mercoledì 28 novembre 2012

Scandalo Asl Taranto indagato ginecologo per pedopornografia



di Linda Cappello
MARTINA FRANCA - Scandalo pedopornografia alla Asl di Taranto, dove un insospettabile ginecologo è accusato di aver scaricato da internet diverse centinaia di filmati a sfondo pedopornografico. Per questo, la magistratura è intervenuta sospendendo il ginecologo dal servizio. Nei giorni scorsi gli agenti della polizia postale hanno eseguito una misura interdittiva di sospensione dal posto di lavoro emessa dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lecce Alcide Maritati. Per due mesi, dunque, il ginecologo non potrà più L’ipotesi di reato che gli contesta il sostituto procuratore Stefania Mininni è di detenzione di materiale pedopornografico, aggravato dall’ingente quantitativo. Un’accusa gravissima, per la quale il codice penale prevede una pena detentiva fino a cinque anni. Al momento, però, le indagini sono ancora in corso, e le eventuali responsabilità del ginecologo dovranno ancora essere dimostrate.

L’inchiesta (condotta dalla Procura leccese competente in tutto il distretto di Corte d’Appello per i reati di pedopornografia) è partita in seguito ad una maxi-inchiesta su scala nazionale condotta dalla polizia postale di Pescara nel gennaio dello scorso anno. Nella rete di controlli da parte degli agenti capitò anche l’utenza telefonica dell’abitazione del professionista. A quel punto il suo nome venne iscritto nel registro degli indagati, e conseguentemente scattò la perquisizione. I poliziotti bussarono alla porta del medico, portando via tre personal computer, otto pen drive e 388 cd-rom.

Una volta finito all’attenzione del pm Mininni, tutto il metariale è stato poi affidato all’ingegnere informatico Luigina Quarta per l’esame del contenuto. Nella perizia si fa riferimento a diverse centinaia di video dal contenuto aberrante: bambini, anche di tenerissima età, ritratti in pratiche sessuali fra di loro o con adulti, ed altre immagini di pratiche estreme o feticiste. Filmati agghiaccianti, che sono stati trovati sui supporti esterni, e cioè dischi di memoria e cd tutti rigorosamente siglati e catalogati dall’indagato.

Ieri mattina il ginecologo si è presentato davanti al giudice Maritati per l’interrogatorio di garanzia, accompagnato dai suoi avvocati Elda Cartellino ed Andrea Starace: tutto è durato però appena qualche minuto, poichè il professionista ha scelto di avvalersi della facoltà di non rispondere.

Le indagini ora dovranno accertare se sia stato proprio il ginecologo a scaricare tutto quel materiale, oppure qualcun altro che aveva a disposizione i suoi computer.

L'omicidio di Pasquale Romano, fermato presunto killer

Assassini non attesero sms e sbagliarono
Il papà: «Sono belve, non li perdonerò»




NAPOLI - È stato fermato dai carabinieri uno dei presunti assassini di Pasquale Romano, il giovane operaio ucciso per errore, il 15 ottobre, in corso Marianella a Napoli. Si tratta di Giovanni Marino, rintracciato nel quartiere di San Giovanni a Teduccio. Le indagini sono state coordinate dai pm Sergio Amato ed Enrica Paracandolo.

Giovanni Marino sarebbe l'uomo che la sera del delitto guidava l'auto sulla quale si trovava il killer. In particolare, secondo quanto al momento accertato dai carabinieri, sarebbe stato proprio lui a indicare, erroneamente, in Pasquale Romano l'obiettivo dell'agguato, omicidio che rientra nella faida di Scampia.

I killer non aspettarono un sms e per questo uccisero la persona sbagliata, cioè Pasquale Romano. Una donna che era nel palazzo della fidanzata di Romano doveva avvertire i killer quando il loro obiettivo stava per uscire. Ma i malviventi non attesero l'sms e uccisero erroneamente Romano.

L'inchiesta della Dda sull'omicidio di Pasquale Romano ha avuto una svolta lo scorso venerdì notte, quando la donna che avrebbe dovuto inviare il messaggio ai killer sull'uscita dal palazzo del vero obiettivo, si è presentata al commissariato di polizia di Scampia manifestando la volontà di collaborare.

La donna era presente ad una cena alla quale partecipava il vero obiettivo dei killer, Domenico Gargiulo; cena che si stava svolgendo, la sera dell'agguato, nel palazzo in cui abita la fidanzata di Pasquale Romano: stabile davanti al quale l'operaio fu ucciso.

Ha riferito agli inquirenti che informò Giovanni Marino, oggi fermato, e il complice dell'arrivo di Gargiulo ma che si udirono gli spari prima che la cena terminasse e che lei avesse avuto il tempo di mandare il messaggio per avvertire che il vero obiettivo stava uscendo dal palazzo.

La donna che ha deciso di collaborare con la giustizia è la zia della fidanzata di Domenico Gargiulo, il vero obiettivo dei killer che nei giorni successivi all'omicidio di Pasquale Romano sfuggì a un altro agguato. Si è presentata in commissariato con i suoi due figli, che hanno avuto un ruolo nella pianificazione del delitto e che ora vivono con lei in una località protetta. Nella zona di Scampia la decisione della donna di collaborare si è diffusa rapidamente e Giovanni Marino e il suo complice si sono allontanati dalle loro abitazioni. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, i killer sono legati al gruppo degli scissionisti, cioè al cartello Abete - Abbinante - Notturno, mentre la vittima mancata è vicina al gruppo dei «girati»; lo scontro riguarda il controllo delle piazze di spaccio.

«Gli assassini di mio figlio sono belve che non perdonerò mai»: lo dice Giuseppe Romano, papà di Pasquale, il giovane ucciso per errore un agguato di camorra. «Ho sempre creduto e sempre crederò nella giustizia - dice - Non ci sono termini per definire quegli assassini. Anche chiamarli belve è troppo poco».

Banda di estorsori calabresi sgominata dalla Dda di Brescia

Avevano allestito un sistema per estorcere denaro agli imprenditori edili del bresciano e della Lombardia. Un gruppo di calabresi trasferiti al nord è stato così arrestato questa mattina dalla Dda di Brescia con l'accusa di estorsione aggravata in concorso e porto d'armi abusivo tutto aggravato dall'esecuzione con modalità mafiose

 
 

BRESCIA – Perpetravano estorsioni ai danni di imprenditori edili, ostentando in modo provocatorio atteggiamenti tipici della criminalità organizzata e delle organizzazioni 'ndranghetiste calabresi. La banda, composta da persone di origine calabrese, è stato sgominata all’alba di oggi dai carabinieri di Brescia con l’esecuzione in Lombardia di diverse ordinanze di custodia cautelare in carcere e perquisizioni domiciliari. I malviventi sono ritenuti responsabili, a vario titolo di porto abusivo di armi ed estorsione in concorso. Reati commessi con l’aggravante del metodo mafioso. Le attività investigative sono state coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Brescia. Il gruppo, riferiscono ancora i militari, stava poi progettando per le prossime settimane la realizzazione di un sequestro lampo di un professionista sempre a fini di carattere estorsivo.
Vittime dell’estorsione gli amministratori della ditta di Orzinuovi 'Orceana costruzioni', verso la quale i titolari dell’azienda cui avevano subappaltato dei lavori, la 'PFS' di Castelcovati, millantavano di avere un credito di un milione e mezzo di euro. Per riscuotere quanto sarebbe stato loro dovuto i titolari, due bresciani di 41 e 40 anni, si sono rivolti ad Antonio Annaccarato e a Francesco Gallo, originari di Reggio Calabria. I due hanno quindi contattato Giuseppe Romano e Antonio Seminara, 53 e 44 anni, 'professionisti dell’estorsione' per i militari bresciani, con significativi legami con la 'ndrangheta e già arrestati nell’ambito dell’operazione 'nduja condotta a Brescia nel 2001 contro la 'ndrina dei Bellocco. I mandanti della prima estorsione sono, poi, diventati loro stessi estorti, quando il gruppo di calabresi ha sostenuto di vantare un credito di 600 mila euro nei confronti della ditta 'PFS'. Così si è avviato un giro di minacce, intimidazioni e veri e propri espropri di merce a scapito delle due aziende. Oltre ai titolare della 'PFS' e ai quattro uomini calabresi, questa mattina i carabinieri di Brescia hanno arrestato anche altre quattro persone, tutte compartecipi dell’attività estorsiva. Gallo e Romano

Abbattuto immobile di mafia

Si tratta di un monolocale abusivo in via Caprera, assegnato al Comune nel 1999. Serviva come stalla e ricovero di veicoli
 
CATANIA. Un immobile confiscato alla mafia da ieri è soggetto a demolizione. L’operazione è stata avviata dal Comune, che in questo modo intende realizzare al suo posto posto una piazzetta. All'avvio dei lavori di demolizione della costruzione abusiva adibita a stalla e ricovero attrezzi, in via Caprera, nel cuore del rione San Cristoforo ha presenziato il sindaco. Il Comune aveva preso possesso dell’immobile nel 1999, a conclusione dell’iter di confisca del bene.

