta agli inizi del ’900 definisce la cosca come organizzazione molto semplice “che non ha niente di fisso e di burocratico” (Mosca 1901, p. 32). Le cosche sarebbero, piuttosto, organizzazioni che germinano nello “spirito di mafia” che rappresenta per esse un vero e proprio ‘brodo di coltura’. Riprendendo una formulazione tipica degli studiosi delle élites, leader delle cosche sono “quelle tre quattro o cinque persone più autorevoli per l’età, l’intelligenza (…) le condanne riportate e soprattutto per l’esperienza e la perizia maggiore nell’arte difficile di delinquere impunemente. Se uno di questi membri eccelle sugli altri per il complesso di tutte queste qualità diventa di fatto il capo supremo” (Mosca 1901, pp. 32-33). Pochissimi anni dopo, Giuseppe Alongi riprenderà la formulazione di Mosca nel suo La Mafia (1904) per descrivere le associazioni mafiose operanti in Sicilia.

A partire da questa tradizione sono state sottolineate la fluidità e l’autoreferenzialità delle cosche come caratteristiche che garantiscono un ampio margine di manovra e di flessibilità.

Raimondo Catanzaro menziona il fatto che in siciliano cosca significa foglia di carciofo, mentre ‘cacocciula’ – che identifica in ambito mafioso il capomafia – rappresenta il carciofo nella sua interezza. Viene quindi corroborata, sulla base della simbologia e del lessico, una particolare lettura della struttura e dell’organizzazione delle cosche mafiose: se tra le cosche vi è una certa dispersione, all’interno di ciascuna di esse vige un regime di strettissima centralizzazione intorno al capomafia. Questi, quindi, viene ad assumere lo statuto di centro unico, totale ed esclusivo (vedi Catanzaro 1988, pp. 57-60; 1991). Emerge la dimensione della cosca come gruppo orientato all’acquisizione e alla riproduzione del potere sul territorio (power syndacate o broker) in assenza di un’organizzazione centralizzata tra le cosche che “dipende da quella stessa carenza di comunicazioni che fa sì che i mafiosi si possano collocare sulle giunture decisive nei rapporti tra società locale e società nazionale” (Catanzaro 1988, p. 59). Emancipandosi sia dalla prospettiva della mafia come comportamento diffuso e con solide basi culturali, sia da quella che enfatizza l’elemento organizzativo e l’esistenza di un’unica struttura di controllo, Catanzaro definisce “le ‘cosche mafiose’ [come, nda] gruppi di potere, e, più particolarmente, gruppi di potere politico. (…) esse fanno concorrenza allo stato, in quanto offrono un bene che lo stato non vuole, non può o non è in grado di offrire” (Catanzaro 1991 - trad. dal francese mia). Questo bene è la protezione che i mafiosi offrono, in cambio di denaro, ai privati perché possano portare avanti le attività economiche, e la fanno valere con l’uso della violenza. La protezione è elargita attraverso un’organizzazione sostanzialmente rigida, i cui confini di competenza sono stabiliti a monte. Nei traffici illegali, invece, come quello degli stupefacenti, delle armi e, oggi, dei rifiuti, regnerebbe tra le cosche “il principio della concorrenza (…). Solamente a causa della concorrenza gli interessi che derivano dalle attività economiche sono lungi dal coincidere con la lealtà che risulta dalla sovranità territoriale” (Catanzaro 1991 – trad. dal francese mia).

Le doti di efficacia, coesione e penetrazione sociale delle cosche sono evidenziate attraverso l’enfasi sulla loro intelaiatura familiare. Questa prospettiva, negando esplicitamente  il carattere formale delle formazioni mafiose di base, mette in evidenza come le strategie di produzione e riproduzione del potere mafioso vengano ad essere sussunte nell’ambito delle famiglie e dei gruppi amicali. Pino Arlacchi, in La mafia imprenditrice, definisce la cosca come “(…) un gruppo più o meno ampio di consanguinei, di amici e di parenti (…)” (Arlacchi 1983, p. 63) e quindi un fenomeno dove non esistono “né statuti, né riti di iniziazione, né tribunali” (Arlacchi 1983, p. 64). Riprendendo la tesi di Henner Hess, Crisantino e La Fiura, in La mafia come metodo e come sistema, mettono in evidenza come le cosche debbano essere considerate “gruppi familiari parentali autonomi, che agiscono in lotta fra loro o in temporanea cooperazione per il controllo di un determinato territorio. (…). La cosca non è una società segreta iniziatica ma ‘è piuttosto formata da un numero indeterminato di piccolissimi gruppi informali uniti dalla partecipazione della figura centrale ad ognuno di essi’” (Crisantino e La Fiura 1986, pp. 120-121; cfr. anche Hess 1973).

(3) La cosca può anche identificare i differenti cerchi concentrici dell’appartenenza mafiosa. Questa è la lettura proposta da alcuni resonconti istituzionali del Ministero dell’Interno (cfr. in particolare quello del 1993).

Secondo questa prospettiva il nucleo più intimo è costituito dagli affiliati in senso stretto, ossia da coloro che fanno parte formalmente della organizzazione mafiosa e che vi hanno fatto ingresso attraverso un battesimo.

Intorno al nucleo sta una zona intermedia costituita da persone che hanno contatti stabili con chi occupa la posizione più interna. Si tratta, generalmente, di politici, imprenditori, faccendieri, che, anche se non formalmente affiliati all’organizzazione, garantiscono alla mafia sistematiche possibilità di riciclaggio dei proventi derivanti dalle attività illecite, di infiltrazione nella economia legale e di condizionamento della vita politica. Tra questi hanno una funzione particolare i cosiddetti colletti bianchi (vedi). Appartengono sempre a questo cerchio esperti dei mercati illegali o nell’uso delle armi che, pur se non formalmente affiliati, svolgono una sistematica attività nella gestione criminale dei traffici illeciti.

Vi è, infine, una zona esterna di fiancheggiatori che hanno contatti saltuari, ma che garantiscono quegli appoggi, coperture e consenso sociale di cui la mafia ha vitale bisogno per la riproduzione del suo potere. Tra questi ultimi da un lato vi sono i notabili legati alla mafia, e che fissano una volta per tutte il legame tra le organizzazioni propriamente dette e il mondo della politica e degli affari; dall’altro persone comuni che forniscono alla mafia considerazione sociale, accondiscendenza, omertà e, quando serve, consenso elettorale. Questo uso del termine cosca permette di vedere la mafia come insieme articolato, complesso, ma profondamente unito e coeso, proprio come l’immagine del carciofo rammenta.

 

 

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