All’operazione ha preso parte il sindaco. «Quanto avviene oggi - ha detto Raffaele Stancanelli - ha una valenza non solo simbolica ma anche concreta perchè l'immobile è stato realizzato con una copertura in amianto con rischi per la salute dei cittadini. Un segnale di legalità forte e chiaro di tutte le istituzioni per lottare concretamente la mafia e le organizzazioni criminali. In sostituzione di questo rudere sorgerà un piccola piazzetta recuperando uno spazio per la pubblica fruizione in uno dei quartieri più disagiati della città. Proseguiamo in questa azione di legalità fatto di gesti e atti concreta e non di parole che ci sta vedendo recuperare alla legge situazioni che da tempo erano rimaste sospese».

I lavori di demolizione dei circa settanta metriquadrati dell'immobile, una volta di proprietà di esponenti mafiosi, vengono eseguiti da operai delle Manutenzione dell’amministrazione di Palazzo degli Elefanti e da una ditta specializzata. Costeranno al Comune circa quindicimila euro.

Durante la mattinata si sono recati sul posto anche il procuratore capo della Repubblica Giovanni Salvi e il procuratore aggiunto Giuseppe Toscano.

I lavori di demolizione, affidati ad operai della Manutenzione comunale e ad una ditta specializzata si protrarranno per tre giorni.Al suo posto l’amministrazione comunale ha programmato la realizzazione di una piazza. Costo 15 mila euroI lavori di sbancamento, a cura della Manutenzione

Rostagno, salta l'udienza Il boss Virga è in ospedale

Il ricovero, per «un accertamento non urgente e differibile» è avvenuto in «assoluto disprezzo delle indicazioni della Corte, che aveva chiesto di tenere conto delle udienze già fissate», ha detto il presidente Angelo Pellino
 
TRAPANI. Il boss Vincenzo Virga è in ospedale ma non rinuncia a presenziare al dibattimento: è saltata così stamani l'udienza in Corte di assise a Trapani del processo per l'omicidio di Mauro Rostagno, il giornalista e sociologo assassinato il 26 settembre 1988.

Il ricovero, per «un accertamento non urgente e differibile» è avvenuto in «assoluto disprezzo delle indicazioni della Corte, che aveva chiesto di tenere conto delle udienze già fissate», ha detto il presidente Angelo Pellino. Il presidente «stigmatizza» il comportamento dell'imputato, che, per la seconda volta, ha causato lo slittamento dell'udienza, ed a nome di tutta la Corte, ha annunciato che chiederà «chiarimenti alla casa circondariale di Parma». Oggi le parti avrebbero dovuto avanzare le richieste di integrazione probatoria. Con Virga è imputato Vito Mazzara, che è presente in aula.

Assalti ai tir, polizia sgomina banda a Palermo

Operazione della polizia stradale nei confronti di 7 persone ritenute organiche a un gruppo specializzato nelle rapine ad autotrasportatori. Undici le persone denunciate per ricettazione e favoreggiamento
 
PALERMO. E' in corso dall'alba una operazione condotta dalla polizia stradale di Palermo che sta eseguendo un'ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 7 persone ritenute organiche a una banda dedita alle rapine ad autotrasportatori. I provvedimenti restrittivi sono stati disposti dal Gip di Palermo Angela Gerardi e sono frutto di una indagine coordinata dal procuratore aggiunto Maurizio Scalia e diretta dal pm Maurizio Bonaccorso.
Undici le persone denunciate per ricettazione e favoreggiamento.
Già nel marzo 2009, durante l'indagine "38/mo parallelo", erano stati arrestati in flagranza quattro componenti della banda e liberati due autisti presi in ostaggio.
Le indagini hanno ricostruito un numero impressionante di assalti, una trentina, portati a termine nei confronti di autotrasportatori in 6 mesi. I reati contestati sono quelli di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di rapine a mano armata, detenzione e porto abusivo di arma da fuoco e ricettazione.
L'attività di polizia ha consentito di recuperare refurtiva per un valore di centinaia di migliaia di euro e di restituirla ai legittimi proprietari.

Seguivano i tir dalla provincia di Ragusa e Catania fino a Palermo. Qui entravano in azione, sorprendendo l'autista nei pressi degli svincoli autostradali. Pistola in pugno, bloccavano il mezzo e poi si dirigevano verso il deposito di Carini nella zona industriale dove uno della banda, LUDOVICO BLANDINO, di 48 anni, faceva il custode.
L'organizzazione composta da sette rapinatori palermitani è stata scoperta dalla polizia stradale. In carcere è finito questa notte proprio Blandino, altri tre erano già in cella perché sorpresi in flagranza durante una rapina nel 2009.
Altri tre sono finiti ai domiciliari. All'Ucciardone erano già detenuti ANTONIO LO COCO di 46 anni, ANTONINO CARRA di 53 anni, l'autista della banda soprannominato Asso e FABIO PRESTIGIOVANNI di 38 anni. Agli arresti domiciliari ANTONINO D'ALESSANDRO di 51 anni, ALESSANDRO NOTO di 30 anni, anche lui autista, e FILIPPO ABBATE, di 32 anni, che aveva un deposito alla Zisa.
La banda, secondo la Polstrada avrebbe messo a segno in sei mesi 22 assalti ai Tir. I sette dovranno rispondere di associazione per delinquere, ricettazione, favoreggiamento e porto d'arma abusivo. Tutte le rapine sono state compiute a mano armata. I sette per evitare di essere individuati noleggiavano le auto, sempre diverse, e intimavano ai camionisti di dire alla polizia che i rapinatori erano arrivati a bordo di un Suv Nero.
Sono al vaglio degli inquirenti altri colpi commessi nella zona di Termini Imerese e Trapani. Tutte con le stesse modalità. Nel corso dell'operazione ci sono anche 11 denunciati. Sono i commercianti di via Aloi, via Agnetti e alla Zisa dove gli agenti della stradale hanno trovato parte della merce rubata.

Omicidio a Favara: ucciso un gestore di sale giochi

Calogero Palumbo Piccionello, di 66 anni, è stato assassinato con numerosi colpi di pistola. L'agguato è avvenuto nel centro del paese, all'angolo tra le vie Napoli e 4 Novembre
 
 
FAVARA. Il gestore di numerose sale giochi nell'agrigentino, Calogero Palumbo Piccionello, di 66 anni, è stato assassinato ieri sera con numerosi colpi di pistola a Favara, un comune a dieci chilometri dal capoluogo. L'agguato è avvenuto nel centro del paese, all'angolo tra le vie Napoli e 4 Novembre.
Un uomo si è poi presentato nella caserma dei carabinieri di Favara sostenendo di essere l'assassino. "Sono stato io ad ammazzarlo", ha detto ai militari. Non è ancora chiaro il movente dell'omicidio. Il presunto assassino si chiama Antonio Baio, di 72 anni. Secondo quanto ha raccontato ai carabinieri l'omicidio sarebbe stato originato da contrasti di natura economica con la vittima. La sua posizione è ancora la vaglio degli inquirenti.

L'ASSASSINO CONSEGNA L'ARMA.
Antonio Baio è stato trasferito all'alba - in stato di fermo - al carcere Petrusa di Agrigento. L'anziano, nel momento in cui s'é presentato alla tenenza dell'Arma ha consegnato una busta contenente l'arma del delitto - un revolver calibro 38 - e diverse cartucce dello stesso calibro. Cinque i colpi che ha esploso - tre dei quali in volto - contro il 67enne titolare di una società di scommesse.

I Carabinieri, al momento, stanno sentendo i familiari della vittima per cercare di capire il perché dell'omicidio. Baio non avrebbe, infatti, dato alcuna spiegazione sulle ragioni del gesto.

La salma di Palumbo Piccionello è stata trasportata nella camera mortuaria dell'ospedale di Agrigento. Il sostituto procuratore di turno Salvatore Vella ha già disposto l'autopsia che sarà dai medici legali del policlinico di Palermo.

Mafia, confisca di beni da 1,2 milioni di euro a imprenditore

Appartenente alla famiglia mafiosa di Ribera, Giuseppe Capizzi, 46 anni, è attualmente in carcere e condannato per mafia con sentenza definitiva. Tra i beni sequestrati: un'impresa agricola, vigneti, agrumeti, un fabbricato e una boutique

PALERMO. Beni per un valore di 1,2 milioni di euro sono stati confiscati dalla Direzione investigativa antimafia di Agrigento all'imprenditore Giuseppe Capizzi, 46 anni, di Ribera, attualmente in carcere e condannato per mafia con sentenza definitiva.
Appartenente alla famiglia mafiosa di Ribera, Giuseppe Capizzi è figlio di Simone, finito all'ergastolo per l'omicidio del maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli, ucciso ad
Agrigento nel '92. I beni confiscati, tutti ubicati a Ribera, sono un'impresa agricola, vigneti, agrumeti, un fabbricato e una boutique di abiti da cerimonia.
Giuseppe Capizzi è stato arrestato nel 2006, nell'ambito dell'operazione antimafia "Welcome back". Capizzi avrebbe avuto stretti rapporti con l'ex rappresentante provinciale di Cosa nostra Agrigentina, Giuseppe Falzone. Il suo inserimento sarebbe comprovato dal ritrovamento di pizzini sequestrati a Bernardo Provenzano e al boss, oggi collaboratore di giustizia, Antonino Giuffré, su un presunto conflitto fra Capizzi e Giuseppe Grigoli, concessionario quest'ultimo dei supermercati Despar della Sicilia occidentale e considerato il referente economico del latitante Matteo Messina Denaro.

sabato 24 novembre 2012

Parete mobile proteggeva la latitanza del giovane boss


NAPOLI - I carabinieri hanno catturato Mariano Abete, 21enne, residente in via Ghisleri, a Napoli, reggente dell'omonimo gruppo camorristico. Il latitante è stato catturato dal nucleo operativo Stella e dalla stazione quartiere 167. Abete era uno dei ricercati per la nuova faida di Scampia.

Il giovane boss è stato scovato in un nascondiglio - ricavato tra due pareti alle quali si accedeva tramite una parete mobile con apertura azionata a telecomando - nella casa della madre.

Proprio mentre i carabinieri si accingevano a sfondare quella parete dietro la quale avevano sentito che c'era del vuoto, è intervenuta la mamma del 21enne con un telecomando fra le mani. Pigiando un tasto ha fatto scattare il meccanismo che apriva la porta ed ha fatto uscire il figlio.

Abete era ricercato per una ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip di Napoli per associazione mafiosa e associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di stupefacenti.

L'identikit di Abete era stato diffuso lo scorso 20 ottobre da carabinieri e polizia insieme con gli altri quattro latitanti che secondo gli investigatori hanno un ruolo di primo piano nella riesplosione della faida di camorra a Scampia.

Lo scorso 15 novembre era stato arrestato dalla polizia Rosario Guarino, di 29 anni. Restano ancora liberi Marco Di Lauro, 32 anni, Mario Riccio, di 21 anni, Antonio Mennetta, di 27 anni.


Nuovo nome nella lista delle primule rosse: Antonio Leonardi


di Giuseppe Crimaldi
NAPOLI - Nel giorno in cui uno è stato preso. Mariano Abete, e il suo profilo cancellato, ecco che è stato inserito un altro nome nella lista dei latitanti più pericolosi della faida di Scampia, si tratta di Antonio Leonardi, classe 1960. Da stamattina anche il suo nome e la sua foto entrano nel gruppo degli uomini da catturare ad ogni costo.

Amico da sempre di Paolo Di Lauro, Leonardi è oggetto di ordinanza di custodia cautelare fin dalla scorsa estate con l'accusa di associazione a delinquere di stampo camorristico finalizzata al traffico di stupefacenti.

Secondo gli inquirenti della direzione distrettuale antimafia, Leonardi sarebbe "una delle menti e degli artefici della svolta impressa dal clan Vannella Grassi", i cosiddetti "girati".

Strage a Rossano, treno travolge un furgone


Bilancio drammatico di sei morti

 
Soccorritori all'opera per verificare la situazione

ROSSANO (Cosenza) - Un furgone è stato travolto stasera da un treno nella zona di Rossano. Secondo le prima notizie, ci sono sei morti. Secondo i primi riscontri il treno percorreva la linea ferroviaria ionica in località Roganelli, al confine tra i territori comunali di Rossano e Crosia, nel Cosentino. In base a quanto appurato, a bordo del furgone c'erano cinque lavoratori stranieri che tornavano da una giornata di lavoro nei campi della Sibaritide, nel territorio del comune di Cassano Ionio. Sono morti tutti sul colpo, così come il macchinista del treno. L’urto ha sbalzato il furgone una ventina di metri lontano dal luogo dell’impatto. Secondo quanto si apprende da fonti delle Fs, all’altezza del chilometro 155+400 il treno regionale 3753 partito da Sibari e diretto a Reggio Calabria ha travolto ad un passaggio a livello affidato e gestito da privati una Fiat Multipla sulla quale vi erano più persone. Due lavoratori di nazionalità romena si sono salvati dallo scontro tra un treno ed il furgone sul quale viaggiavano perché sono scesi dal mezzo per aprire il cancello del terreno che dà l’accesso al passaggio sui binari. Secondo una prima ricostruzione di carabinieri e polizia, a bordo del mezzo c'erano altri sei lavoratori romeni che sono rimasti uccisi. I corpi sono incastrati in un groviglio di lamiere e per estrarli occorreranno ore.

Omicidio di Gioiosa Jonica, si è costituito l'assassino

Un morto e un ferito nell'agguato avvenuto in un'autofficina

 Si tratta di Domenico Totino, 27 anni, accusato di avere esploso i colpi di arma da fuoco che hanno ucciso Giuseppe Parrelli, di 50 anni, e ferito Giovanni Schirripa, di 26. Il reale bersaglio sarebbe stato, invece, un congiunto del meccanico. La Procura aveva emesso un provvedimento di fermo nei confronti del giovane
 
PASQUALE VIOLI

REGGIO CALABRIA - Si è consegnato ai carabinieri di Gioiosa Jonica l'uomo accusato dell'omicidio di Giuseppe Parrelli, di 50 anni, e del ferimento di Giovanni Schirripa, di 26, avvenuti a Gioiosa Jonica. Domenico Totino, 27 anni, si è presentato poco fa ai carabinieri della Compagnia di Roccella Jonica.
La Procura della Repubblica di Locri aveva emesso, nei suoi confronti, un provvedimento di fermo. I carabinieri della Compagnia di Roccella Jonica hanno ricostruito l’omicidio e dalle indagini è emerso che Parrelli e Schirripa sono stati raggiunti per errore dai colpi pistola, mentre il reale obiettivo dell’agguato erano i familiari del proprietario dell’officina dove è avvenuto il delitto. L’agguato è avvenuto in un’officina meccanica dove Parrelli si trovava per fare riparare la sua automobile. I colpi di pistola furono sparati da una persona che era a bordo di un’automobile in transito davanti l’officina. All’origine dell’agguato ci sarebbe stata una vendetta del fermato nei confronti del proprietario dell’officina.

Ammazza a fucilate il rivale in mezzo alla gente


Un filmato mostra tutto, ma nessuno ha visto

 
 Gli inquietanti retroscena dell'assassinio del dipendente comunale colpito ieri nel catanzarese, davanti la chiesa madre. Le riprese delle telecamere mostrano le fasi dell'agguato: auto bloccate e passanti attoniti, ma nessuno parla. Il procuratore Mazzotta: «Così è troppo comodo». Testimoni rischiano l'accusa di favoreggiamento in omicidio

SAVERIO PUCCIO

CATANZARO - Un uomo corre per strada imbracciando un fucile, bloccando le auto in transito, in mezzo ai pedoni attoniti. Esplode due colpi e ammazza il suo rivale. Eppure, interrogati, nessuno ha visto niente. Una situazione incredibile, evidenziata oggi dal procuratore di Crotone, Raffaele Mazzotta, nel corso della conferenza stampa che si è svolta a Catanzaro per l’arresto dell’uomo che ha ucciso ieri il dipendente comunale di Petronà (Catanzaro). «I cittadini hanno dimostrato una insensibilità collaborativa – ha detto Mazzotta – perché assistere dalla finestra alla lotta tra Stato e anti Stato è troppo comodo». Un’accusa molto forte, perché il filmato acquisito dai carabinieri della Compagnia di Sellia Marina ha dell’incredibile. Nelle immagini delle telecamere di uno studio commerciale si vede la vittima, Claudio Rizzuti, 57 anni, camminare sulla strada principale del paese, preceduto da un altro passante. Quindi, alcune auto in transito e altre persone che incrociano e salutano l’uomo. Improvvisamente, tra le auto e i pedoni, compare l’assassino, Francesco Rocca, 37 anni. Imbraccia un fucile. Dribbla auto e passanti e fa fuoco. Qualcuno allarga le braccia sconsolato per l’efferatezza e la spavalderia dell’omicidio, compiuto alle 17 davanti la chiesa madre del paese.
All’arrivo dei carabinieri, grazie alle indagini, tutti vengono sentiti. Nessuno, però, dice di avere visto quell’uomo con il fucile. Qualcuno fa solo riferimento a due colpi sentiti in lontananza. «Non è possibile che in pieno giorno, con esercizi commerciali aperti e gente per strada, nessuno abbia visto nulla – evidenzia il comandante provinciale dei carabinieri, il colonnello Salvatore Sgroi – questo non è senso civico. Qualche colpo poteva andare a vuoto e colpire qualcuno. Denunciare cose simili non vuol dire essere spioni». Fondamentali i riscontri investigativi dei carabinieri della Compagnia di Sellia Marina, guidati dal capitano Giovanni De Nuzzo, i quali hanno prima stretto il cerchio intorno all’assassino, ponendolo nella notte in stato di fermo, grazie ad una serie di elementi, quindi hanno acquisito le immagini delle telecamere che, da sole, non sarebbero bastate perché poco chiare. Per il capitano De Nuzzo, «durante le operazioni di rilievo, da una parte si notavano gli inquirenti, impegnati a lavoro, dall’altra la gente, ma nessuno si è avvicinato per dire quello che aveva visto». I militari dell’Arma hanno, comunque, avviato indagini che potrebbero portare i presenti ad essere denunciati per favoreggiamento in omicidio. Secondo i riscontri investigativi, tra Rizzuti e Rocca ci sarebbero stati vecchi risentimenti, compreso una ipotesi passionale che vorrebbe il primo amante della moglie dell’omicida. In passato, inoltre Rocca era finito a processo con l’accusa di avere dato fuoco ad un’abitazione estiva di Rizzuti, proprio per vendicare uno sgarro. Ieri l’epilogo e l’omicidio plateale nella piazza del paese.

Frode fiscale messa in piedi grazie a false fatture

Gdf sequestra beni per 3 milioni a società reggina

 
Le Fiamme gialle hanno accertato maggiorazioni nei crediti Iva da parte di una azienda che si occupa di costruzioni di strade, autostrade e piste aeroportuali. Sono stati posti sotto sequestro 11 automezzi, tutti intestati ad una società della Locride e quote sociali appartenenti al rappresentante legale della società, P.C.

REGGIO CALABRIA - Beni e quote societarie per circa 3 milioni di euro sono state sequestrate dalla Guardia di Finanza di Reggio Calabria. In particolare, sono stati posti sotto sequestro 11 automezzi, tutti intestati ad una società della Locride e quote sociali appartenenti al rappresentante legale della società, P.C., del valore nominale di 850.000 mila euro. Le indagini, coordinate dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Locri, sono partite dopo l'esame dei crediti ai fini IVA esposti in dichiarazione dalla società per 5 milioni e 200 mila euro. Buona parte dei crediti, sarebbero stati ottenuti attraverso l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti emesse da altre imprese operanti nel settore dell’edilizia con sede nella Locride.
La società destinataria del provvedimento, operante nel settore delle costruzioni di strade, autostrade e piste aeroportuali,si è resa protagonista di una frode fiscale, attraverso l’annotazione nella contabilità degli anni 2007 e 2008 di elementi passivi fittizi riconducibili a fatture per operazioni inesistenti per un ammontare pari a circa 10 milioni di euro (aventi come oggetto «studi di fattibilità»), e contabilizzazioni di fatture per l’importo di circa 7 milioni di euro Le fatture sono state emesse dai fornitori per importi dell’ordine di migliaia di euro, ma successivamente sono state annotate dalla società in questione tra gli acquisti (con IVA a credito), per valori dell’ordine di milioni di Euro; in tal modo, la società si è procurata fraudolentemente un credito IVA per oltre 5 milioni e 200 mila euro.

Angela Napoli abbandona Futuro e libertà

«Esponenti partito stringono la mano a mafiosi»

 
La parlamentare calabrese ha lanciato pesanti accuse nei confronti di alcuni rappresentanti del partito che avrebbero «rapporti di collusione» con esponenti della 'ndrangheta

REGGIO CALABRIA - Angela Napoli si è dimessa da Futuro e libertà. La parlamentare ha dichiarato che la sua scelta è legata ad alcune collusioni che esponenti del partito manterrebbero con esponenti della 'ndrangheta. «Non posso accettare - ha detto la Napoli - che esponenti del mio partito stringano la mano a gente collusa con la 'ndrangheta, per questo mi sono dimessa». Napoli, nota per le sue battaglie antimafia, ha reciso il legame con il partito di appartenenza proprio per una questione in palese conflitto con la principale attività della sua azione politica.

Professoressa di religione intasca lo stipendio da 7 anni senza lavorare: indagata

Solo alla vigilia dell'assunzione a tempo indeterminato a Grosseto, ha ritenuto opportuno comunicare «il disguido» che intanto le ha fruttato 143mila euro. Ora la professoressa Francesca Calandra, originaria di Partinico (Palermo) è indagata per truffa aggravata dalla procura
 
PALERMO. Per sette anni, per una serie di errori amministrativi, ha continuato a intascare lo stipendio nonostante il suo incarico provvisorio da insegnante di religione fosse scaduto. Solo alla vigilia dell'assunzione a tempo indeterminato a Grosseto, ha ritenuto opportuno comunicare «il disguido» che intanto le ha fruttato 143mila euro. Ora la professoressa Francesca Calandra, originaria di Partinico (Palermo) è indagata per truffa aggravata dalla procura che, non trovando più il denaro illecitamente percepito sui conti della donna, le ha sequestrato quote di case di sua proprietà. Si tratta del cosiddetto sequestro per equivalente che garantisce, poi, allo Stato, in caso di sentenza di condanna, la riscossione delle somme avute indebitamente.

Canicattì, tre milioni di euro mai dichiarati: beni sequestrati

L'operazione ha riguardato una ditta individuale di Canicattì che si occupa della vendita al dettaglio ambulante di alimenti e bevande. Nel mirino della finanza beni mobili, 15 immobili, quote societarie e conti correnti
 
CANICATTI'. La guardia di finanza di Agrigento, coordinata dalla Procura, ha sequestrato
beni mobili, quote societarie e conti correnti e 15 immobili fra Canicattì, Naro (Ag) e Venezia, per circa 320 mila euro. Il sequestro, richiesto dal Pm Silvia Baldi e firmato dal gip Ottavio Mosti, rientra nelle misure di tutela per aggredire i beni degli evasori fiscali.

In questo caso l'operazione ha riguardato una ditta individuale di Canicattì che si occupa della vendita al dettaglio ambulante di alimenti e bevande, alla quale i finanzieri sono arrivati visto l'elevato numero di verbali per la mancata emissione dello scontrino fiscale. La verifica ha
portato a scoprire ricavi non dichiarati per circa 3 milioni di euro, Iva evasa per 200 mila euro e tre lavoratori irregolari.

Sportello anti-violenza, "boom" di denunce da donne e figli maltrattati

Aurora Ranno ha presentato presso il tribunale la neo-associazione «Co.tu.le.vi.», contro tutte le violenze

di ANTONIO TRAMA
TRAPANI. Una denuncia a settimana. Lo sportello anti-violenza, nel corso degli ultimi due mesi, è sempre più un punto un’ancora di salvezza per le donne ed i figli maltrattati. Si tratta di numeri che evidenziano non tanto l’incremento della violenza di genere, bensì della presa di coscienza delle vittime le quali, adesso, ritengono che sia arrivato il momento di dire basta. E nell’ottica della giornata internazionale sulla violenza di genere, lo sportello anti-violenza ha costituito l’associazione «Co.Tu.Le.Vi.» (contro tutte le violenze), presieduta da Aurora Ranno la quale ieri ha aperto l’appuntamento nell’aula bunker del Tribunale, grazie alla collaborazione del presidente Roberto De Simone.

«Il termine violenza contrasta con la società civile — ha spiegato — ed i quotidiani riportano spesso casi di violenza contro le donne. Per questo ho voluto che nell’ambito del Tribunale vi fosse uno sportello anti-violenza. Dopodiché la nascita dell’associazione rappresenta un passo avanti che ci permetterà di dire ai giovani, la generazione di domani, non più violenza».

All’incontro ha partecipato anche il Prefetto Marilisa Magno per la quale «il fenomeno della violenza di genere è difficile da debellare, in quanto spesso non viene alla luce. Dall’inizio dell’anno sono circa 100 i casi verificatisi e quasi sempre all’interno della cerchia familiare. Ritengo, però, che manifestazioni di questo tipo possano contribuire al cambiamento».

«La violenza privata prima era opacizzata — sottolinea Aurora Ranno —, messa quasi in conto nel matrimonio. Oggi, fortunatamente, le cose stanno cambiando come si evince dai numeri. Abbiamo voluto costituire l’associazione Cotulevi (cui sono iscritti come soci onorari anche il presidente del Tribunale De Simone, i sindaci dei due Comuni del territorio, l’arcivescovo Plotti e l’onorevole Fazio) anche per coprire un vuoto relativo alla nascita dello sportello anti-violenza, nel 2009. Non eravamo in possesso del codice fiscale e non potevamo ricevere i contributi di coloro che vogliono affrontare questo problema insieme a noi».

«La violenza nasce laddove c'è qualcuno che si sente più forte nei confronti dei più deboli — ha sottolineato l’arcivescovo Plotti —. Per la violenza sulle donne, inoltre, c'è anche una mentalità maschilista imperante. In ogni caso è un fatto culturale e per sconfiggerla bisogna cominciare dalle scuole, dagli ambienti educativi e spingere le nuove generazioni al rispetto, al dialogo ed alla tolleranza. Sono questi gli antidoti per combattere la violenza che non si combatte, invece, con altra violenza o facendo pene sempre più dure». Ed il tema della cultura come strumento per combattere la violenza, infine, è stato anche trattato dai sindaci Vito Damiano e Giacomo Tranchida.

mercoledì 21 novembre 2012

Ancora un sequestro di mafia: coinvolti due imprenditori


Nel mirino della Dia di Messina beni per un valore di 600mila euro di Antonino e Tindaro Lamonica di Caronia, ritenuti vicini ai boss della fascia tirrenica

 

MESSINA. La Dia di Messina ha sequestrato beni per un valore di 600 mila euro agli imprenditori Antonino e Tindaro Lamonica di Caronia (Me), sospettati di essere vicini ad esponenti di spicco di gruppi mafiosi operanti nella fascia tirrenica della provincia di Messina. Nel marzo scorso agli stessi imprenditori la Dia aveva sequestrato beni per un valore di 30 milioni di euro. Il provvedimento è stato emesso dalla sezione misure di prevenzione del Tribunale su richiesta della Dda di Messina.
Le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia e gli accertamenti finanziari, avevano consentito di mettere in luce l'anomala ascesa imprenditoriale dei Lamonica, da tempo a capo di un consolidato gruppo con interessi anche extra-regionali. Il nuovo provvedimento di sequestro scaturisce dalla scoperta dell'esistenza di ulteriori beni immobili intestati alla madre dei due, ma nella loro disponibilità, in particolare due ville di pregio a Caronia (Me), utilizzate dai rispettivi nuclei familiari. La Dia di Messina ha inoltre rilevato l'esistenza di altri fabbricati nella disponibilità dei fratelli Lamonica costruiti abusivamente. Questi immobili saranno oggetto di separati provvedimenti delle forze di polizia in materia di illeciti ambientali.
 
 
 
“Immobili usati per riunioni di mafia e nascondigli”: sequestro per due imprenditori

Nel mirino della direzione investigativa antimafia un patrimonio di oltre 45 milioni Giuseppe Pisciotto e Mariano Saracino, di Castellammare del Golfo. Il secondo avrebbe messo le sue proprietà a disposizione dei boss, anche nel Palermitano

PALERMO. La Direzione investigativa Antimafia di Trapani ha confiscato beni per oltre 45 milioni di euro riconducibili a due imprenditori di Castellammare del Golfo (Tp), Mariano Saracino, 65 anni, e Giuseppe Pisciotta, 69 anni, soci nella gestione di imprese per costruzioni edili e produzione e commercio di conglomerati cementizi.
Saracino è indiziato mafioso e ritenuto a disposizione della “famiglia” di Castellammare del Golfo ma anche dell'area palermitana, poiché avrebbe messo a disposizione propri immobili per nascondigli di latitanti e per riunioni di mafia. L'imprenditore è stato più volte condannato, con sentenze passate in giudicato, per associazione per delinquere di tipo mafioso, estorsione e altro. Ha svolto la sua attività imprenditoriale sfruttando il cosiddetto "metodo mafioso", attraverso l'illecita ingerenza nel settore degli appalti pubblici. Confiscati imprese, immobili, terreni, veicoli e altri beni.

Sequestrate tre tonnellate di marijuana

Sedici in manette tra Napoli e Salerno


NAPOLI - I carabinieri di Castellammare di Stabia hanno scoperto una piantagione di cannabis in provincia di Salerno e, in un' operazione scattata nella notte, hanno sequestrato circa tre tonnellate di piante e arrestato 16 persone nelle province di Napoli e Salerno. I militari hanno eseguito ordinanze di custodia cautelare emesse dal gip di Torre Annunziata (Napoli) su richiesta della Procura per i reati di coltivazione, detenzione e spaccio di marijuana.

Le persone arrestate la scorsa notte sono ritenute responsabili di un'organizzazione che si occupava della coltivazione e dello spaccio al minuto di una grande quantità di marijuana nell'hinterland napoletano e nell'area di Castellammare di Stabia.

L'indagine che ha portato al blitz della scorsa notte è cominciata nel settembre del 2010 e ha portato nel corso dei mesi alla scoperta e al sequestro delle tre tonnellate di marijuana. Il sequestro maggiore è stato fatto a Eboli (Salerno) il 10 settembre 2010 quando i carabinieri hanno trovato in una zona di montagna una piantagione con circa tre tonnellate di piante.

Oltre alle 16 ordinanze di custodia cautelare in carcere, i carabinieri hanno notificato tre provvedimenti di obbligo di firma a persone ritenute vicine all'organizzazione. Sono stati inoltre monitorate alcune centinaia di episodi di spaccio e segnalati numerosissimi consumatori abituali di stupefacenti.

Blitz contro i casalesi


Blitz contro i casalesi, nove arresti
anche Antonio Zagaria fratello del boss
«Era pronto a nascondersi in un bunker»



CASERTA - La Squadra Mobile della Questura di Caserta, nell'ambito dell'operazione «Thunderball 2», ha arrestato Antonio Zagaria, fratello del boss Michele , ritenuto il reggente del clan dei Casalesi. In manette anche il nipote di Zagaria, Filippo Capaldo, e notificate in carcere provvedimenti ad altri due fratelli: Carmine e Pasquale. Il nipote dei Zagaria era stato scarcerato da circa un mese.

Complessivamente sono nove, e riguardano elementi ritenuti di vertice del clan dei Casalesi, le ordinanze di custodia cautelare emesse dal gip del Tribunale di Napoli su richiesta della Dda partenopea, nell'ambito dell'operazione "Thunderball 2". Le accuse sono di estorsione aggravata dal metodo mafioso. Le indagini hanno consentito di fare luce, in particolare, su due diverse vicende estorsive subite da un imprenditore che, oberato da debiti usurari, è stato costretto dalle minacce dei membri del clan camorrista a vendere attrezzature e beni strumentali della propria azienda agricola per restituire il denaro.

I provvedimenti sono stati eseguiti dalla Squadra Mobile della Questura di Caserta, diretta dal vicequestore aggiunto Angelo Morabito, che contribuirono alla cattura del superlatitante Michele Zagaria, avvenuto il 7 dicembre 2011, dopo una latitanza di oltre 16 anni.

L'arresto di Antonio Zagaria è avvenuto ieri sera, lungo corso Europa, a Casapesenna. La polizia è entrata in azione quando il fratello dell'ex primula rossa del clan dei Casalesi era in strada; questo per evitare che potesse fuggire utilizzando uno dei tanti bunker fatti realizzare dal fratello per garantirsi la latitanza. Al blitz hanno partecipato i vicequestori della Squadra Mobile della Questura di Caserta e Casal di Principe, Antonio Sepe e Alessandro Tocco. Agli agenti che gli hanno notificato l'ordinanza Antonio Zagaria ha detto di essere innocente e che le dichiarazioni sul suo conto rese dal collaboratore di giustizia Vincenzo Battaglia sono mendaci.

L'ordinanza di custodia cautelare per l'arresto dei nove componenti l'ala Zagaria del clan dei Casalesi è stata emessa dal gip di Napoli su richiesta dei pm Giovanni Conzo e Catello Maresca, e del coordinatore del pool antimafia, il procuratore aggiunto Federico Cafiero de Raho.

Attentati a negozi 5 arresti a Foggia


FOGGIA - Un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, emessa dal gip del Tribunale di Foggia, è stata eseguita da agenti della squadra mobile della questura di Foggia nei confronti di cinque persone, quattro delle quali accusate di aver compiuto attentati dinamitardi ai danni di esercizi commerciali di Foggia. Gli indagati sarebbero responsabili anche di attentati intimidatori nei confronti di poliziotti e di loro parenti.

Uno degli arrestati aveva una bancarella della frutta nei pressi del luogo dove nelle scorse settimane fu messa una bomba il giorno dell’arrivo a Foggia del ministro degli Interni, Cancellieri.

Particolari sull'operazione saranno resi noti nel corso di una conferenza stampa che si terrà alle 10,30 presso la questura di Foggia.

martedì 20 novembre 2012

Finisce la fuga di “Lady Cocaina”



Presa la regina dei narcos: dopo sette anni il blitz della Gfd di Verona e dell’Interpol all’aeroporto di Ottawa. Era il «trait d’union»tra il Sud America e l’Europa



anna martellato
verona
Il nomignolo era più che azzeccato: “Lady Cocaina”, alias Yocelin Yeli Castellano Rubio, 35enne di origini venezuelana, è stata per anni il trait d’union tra i narcotrafficanti domenicani e i cartelli della droga colombiani, un personaggio chiave del narcotraffico in Nordeuropa e in Italia, oltre che in Canada. Oggi, grazie ad una lunga operazione dell’Interpol e della Guardia di Finanza di Verona, da questa mattina all’alba la donna ha finito la sua latitanza durata ben 7 anni. Riconosciuta dalla Polizia Canadese grazie alle fotografie scattate anni fa dalla Guardia di Finanza di Verona è stata arrestata a Ottawa ed estradata immediatamente in Italia. Scortata dall’Interpol, è arrivata all’aeroporto di Fiumicino per la sua ultima residenza, dove difficilmente riuscirà a far perdere le tracce: il carcere romano di Rebibbia.

In questi anni nessuno è mai riuscito a scovare Lady Cocaina, dando delle belle gatte da pelare a Interpol e Guardia di Finanza di diversi Paesi, tra Nordeuropa, Sudamerica e Canada. L’indagine è iniziata nel 2004. La Sezione Mobile del Nucleo di Polizia Tributaria di Verona era riuscita a disarticolare un sodalizio criminale composto prevalentemente da cittadini dominicani e colombiani: con la complicità di alcuni soggetti italiani con interessi nel veronese il sodalizio era sistematicamente organizzato per l’importazione di cocaina dal Sudamerica in Italia, Belgio e Germania. Lo stupefacente arrivava in Europa occultato nelle più ingegnose maniere: all’interno di forme di formaggio, di bottiglie di rhum, in confezioni di shampoo e balsamo per capelli o in valige con doppifondi impercettibili costruiti ad arte in vetroresina.

La 35enne era stata immediatamente individuata come una figura chiave nella vasta operazione di narcotraffico che ha portato al sequestro di ben 60 chilogrammi di cocaina, oltre a 22 arresti in flagranza effettuati dalla Guardia di Finanza di Verona anche con la collaborazione del Gruppo della Guardia di Finanza di Malpensa e delle polizie olandese e tedesca.

Faide nel Vibonese, una ragazza: “Il sangue deve scorrere sulla porta”


Venti fermi della Procura antimafia di Catanzaro a Sant’Onofrio e Stefanaconi. Storie di vendette: un tuffo nel passato, nel Medioevo che ancora resiste nel terzo millennio


guido ruotolo
catanzaro
Venti fermi della Procura antimafia di Catanzaro. Storie di guerre di mafia, di faide, nel Vibonese, a Sant’Onofrio e Stefanaconi. In tempi di “femminicidio”, di violenze contro le donne, questo squarcio di vissuto di donne calabresi fa accapponare la pelle. C’è una ragazza che parla della zia. I nomi li omettiamo perché i fermi sono ancora in corso: “ Sì, però sapevo già che doveva essere l’ultimo ucciso, perché un giorno mia zia ha fatto proprio la precisazione al figlio, mia zia (omissis) gli ha detto che l’ultimo deve essere Franco Meddis e deve essere ucciso davanti al garage che è a fianco la porta di entrata di mia zia e che quindi il sangue deve scorrere proprio davanti alla sua porta”. Storia di vendette. E’ un tuffo nel passato, nel Medioevo che ancora resiste nel terzo millennio. In Calabria, mica su Marte.

Le venti persone sottoposte a fermo dai Carabinieri su disposizione della Dda di Catanzaro nell’ambito di un’inchiesta sulla faida in corso tra cosche di ’ndrangheta del vibonese sono accusate, a vario titolo, di tre omicidi e quattro tentati omicidi. I provvedimenti sono stati eseguiti in varie località delle province di Vibo, Reggio Calabria e Viterbo, dai militari del Comando provinciale di Vibo, supportati da quelli dell’Arma locale, dello Squadrone Cacciatori e della Compagnia Speciale e dell’ottavo Nucleo Elicotteri.

Le indagini, condotte dai carabinieri del Nucleo investigativo con il supporto di analisi informativa del Ros, secondo gli investigatori ha fatto luce sugli omicidi di Michele Mario Fiorillo, commesso a Francica il 16 settembre 2011, di Giuseppe Matina, commesso a Stefanaconi il 20 febbraio 2012, e di Francesco Scrugli, commesso a Vibo il 21 marzo 2012. Inoltre sarebbero stati individuati gli autori del tentato omicidio compiuti una prima volta ai danni degli stessi Giuseppe Matina (Stefanaconi 27 dicembre 2011) e Francesco Scrugli (Vibo Valentia 11 febbraio 2012), oltre a quello di Francesco Calafati, commesso a Stefanaconi il 21 marzo 2012 e di Francesco Nazzareno Meddis, commesso a Stefanaconi il 26 giugno 2012.

La Regione Sicilia licenzia l’ufficio stampa milionario


Il presidente Crocetta vuol dare il benservito ai 21 caporedattori assunti

laura anello
palermo
La squadra dei record. Oggetto di invidie, contestazioni, denunce alla Corte dei Conti. Perché assunti senza concorso in un’amministrazione pubblica. Perché inquadrati con la qualifica di caporedattore dal primo minuto di gioco. Perché molto numerosi: quattro volte di più della squadra in servizio a Palazzo Chigi in epoca Berlusconi.

Adesso i ventun giornalisti assunti nell’Ufficio stampa della Regione siciliana sono precipitati dall’empireo della professione alla polvere dell’annunciato licenziamento.

È stato il neo-governatore Rosario Crocetta - che pure ha detto di voler garantire le truppe di 26 mila forestali e dei 22 mila precari degli enti locali - a decidere di avviare la sua campagna anti-sprechi proprio da loro. Arruolati in gran parte nell’epoca del munifico Cuffaro. Il quale prima ampliò l’organico da quattro a otto e poi aprì le porte ad altri quindici giornalisti, applicando a tutti il contratto da caporedattore e pure un’indennità pari a quella della Rai. In tutto 23, diventati 21 dopo un pensionamento e il coraggioso addio di Giulio Ambrosetti, che rinunciò al posto d’oro restando disoccupato per la semplice ragione che dentro il palazzo non si divertiva per niente. «Torno alla libertà», spiegò agli amici.

Rinuncia non da poco. Perché la busta paga dei componenti dell’ufficio stampa va da quattromila a seimila euro netti, con l’eccezione di Gregorio Arena - in servizio nella sede di rappresentanza della Regione a Bruxelles - accusato da Crocetta di percepire 12 mila euro. In totale l’ufficio costa 3 milioni e 200 mila euro l’anno, «una cifra con cui si pagano duecento precari, gente che guadagna 600 euro al mese e che non può comprare il latte ai figli», dice Crocetta. E pazienza se, accanto a professionisti stimati e di esperienza, furono assunti principianti che in un giornale non erano mai entrati. Uno, in particolare, sul cui nome ci fu una levata di scudi, diventò pubblicista (il primo gradino della carriera) pochi giorni prima di firmare il contratto d’oro. Tutti impegnati a redigere e diffondere comunicati sull’attività del presidente e della giunta, a organizzare conferenze stampa, a realizzare un tg che va sul web. Per l’assunzione nessuna selezione pubblica, solo un tam tam che fece arrivare alla Regione, in pochi giorni, un centinaio di istanze.

«Secondo me con ventuno capiredattori si stampano Repubblica e Corriere della Sera insieme, questo è diventato un posto fisso senza concorso - taglia corto Crocetta - Adesso si avvia una selezione, perché uno non può fare il portavoce di una voce che non gli è vicina. Se fanno vertenza? Che la facciano». Questione di lana caprina, perché da un canto i giornalisti hanno in mano un contratto a tempo indeterminato, dall’altro il presidente ha una sentenza della Corte dei Conti secondo cui «il rapporto di collaborazione professionale è caratterizzato da assoluta precarietà nel senso che in qualsiasi momento può essere oggetto di risoluzione» perché di natura fiduciaria. Fu proprio la Corte dei Conti, pochi mesi fa, a salvare in appello Cuffaro, il suo successore Lombardo e l’ex capo dell’ufficio legale dalla condanna in primo grado da circa 6 milioni di euro per danno all’erario. Una vittoria incassata dall’ufficio stampa come il timbro sulla legittimità della loro assunzione.

Adesso la doccia fredda. Loro hanno proclamato lo stato di agitazione («Qualsiasi decisione non può essere assunta se non attraverso il rispetto delle norme previste dal contratto di lavoro dei giornalisti e dallo Statuto dei lavoratori», ha detto il Comitato di redazione, sostenuto da sindacato nazionale e regionale), mentre l’Ordine è sceso in campo a difesa delle regole. «Non parla, Crocetta, di concorsi e selezioni trasparenti, ma di curricula che gli si dovranno presentare e che egli stesso intende verificare», dice il presidente dell’Ordine siciliano, Riccardo Arena. Crocetta rilancia: «Da sindaco di Gela ho licenziato la moglie di un capomafia, figurarsi se mi faccio intimidire dalla casta dei giornalisti».

Una lotta per emanciparsi dal clan alla base della faida vibonese

Genesi della lunga serie di omicidi, 3 in tutto, e di tentati omicidi, 6 in tutto, verificatisi in questi mesi nel vibonese sarebbe la volontà da parte dei "Piscopisani" di sganciarsi dal clan Mancuso e aggregarsi ai clan Reggini



VIBO VALENTIA – La 'società' di Piscopio voleva staccarsi dalla cosca dei Mancuso per rispondere alla 'ndrangheta della fascia jonica reggina. Sarebbe questa la motivazione che avrebbe scatenato la faida tra gli esponenti della cosca di Piscopio e quella dei Patania di Stefanaconi, nel vibonese. I particolari delle indagini della Dda di Catanzaro che hanno portato al fermo di 13 persone sono stati illustrati stamane nel corso di una conferenza stampa a Vibo Valentia alla quale hanno partecipato il sostituto procuratore della direzione nazionale antimafia, Maria Vittoria De Simone; il procuratore di Catanzaro e capo della Dda, Vincenzo Antonio Lombardo; ed il procuratore aggiunto del capoluogo calabrese, Giuseppe Borrelli. Dalle indagini è emerso che quando la 'società' di Piscopio uccise Fortunato Patania, ritenuto dagli investigatori il boss della cosca di Stefanaconi e luogotenente della cosca dei Mancuso, si scatenò una vera e propria guerra tra i due gruppi criminali. La cosca dei Mancuso avrebbe anche «soffiato il vento della vendetta – è stato detto in conferenza stampa – sul gruppo dei Patania di Stefanaconi fornendo loro uomini e mezzi per sterminare gli esponenti della cosca di Piscopio». Durante la conferenza stampa il sostituto procuratore della Dna, De Simone ha detto che «su Vibo Valentia c'è la massima attenzione. Vibo rappresenta una emergenza assoluta per l'allarme sociale provocato dai fatti di sangue che si sono susseguiti con violenza impressionante». Il capo della Dda di Catanzaro ha affermato che «abbiamo in mano materiale per sviluppare ulteriori e importanti indagini che ci consentiranno di infondere quella fiducia che la gente chiede nelle istituzioni». Il Procuratore aggiunto Borrelli ha ricordato, infine, che la Dda ha un «quadro assolutamente chiaro. Così come è avvenuto per Lamezia Terme anche a Vibo Valentia siamo a conoscenza dei protagonisti dei fatti che sono avvenuti. Non abbiamo solamente il quadro completo sui fatti di sangue ma anche sui reati associativi sui quali, al momento, non stiamo procedendo».
Il blitz dei carabinieri del Ros e del Nucleo investigativo era scattato questa mattina con l'esecuzione di 13 fermi di indiziato di delitto per altrettante persone ritenute gravemente indiziate per omicidio, tentato omicidio e porto e detenzione abusiva di armi, il tutto aggravato dalle modalità mafiose. L’indagine completata dai militari è stata denominata “Gringia”. Gli indagati sono ritenuti responsabili, a vario titolo, degli omicidi di Michele Mario Fiorillo, avvenuto a Francica il 16 settembre 2011, di Giuseppe Matina, commesso a Stefanaconi il 20 febbraio del 2012 e Francesco Scrugli, commesso a Vibo Valentia il 21 marzo 2012; nonché del tentato omicidio di Giuseppe Matina (commesso a Stefanaconi il 27 dicembre 2011), di Francesco Scrugli, commesso a Vibo Valentia l’11 febbraio 2012, di Francesco Calafati (commesso a Stefanaconi il 21 marzo 2012) e di Francesco Nazzareno Meddis (commesso a Stefanaconi il 26 giugno 2012). Prologo della faida che sta insanguinando da poco più di un anno l'area della provincia compresa tra Vibo, le frazioni Marina e Piscopio, e Stefanaconi, le uccisioni dell'agricoltore Michele Mario Fiorillo e quella di Fortunato Patania (considerato vertice dell'omonimo gruppo), avvenute a distanza di 48 ore. I provvedimenti sono stati eseguiti in varie località delle province di Vibo, Reggio Calabria e Viterbo, dai militari del Comando provinciale di Vibo, supportati da quelli dell’Arma locale, dello Squadrone Cacciatori e della Compagnia Speciale) e dell’ottavo Nucleo Elicotteri.

Agguato in un'officina a Gioiosa

Un morto e un ferito grave

Una persona è morta e una è rimasta ferita dopo un agguato criminale avvenuto a Gioiosa Jonica, in località Mazzarella. La vittima è un cliente dell'officina davanti alla quale è avvenuta la sparatoria: i killer hanno colpito da un'auto in corsa. Una terza persona sfiorata da un proiettile

UNA persona è morta e una è rimasta ferita dopo un agguato criminale avvenuto a Gioiosa Jonica, in località Mazzarella. La vittima è Giuseppe Parrelli, 50 anni, un cliente dell'officina nella quale è avvenuta la sparatoria. I killer lo hanno colpito aprendo il fuoco da un'auto in corsa. Sono almeno quattro proiettili esplosi. Raggiunto dagli spari anche un altro uomo, si tratta di Giovanni Schirripa, 26 anni, una delle persone che lavorano nell'officina e che ora è in gravi condizioni. Suo suocero, Domenico Commisso è stato invece sfiorato dai proiettili ed è uscito illeso.
Sul posto si trovano i carabinieri che hanno avviato le indagini, per capire intanto se davvero fosse Schirripa l'obiettivo dei sicari. L'uomo era un impiegato dell'Afor e le indagini per ora stanno orientandosi sull'ipotesi di una vendetta. Il titolare dell’officina, Donato Commisso, non è legato da vincoli familiari con l’omonima cosca di 'ndrangheta. Un rompicapo, dunque, per i carabinieri e per il pm di turno della Procura della Repubblica di Locri, Giuseppe Adornato. Si sta scavando nel passato e nelle frequentazioni di Giuseppe Parrelli, ma, al momento, non sarebbe emerso nulla che possa motivare in qualche modo l’omicidio. Commisso non avrebbe fornito agli investigatori particolari utili alle indagini, riferendo di non avere visto nulla. Il sospetto dei carabinieri, inoltre, è che sul posto, nel momento dell’agguato, ci fossero altre persone che hanno pensato bene di allontanarsi in tutta fretta per evitare di dovere testimoniare. L

Abusava del figlio di 10 anni vestita da suora: arrestata

A scoprire la donna, che utilizzava croci per seviziare il figlio, è stato l'accesso, da parte di agenti sotto copertura della polizia postale di Catania, a un database pedopornografico con cinque milioni di file, trovato in una zona di Internet chiamata Deep web
 

 
CATANIA. Una quarantenne, accusata di avere abusato sessualmente del figlio di 10 anni travestita da suora, è stata arrestata alla polizia postale di Catania nell'ambito di un'operazione antipedofilia e antisatanismo. Il provvedimento è stato eseguito il mese scorso, ma la notizia è trapelata soltanto oggi. Nei confronti dell'indagata è stata emessa dal Gip un'ordinanza di custodia cautelare, su richiesta della Procura della Repubblica, che ipotizza il reato di abusi sessuali su minorenni e produzione di materiale pedopornografico. A scoprire la donna, che utilizzava croci per seviziare il figlio, è stato l'accesso, da parte di agenti sotto copertura della polizia postale di Catania, a un database pedopornografico con cinque milioni di file, trovato in una zona di Internet chiamata Deep web. Gli investigatori l'hanno identificata presentando una relazione alla magistratura. La notizia dell'arresto non è stata diffusa subito per non compromettere le indagini.

venerdì 16 novembre 2012

Faida Scampia/ Joe Banana confida:

«Questa guerra durerà altri 50 anni»


NAPOLI - Le braccia muscolose le ha piene di tatuaggi. Parla in dialetto in slang stretto, alternato a frasi forzate in italiano. Rosario Guarino fa parte della generazione figlia di quei capi che animarono la prima faida di Scampia. A Vanella Grassi lo chiamano Joe Banana da quando era adolescente. Niente a che vedere con il famoso boss americano Joseph Bonanno, detto Bananas, dei primi del Novecento. Il soprannome affibbiatogli dai «compagni» è legato al film di Steno del 1982 Banana Joe, interpretato da Bud Spencer. Mangiava molte banane, Guarino, ed era anche molto grasso, così gli amici gli dissero: «Uà, ti stai facendo troppo chiatto. Mangi troppe banane, come a Bud Spencer nel film».

Il soprannome è etichetta duratura, che identifica in certi ambienti più di un nome anagrafico. Da anni, Rosario Guarino è Joe Banana. Quando gli agenti lo hanno arrestato, non si è scomposto. Si è lasciato però andare, con pacatezza, a considerazioni. Forse per stemperare la tensione. Considerazioni da capo: «Quando io uscirò, voi sarete andati tutti in pensione, lo so».

Poi su Scampia e la faida: «Questa è una guerra trasversale che andrà avanti per altri 50 anni, senza regole. Non stiamo comandando più un cazzo, siete voi poliziotti che ci state distruggendo». E poi Secondigliano, il quartiere che con il clan Licciardi riuscì negli anni Novanta a diventare egemone nelle geografie della camorra cittadina prima dominata dai gruppi del centro storico, come i Giuliano di Forcella. L’area nord, periferia del degrado della 167 e della disperazioni di drogati in cerca di dosi nei pressi del Sert aperto in quell’area per la distribuzione del metadone ai tossicodipendenti da disintossicare. Periferia nord, dominio di gruppi di spaccio in aree assegnate, sotto il controllo dei clan.

Chi ci è nato e ci è cresciuto, attratto dai guadagni della droga e dalla sottocultura dei clan, si è nutrito del mito del quartiere. Joe Banana ne è figlio e ricorda un’altra Secondigliano, quella dei Licciardi o di Aniello La Monica, poi anche di Paolo Di Lauro. Allora era un ragazzino, ma con gli agenti Guarino si è sfogato: «C’è una guerra tra noi di Secondigliano, ma prima eravamo davvero tutti uniti. Una cosa sola».

Nei documenti giudiziari, viene considerato un capo con Mario Riccio e Antonio Mennetta. Nell’ordinanza di custodia cautelare del marzo scorso, i magistrati lo accusano di essere tra i promotori dei «girati» che si contrappongono al clan Amato, storico gruppo di scissionisti. Sono i rampanti, i giovani di Vanella Grassi una volta legati al clan Di Lauro. Poi divennero scissionisti e in seguito scissionisti degli scissionisti, alleati di nuovo dei Di Lauro.

Rosario Guarino è tra i più decisi. Nelle informative di polizia e nelle indagini della Dda napoletana lo considerano responsabile, mandante o esecutore, di non meno di una decina di omicidi. Per ora, nell’unica ordinanza firmata nei suoi confronti, quella per cui era latitante, figura solo l’accusa di associazione camorristica.

Per interrogarlo, il pm Maurizio De Marco è tornato da una missione in Spagna. È la dimostrazione che l’arresto di Joe Banana viene considerato tappa importante nelle indagini sulla seconda faida di Scampia. All’appello, però, mancano ancora gli altri quattro.

g.d.f.

Blitz dei carabinieri a Commenda di Rende Arrestato il superlatitante Lanzino

ERA ricercato da anni e il suo nome era in cima alla lista per la Dda. Ora la sua fuga è finita. Ettore Lanzino, il superlatitante cosentino, è caduto nella rete dei carabinieri che lo hanno preso al termine di un'operazione a Commenda di Rende. Si nascondeva in una mansarda

di ROBERTO GRANDINETTI

ERA ricercato dal 2008, ma la sua latitanza è finita questa sera. Ettore Lanzino, 57 anni, il superboss cosentino, il numero uno nella lista dei personaggi a cui si dava la caccia in riva al Crati e uno dei cento più ricercati d'Italia, è caduto nella rete dei carabinieri che lo hanno preso al termine di una vasta operazione condotta dai Ros, con l'ausilio del reparto Cacciatori. Il padrino si era rifugiato in una mansarda a Commenda di Rende, nel Residence Park di via Adige: un rifugio molto spartano, con un cucinino, un bagno e poco più. Ed è lì che i militari lo hanno sorpreso nella serata di oggi. I militari hanno circondato la zona e poi hanno bussato alla porta. Sarebbe stato proprio Lanzino ad aprire e non avrebbe opposto resistenza. E' stato poi fermato anche un altro uomo, bloccato mentre portava derrate alimentari a casa del latitante: si tratta di Umberto Di Puppo, fratello di Michele, considerato boss dell'omonimo clan di Rende.

Lanzino era ricercato per quattro ordinanze di custodia cautelare per associazione mafiosa ed omicidio. Nell’aprile scorso, inoltre, era stato condannato all’ergastolo in primo grado dalla Corte d’assise di Cosenza come mandante di due omicidi compiuti nel 1999 e inseriti nell’ambito dello scontro tra cosche di Cosenza e della zona tirrenica per il controllo degli appalti.

Sfuggì alla cattura quattro anni fa, quando scattò l'operazione Terminator contro le cosche bruzie. I pentiti lo avevano accusato di essere al vertice della criminalità organizzata cosentina insieme all'altro boss Cicero. «Cicero - ha detto Vincenzo Dedato durante un interrogatorio - era detenuto per quanto riguarda il Garden, e la stessa cosa Lanzino. Alla loro uscita diciamo, nel momento in cui hanno stretto questa alleanza. questo accordo, poi eravamo tutti, io ero già fuori, e quindi diciamo loro predisponevano a raccogliere le estorsioni diciamo nella città di Cosenza, nei vari negozi ed attività commerciali, noi invece abbiamo svolto l'attività estorsiva nei confronti delle aziende dell’autostrada». Alla domanda su chi prese la decisione di uccidere Vittorio Marchio così ha risposto Dedato: «Fu presa da Cicero, da Lanzino, c'era pure Chiodo. Poi - ha aggiunto - non erano discussioni organizzate e schematizzate, cioè ci si trovava per prendere un caffè in un bar e dice “c'è questo che da fastidio, vediamo come possiamo fare.”».
Ma il nome di Lanzino figura anche nell'inchiesta Terminator 4, quella che proprio ieri ha portato all'arresto dell'ex sindaco di Rende Umberto Bernaudo e dell'ex vicesindaco Pietro Ruffolo. La stessa per la quale è stata notificata in carcere un'ordinanza anche a Michele DI Puppo, il fratello di Umberto, scoperto proprio mentre portava cibo a Lanzino.

«Con la cattura di Ettore Lanzino lo stato si riappropria del territorio di Cosenza e di Rende» ha detto all’Ansa il Procuratore della Repubblica e capo della Dda di Catanzaro, Vincenzo Antonio Lombardo. «Il Ros ed i carabinieri del Comando provinciale di Cosenza - ha aggiunto – hanno compiuto una grossa operazione. L’arresto di Lanzino non è stato certo un caso ma è il frutto di una intensa attività che andava avanti da giorni e che ci ha portato a localizzarlo nella zona dove poi lo abbiamo arrestato. Ai carabinieri ed ai colleghi della Dda che hanno coordinato l’attività va tutto il plauso per questa brillante operazione. Da parte mia c'è piena soddisfazione per questo arresto, che azzera totalmente i latitanti nella zona del cosentino».

Il pentito al processo: «Il boss Lo Giudice mi disse che a informarlo era un capitano dei carabinieri»

Nove ore di deposizione al tribunale di Reggio Calabria per il collaboratore di giustizia Consolato Villani, nel procedimento Meta contro trenta presunti affiliati alle cosche. Ricostruiti in udienza omicidi ed estorsioni. Poi arriva la rivelazione: «L'ufficiale era un amico del clan»



E' DURATA nove ore la deposizione del pentito Consolato Villani nel processo Meta, in corso a Reggio Calabria, a trenta presunti affiliati alle più importante cosche cittadine della 'ndrangheta, accusati, a vario titolo, di associazione mafiosa, traffico d’armi, estorsione e riciclaggio.
L’udienza è stata occupata interamente dall’esame e dal controesame da parte del pm Giuseppe Lombardo e dei difensori di Villani, che è il cugino del boss, anch’egli collaboratore di giustizia, Antonino Lo Giudice, che si è autoaccusato degli attentati alla procura generale ed all’abitazione del pg Salvatore Di Landro, oltre che dell’intimidazione all’ex Procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone. Il pentito ha anche riferito di avere appreso da Nino Lo Giudice che l’ex capitano dei carabinieri Saverio Spadaro Tracuzzi, già in servizio alla Dia di Reggio Calabria ed attualmente detenuto, era solito incontrarsi in un bar di proprietà di Luciano Lo Giudice, con quest’ultimo e con Nino Lo Giudice. Nel corso degli incontri, secondo Villani, Spadaro Tracuzzi informava i capi della cosca Lo Giudice sulle imminenti operazioni contro la 'ndrangheta. «Nino Lo Giudice mi diceva - ha affermato Villani – che Spadaro Tracuzzi era un nostro amico».
  
La deposizione di Villani ha riguardato una serie di omicidi tra cui quelli di Francesco Liuzzo, imprenditore edile, ucciso negli anni '80 durante la seconda guerra di mafia da Salvatore Lo Giudice, fratello di Nino, e da Giovanni Chilà; di Francesco Stillitano, eseguito da Giovanni Chilà, e di Antonino Rosmini voluto nel 1986 da tutte le cosche ed eseguito da Pino Morabito, anche lui successivamente pentitosi. Villani ha fatto anche riferimento al traffico d’armi nell’ambito del quale la cosca Lo Giudice era in grado, secondo Villani, di reperire sul mercato consistenti quantitativi di kalashnikov che arrivavano a Reggio Calabria occultati tra i carichi di frutta e verdura destinati ai mercati generali di Reggio Calabria, controllati dagli stessi Lo Giudice.
Il pentito ha anche illustrato il sistema delle estorsioni gestite dalla cosca Lo Giudice nel quartiere Santa Caterina di Reggio Calabria nel quale lo stesso pentito ha svolto un ruolo attivo, per sua stessa ammissione, sin da quando era poco più che un ragazzo. «Pagavano quasi tutti – ha detto Villani - giornalmente ed in proporzione ai loro guadagni».

Valle dei Templi, proprietari demoliscono immobili abusivi


Diciotto costruzioni buttate giù. Il fascicolo della Soprintendenza venne aperto tre anni fa.


AGRIGENTO. Diciotto immobili abusivi, costruiti nel parco archeologico di Agrigento, sono stati demoliti dagli stessi proprietari. Il fascicolo della Soprintendenza, l'ennesimo, contro l'abusivismo edilizio nella valle dei Templi, venne aperto tre anni fa.

«L'ultima demolizione - ha detto il dirigente dell'unità operativa archeologica Bernardo Agrò al Giornale di Sicilia - risale allo scorso 19 ottobre ed ha riguardato l'ampliamento, abusivo, di un vecchio fabbricato. Ad agosto era toccato, invece, ad un intero immobile in via Cavaleri Magazzeni. Abbiamo in corso nuove procedure - ha aggiunto Agrò - che riguardano altri due immobili e i proprietari si sono già mostrati disponibili ad abbattere». Alla Soprintendenza di Agrigento si parla pertanto di «svolta sociale». Sono infatti lontani i tempi in cui per demolire un immobile abusivo nella valle dei Templi arrivò l'Esercito.

Violenta e mette incinta la figlia: arrestato

La ragazza, ora maggiorenne, ha partorito il bambino. Imposto il divieto di vedere la figlia a un 46enne palermitano. Indagini ostacolate dall'omertà degli altri familiari
 
PALERMO. Ha costretto la figlia minorenne ad avere rapporti sessuali con lui. La ragazza ora maggiorenne é rimasta anche incinta ed ha recentemente dato alla luce un bambino. Una turpe vicenda quella scoperta a Palermo dagli agenti della polizia di Stato che hanno disposto una misura cautelare per un 46enne accusato di avere violentato e maltrattato la figlia.

All'uomo è stato imposto l'allontanamento dal domicilio e il divieto di vedere la ragazza. Le indagini sono state ostacolate dall'atteggiamento omertoso degli altri familiari che intendevano evitare "scandali" e volevano costringere la loro congiunta ad abortire.

Gli investigatori dopo alcuni accertamenti hanno dimostrato che il neonato era figlio del padre della ragazza. La storia è stata scoperta dagli agenti in seguito alla segnalazione giunta loro da una fonte confidenziale.

L'uomo successivamente è stato arrestato. Una misura affermano gli investigatori scattata dopo
che è stato accertato che l'indagato avrebbe tentato di incontrare la figlia per tentare di condizionarla psicologicamente.

Mafia, sequestro da 5 milioni a un uomo di Messina Denaro


Nel mirino della Dia Leonardo Ippolito, 57 anni, ritenuto uomo d'onore della famiglia mafiosa di Castelvetrano e tra i favoreggiatori della latitanza del capomafia. Tra i beni finiti sotto sequestro un compendio aziendale, fabbricati, terreni, auto e una barca
TRAPANI. La Direzione investigativa antimafia (Dia) di Trapani ha sequestrato beni riconducibili a Leonardo Ippolito, 57 anni, ritenuto uomo d'onore della famiglia mafiosa di Castelvetrano e tra i favoreggiatori della latitanza del capomafia Matteo Messina Denaro. Il valore del patrimonio sequestrato è di 5 milioni di euro.Tra i beni finiti sotto sequestro figurano